Alla fine del primo libro abbiamo lasciato Cesare ad amministrare la giustizia nelle sue Province, seduto in Gallia Cisalpina per sentire senza troppo ritardo quel che succede a Roma. Le sue legioni stanno svernando tra i Sèquani sotto il vigile occhio di Tito Labieno.
In questo abisso di noia giunge notizia che i Belgi stanno cospirando contro Roma e si scambiano ostaggi. Temono che Cesare, conquistati due terzi della Gallia, voglia mangiarsi anche il resto. Dunque il nostro eroe arruola altre due legioni, portandosi ad otto (VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII e XIV, in ordine: le tre di Aquileia, l’unica gallica, le due della Cisalpina dell’anno scorso e le ultime di reclute, sempre della Cisalpina) e incarica il legato Quinto Pedio di portarle in Gallia. Cesare lo raggiunge una volta procuratosi il foraggio. Siamo all’inizio della stagione di guerra del 57 a.C.*
La prima cosa di cui si preoccupa è ottenere informazioni su questi Belgi: ne incarica i Sèquani e i loro confinanti. Risulta che i nemici effettivamente si stanno armando e stanno ammucchiando uomini in un solo punto. Cesare parte e in quindici giorni di marce forzate è sul confine. Questo stupisce i Remi, il popolo belgico stanziato in quella zona, che gli mandano due nobili (gli impressionanti Iccio e Andocumborio) a dire che non sono d’accordo con gli altri e che aiuteranno Cesare in qualunque modo egli disporrà. Riferiscono che tutte le altre genti sono già in armi, compresi i Germani al di qua del Reno. Cesare insiste per altre informazioni, e viene a sapere che i Belgi sono così forti perché discendono dai Germani che anticamente avevano passato il Reno e scacciato i Galli dal nord. Tra loro, i più numerosi sono i Bellovaci, che possono mettere in campo un massimo di 100.000 ma ne offrono prudentemente ‘solo’ 60.000. Al secondo posto ci sono i Suessioni, loro confinanti. Il loro re, Galba, è stato eletto comandante supremo. Possiedono dodici città e promettono 50.000 armati. Altrettanti ne hanno i Nervi, che sono insediati più a nord di tutti. Poi ci sono 40.000 Germani, ripartiti in Condrusi, Eburoni, Cerosi e Pemani e 106.000 altri Belgi (Atrebati, Ambiani, Morini, Menapi, Caleti, Veliocassi, Viromandui, Aduatuci): 306.000 soldati in tutto contro meno di 40.000 Romani e una manciata di ausiliari. Si preannuncia proprio una bella guerra!
Cesare prende ostaggi tra i Remi e parla con Diviziaco, princeps degli Edui. Dice che bisogna tenere divise quelle forze soverchianti, quindi lo spedisce ad invadere e saccheggiare le terre dei Bellovaci. Questo è un compito all’altezza dei Galli. Subito dopo viene avvistato l’esercito belgico in marcia verso i Romani, e allora Cesare prende le legioni e corre ad attraversare il fiume Axona, nel nord delle terre dei Remi. Si accampa con un fianco protetto dal corso del fiume: è stufo di restare senza rifornimenti! Ha usato un ponte, che fa presidiare da sei coorti (diciamo, 3000 legionari o qualcosa in più) e dal legato Quinto Titurio Sabino. Poi fortifica il suo castra con un trinceramento alto dodici piedi (tre metri e mezzo) preceduto da un fossato largo 18 piedi (cinque metri e mezzo).
I Belgi si dirigono verso una città dei Remi, Bibracte**, a dodici chilometri da Cesare, e la assaltano. Gli assediati resistono con coraggio fino a sera, ma annunciano a Cesare che se non dà loro una mano dovranno capitolare. Tra parentesi, Galli e Belgi hanno lo stesso modo di ‘assediare’ un oppidum, una città-fortezza: si dispongono ad anello tutt’intorno ad esso, scagliano pietre e, quando i difensori si allontanano dalle mura, formano la testuggine, incendiano le porte e si danno all’arrampicata. Rozzo all’inverosimile…
I rinforzi consistono in cavalieri Numidi, arcieri cretesi e frombolieri delle Baleari, cioè tutto il materiale sacrificabile. I Belgi si lasciano scoraggiare, tolgono l’assedio e si danno al saccheggio dei campi circostanti. Poi puntano i Romani. Si attestano a tre chilometri da loro e, a giudicare dai fuochi che accendono, l’accampamento barbaro si estende per più di otto miglia, cioè dodici chilometri.
Cesare si limita a stuzzicare il nemico con la sola cavalleria. Vede che il morale dei suoi uomini è alto: si può tentare una battaglia come si deve, prima che arrivino i rinforzi promessi da mezza Gallia.
Ora, l’esercito romano è seduto su un colle scosceso sui lati, con una specie di rampa sul davanti che digrada a valle. Cesare se ne compiace e dota i fianchi di due fossati perpendicolari al fronte lunghi trecento metri, alle cui estremità pone le sue macchine da guerra: impediranno l’accerchiamento.
Tra i due schieramenti c’è una piccola palude (che Cesare, in un attacco di Sindrome da Cicerone, definisce “Non magna“…): entrambe le parti attendono che l’altra la attraversi e si trovi impantanata, ma ovviamente nessuno si muove, quindi i Romani tornano dentro il castra. I nemici si svegliano dal coma e li inseguono fino al fiume, trovando i guadi e cercando di distruggere il ponte ed espugnare la fortificazione di Sabino, o al limite tagliare le vie di rifornimento.

Battaglia sull’Axona: i Belgi commettono l’errore di passare il fiume, dividendosi; Sabino e le sue sei centurie sembrano un boccone facile.
Sabino informa l’imperator, che prende Numidi, frombolieri e sagittari e attraversa anch’egli il ponte. E qui io mi domando e dico: Ma diavolo, ‘sti barbari non sono buoni nemmeno a far crollare un ponte? Evidentemente no, perché Cesare attacca i nemici mentre sono ancora intenti al guado, ne uccide moltissimi e respinge i superstiti che provano a passare sui cadaveri delle prime file. Quindi i Belgi, sebbene sempre in schiacciante superiorità numerica, desistono dal loro intento come a Bibracte e si ritrovano pure senza cibo. Consapevoli che gli Edui stanno attaccando i Bellovaci, la decisione comune è che ogni popolo si ritiri per conto suo nelle proprie terre, per poi raggiungere la prossima destinazione di Cesare e riunirsi per schiacciarlo. Così, oltretutto, combatteranno sempre in territorio conosciuto.
Perché non sembra affatto una buona idea?
Ora c’è solo da uscire. I barbari, come al solito, ci deludono non escogitando alcuna tattica più avanzata del “Si salvi chi può!”: alle nove di sera si gettano fuori nel caos più totale, senza nemmeno sapere dove siano i comandanti o quale direzione prendere. Addirittura si mettono a bisticciare per l’assegnazione del primo posto nell’ordine di marcia. Ai Romani sembra una fuga, altro che ritirata strategica. Cesare stesso, temendo che sia un trucco, preferisce non spostarsi fino all’alba, quando gli speculatores gli riferiscono che non c’è anima viva intorno. Allora capisce che è stato giocato e lancia la cavalleria in un furioso inseguimento. I comandanti dei cavalieri sono Quinto Pedio e Aurunculeio Cotta, e hanno ordine di attaccare solo la retroguardia. Con loro viene spedito Labieno, il “Cesare da viaggio” a quanto pare, con tre legioni: lui deve impegnare i Belgi e la cavalleria. Dunque Labieno, Pedio, Cotta, tre legioni e la cavalleria inseguono per molte miglia i Belgi, facendone strage. È colpa della tracotanza dei barbari: mentre la retroguardia belgica riesce a sostenere l’urto dei Romani, l’avanguardia, diverse miglia più avanti, si sente al sicuro. Poi vede la battaglia e fugge verso i quattro punti cardinali. Così i Romani banchettano con i Belgi per tutto il giorno e al tramonto tornano al castra, da Cesare.
Il giorno dopo si riprende il tour in mezzo ai ribelli, per smontarli uno ad uno. È la volta dei Suessioni, confinanti coi Remi. Cesare va dritto alla capitale, Novioduno. Sa che è mal protetta, perché tutte le forze sono state mandate al fronte comune e non sono ancora tornate, quindi inizia l’assedio appena arrivato. Effettivamente i difensori sono pochi, ma il fossato che protegge l’oppidum è largo e le mura sono alte: non può prenderlo così. Allora, armato di pazienza, si accampa per bene e tira fuori le macchine da guerra. La notte dopo i reduci della “guerra” tornano in città e vi si barricano. E qui Cesare ci dona uno dei brani più belli che abbia mai letto:
Ma, quando lo scavo delle gallerie fu spinto presso le mura, il terrapieno fu terminato e le torri innalzate, i Galli, colpiti dalla celerità dei Romani e dalla grandezza di quelle opere militari che non avevano mai visto e di cui non avevano mai sentito parlare, mandarono a Cesare ambasciatori per trattare la resa e, per intercessione dei Remi, ottennero di conservare vita e libertà.
Meglio in latino:
Celeriter vineis ad oppidum actis, aggere iacto turribusque constitutis magnitudine operum, quae neque viderant ante Galli neque audierant, et celeritate Romanorum permoti legatos ad Caesarem de deditione mittunt et petentibus Remis ut conservarentur impetrant.
Non è tutto molto semplice? Questi barbari non sono poi così valorosi e votati alla guerra come millantano. Non così i Nervi, come vedremo. Dunque Cesare prende ostaggi ai Suessioni, toglie loro tutte le armi e accetta la resa. Poi punta verso i Bellovaci, i potenti e numerosi Bellovaci. Questi prendono tutto quello che riescono a trasportare e si arroccano nell’oppidum chiamato Bratuspanzio [hihihi!]. Quando i Romani arrivano nei pressi del borgo, però, tutti gli anziani ne escono e assicurano che non combatteranno (Cesare non lo dice perché ha il cuore tenero, ma io scommetto che piangono… come hanno fatto tutti gli altri popoli, del resto). I Romani si accampano sotto le mura, da dove anche le donne si sporgono tendendo le braccia e lamentandosi.
Intanto Diviziaco, dopo la dispersione dei Belgi, ha congedato i suoi ed è tornato da Cesare. Lo implora di risparmiare i Bellovaci, che sono sempre stati amici degli Edui e sono entrati in guerra solo perché pensavano che Roma schiacciasse i suoi alleati: se Cesare sarà buono, gli Edui, e dunque anche i Romani, diventeranno potentissimi. In più i capi dei ribelli sono fuggiti a nord, in Bretagna o anche oltre la Manica, per cui non c’è pericolo.
E così è che Roma accetta la resa, previa consegna di addirittura seicento ostaggi e disarmo, e va ad impestare le terre degli Ambiani. Anche qui tutto liscio come una buccia di banana, perché si arrendono sine mora. Ma poi arriva il bello – per noi lettori – , oppure il brutto – per i soldati – : siamo sul confine coi Nervi.
I Romani sanno pochissimo di loro. Infatti dallo spionaggio vengono a sapere che questo popolo non lascia passare i mercanti sulle sue terre, né compra o vende vino o prodotti di lusso: sono quel che si dice uomini feri magnaeque virtutis, “rudi e di grande valore militare”, che non si lasciano corrompere dagli agi. Criticano aspramente i Belgi per essersi lasciati sconfiggere con un rapporto di forze di 7:1 per loro, e non manderanno ambasciatori a Cesare, né accetteranno le loro condizioni di pace.
Dopo tre giorni di circospetto ma pacifico avanzamento in territorio nervio, i Romani giungono a diecimila passi (15 km) dal fiume Sabis, oltre il quale li aspettano i Remi. Col nemico ci sono anche Atrebati e Viromandui, alleati che si sono autoinvitati alla festa, e si attendono rinforzi dagli Aduatuci. Vecchi, donne e bambini sono stati radunati in un luogo protetto dalle paludi.
Cesare manda esploratori e centurioni a scegliere un luogo dove accamparsi. Intanto, alcuni dei Belgi e dei Galli arresisi e accodatisi all’esercito vanno a riferire ai Nervi che ciascuna delle otto legioni protegge una lunga colonna di carri e salmerie: sarà facile assalire la prima legione mentre è in marcia e saccheggiare il convoglio, dopodiché gli altri reparti si troveranno troppo lontani per arrivare in tempo e dovranno scegliere se arrendersi o ritirarsi.
Ancora una volta, i barbari sono convinti che questo sia un ottimo piano, sostenuto dal fatto che hanno inventato la guerriglia: dato che i Nervi non possiedono una cavalleria, infatti, usano tagliare le cime degli alberi delle loro selve in modo che si espandano in larghezza e non in altezza, e poi piazzare dei rovi negli interstizi. Sicuramente, le legioni si troveranno incastrate fra i boschi senza potersi aiutare l’un l’altra!
I nostri, all’oscuro di queste diaboliche trame, si accampano su un colle non particolarmente scosceso che si allunga verso il fiume Sabis. Sulla riva opposta, in faccia al primo, c’è un’altra collina coperta di boschi: i nemici sono appostati qui, mentre negli spazi scoperti lungo il fiume i Romani possono vedere solo qualche avamposto di cavalleria.
Come c’era da aspettarsi, le informazioni con cui Galli e Belgi tradiscono Cesare non sono più valide: in testa alla colonna romana ci sono sei legioni senza bagagli, in mezzo il convoglio con l’equipaggiamento, in coda le due legioni arruolate per ultime, che lo devono difendere a tutti i costi. Un serpentone lungo qualche miglio.
Mandati avanti cavalieri, frombolieri e sagittari, questi attaccano la cavalleria nemica (esigua, come abbiamo detto: i Nervi non ne hanno affatto, devono contare sulla carità degli alleati) e la respingono, non osando però inseguirla nelle selve. Intanto le sei legioni d’avanguardia prendono le misure per il campo e iniziano a fortificarlo. Quando infine arrivano le salmerie (questo è il momento di attaccare, per i Nervi), essi liquidano la cavalleria romana,
Poi scesero al fiume con tanta celerità che i nostri quasi contemporaneamente li videro nelle selve, al fiume e vicino a loro stessi.
I Romani si trovano ad assorbire l’urto di un’orda in corsa mentre stanno scavando: molti non riescono nemmeno ad indossare l’elmo e a togliere la copertura dagli scudi, per non parlare di schierarsi ordinatamente sotto il rispettivo vessillo. Lo stesso Cesare si dibatte nell’intento di svolgere tutti i suoi compiti insieme: deve far suonare l’allarme, richiamare i soldati che si sono allontanati in cerca di materiali per il campo, esortare gli uomini, dare il segnale d’attacco. Non ha il tempo di fare nessuna di queste cose prima dell’impatto, ma almeno i legionari sono esperti, fanno automaticamente quel che serve, e i legati sono pronti a dare ordini senza aspettare l’imperator. Dunque Cesare dà le disposizioni indispensabili e poi – parole sue – “corre qua e là ad incoraggiare i soldati”. Le legioni, schierate alla meno peggio, combattono ognuna per conto proprio: ciascun legato che le comanda non sa nemmeno dove siano gli altri o se abbiano bisogno d’aiuto. Oltretutto, in mezzo a quei boschi le riserve non intervengono nel momento giusto. Il risultato sono un sacco di diversi episodi di combattimento con risultati anche molto diversi dall’uno all’altro.

Battaglia sul Sabis – fase 1: le sei legioni veterane sono schierate alla meno male di fronte al castra.
L’ala sinistra è costituita dalla Nona e dalla Decima, le fedelissime favorite di Cesare. Combattono contro gli Atrebati. Li respingono oltre il fiume già dopo il lancio dei pila, uccidendone parecchi mentre questi tentano il guado. Ma poi attraversano anche loro il fiume e si trovano in posizione sfavorevole (ricordate? C’è un colle vicino alle sponde, che i nemici hanno già iniziato a salire: i Romani li guardano dal basso). Si riprendono in fretta però questi Romani, mettendo di nuovo in rotta gli Atrebati.
Al centro abbiamo l’Ottava e l’Undicesima, che riescono anch’esse a respingere i loro nemici, i Viromandui, dall’altura, ma nell’inseguirli fin sulla sponda del Sabis lasciano sguarnito il castra su due lati: il centro e la sinistra, perché la Nona sta già occupando l’accampamento nemico. I Nervi di Boduognato ne approfittano caricando e parte va a circondare l’ala destra, parte va a distruggere l’accampamento. Quest’ultima incontra la cavalleria romana respinta, intenta a leccarsi le ferite, e la mette in fuga. I Treveri tosto giunti in aiuto dei Romani vedono il macello che vi ho descritto e si ritirano urlando che Roma è stata sconfitta.
Cesare intanto è corso all’ala destra, composta da Settima e Dodicesima legione, completamente accerchiate, e viene a sapere che i centurioni di un’intera coorte sono morti, mentre gli altri sono come minimo gravemente feriti. Un’insegna è andata perduta. Lo stesso valorosissimo centurione Sestio Baculo non si regge in piedi per quantità e “qualità” delle ferite. I superstiti stanno perdendo le speranze, le ultime file cominciano a disertare. Ed allora Cesare fa la cosa che gli vale la mia immensa stima: prende uno scudo, non avendo il suo con sé, avanza fino in prima linea, chiama i centurioni per nome, esorta i soldati e comanda di portare avanti le insegne (tuonando a quelli della Dodicesima di stare meno appiccicati, ché si stanno impedendo i movimenti l’un l’altro). Questo fa la differenza:
L’arrivo di Cesare infuse speranza nei soldati e ridiede loro coraggio: ciascuno di essi davanti al proprio imperator desiderava fare del suo meglio anche all’estremo delle forze. L’impeto del nemico venne così un po’ ritardato.
Trovandosi in mezzo a quelli della Dodicesima, Cesare vede che i loro compagni della Settima sono ancora in difficoltà, quindi dà ordine ai tribuni di far avvicinare le due legioni: in questo modo, l’accerchiamento (e quindi l’attacco alle spalle) è impossibile.
All’appello mancano solo le due legioni di reclute che sono rimaste indietro a proteggere le salmerie, una davanti e una dietro i carri. Accortesi che c’è battaglia, accelerano il passo e giungono al castra.
Tito Labieno, comandante dell’ala sinistra che per prima ha seguito gli Atrebati oltre il fiume, si è impadronito dell’accampamento nervio e ha visto la tragedia che sta accadendo all’altra ala sotto di lui. Manda la Decima in soccorso, e
L’arrivo di queste nuove forze portò un tale cambiamento che anche quelli dei nostri che giacevano a terra feriti ripresero a combattere appoggiandosi agli scudi. Anche i servi, quando videro i barbari atterriti, si gettarono contro gli avversari armati pur essendo disarmati; i cavalieri, per cancellare con prove di valore la vergogna della loro fuga, presero a combattere dovunque, cercando di emulare i fanti.

Battaglia sul Sabis – fase 2: quattro legioni sono di là dal fiume, due stanno per essere accerchiate, altre due appena sanno che è la guerra. Cesare corre.
Ma i nemici, come promesso, non si arrendono nemmeno quando capiscono che la sconfitta è certa: i feriti delle ultime linee combattono sui corpi dei loro compagni; in certi casi, i cumuli di cadaveri sono così alti che vengono usati come riparo dalle frecce.
Così ci si dovette render conto che non temerariamente uomini di tanto valore avevano osato attraversare un fiume così largo, scalarne le ripidissime rive, assalire una posizione così forte; cose difficili, rese facili dal loro coraggio [l’enfasi è mia, NdA].
La battaglia (e la guerra, in questo caso) è vinta, sotto ogni punto di vista.
Il popolo e il nome stessi dei Nervi sono distrutti. Anziani, donne e bambini, protetti da stagni e paludi, si arrendono a Roma. I senatori, da seicento che erano, sono rimasti in tre; gli uomini in grado di brandire le armi sono passati da sessantamila a cinquecento. Cesare li risparmia tutti.
Ora mancano solo gli Aduatuci, che abbiamo detto intenzionati ad inviare rinforzi ai Nervi: quando vedono la sconfitta, presi da un attacco d’intelligenza, tornano nelle loro terre, impacchettano mogli, figli e tutto quel che possiedono e si chiudono in una città. Come la maggior parte degli oppida gallici, essa sorge su un colle coi fianchi ripidi e un lato accessibile, bloccato da un doppio muro con tanto di massi e travi appuntite in cima. Intorno alla piazzaforte viene aggiunta in fretta e furia una trincea lunga 22 km: è lì che si arroccano gli Aduatuci.
Diamo il via alle scommesse: chi crede che queste “massicce fortificazioni” serviranno a qualcosa?
In effetti…
Quando videro che i Romani, dopo aver avvicinate le macchine da guerra e preparato il terrapieno, costruivano ad una certa distanza una torre, cominciarono a deriderli dal muro, chiedendo sprezzanti perché una macchina così grande fosse stata costruita tanto lontano, e con quali mani e forze uomini così piccoli [rispetto ai Germani, ovviamente, i Romani sono dei nanetti, solo un tantino più testardi… NdA] sperassero di muovere una torre tanto pesante. Ma quando si accorsero che la torre si muoveva [sullo Stilosissimo Sistema a Ruote brevettato dai Sumeri, NdA – nel caso non mi riconosceste] e si avvicinava alle mura, colpiti nel vedere cosa così nuova e insolita, mandarono ambasciatori a Cesare per trattare la pace.
Nuova e insolita, o divo Giulio? Dev’essere una boiata di un qualche pio scribacchino medievale, suppongo. Battutacce squallide a parte, sono contenta che Cesare faccia questo effetto su tutti i Galli e i Germani d’oltre Reno, ma non sta diventando un po’ troppo facile?
Comunque, gli ambasciatori aduatuci dicono che Cesare ha gli dèi belgici dalla sua, se riesce a compiere cotante imprese. E siccome nessuna adulazione è buttata a caso, lo pregano di lasciar loro le armi, altrimenti i loro voraci vicini li invaderanno e non potranno difendersi. Se otterranno un rifiuto, preferiranno dover subire qualunque cosa dai Romani, piuttosto che essere torturati e uccisi da coloro che prima si inchinavano loro.
Ma Cesare non si lascia impietosire né minacciare, e dice che risparmierà la città solo se si arrenderanno entro il primo colpo d’ariete (consuetudine romana era distruggere le fortezze che non lo facevano in tempo): non ci può essere capitolazione senza consegna delle armi – una grande lezione di vita, in effetti. Dal canto suo, Cesare si sforzerà di convincere i vicini degli Aduatuci a non schierarsi contro i protetti di Roma. I barbari accettano, e dall’alto delle mura piovono così tante armi che si accatastano in un cumulo alto come la fortificazione… e tuttavia i Romani non sanno che un terzo di quel mucchio è stato celato in città. Direi che se ne accorgeranno presto!
Infatti verso mezzanotte gli abitanti, armati alla meno peggio con le armi trattenute e degli scudi di legno o vimini, escono all’improvviso dalle mura per attaccare l’accampamento romano. Peccato che le fortificazioni dell’oppidum siano presidiate dai legionari, che scagliano i loro pila dall’alto. Ne uccidono 4000 e ricacciano indietro il resto. Il giorno dopo Cesare fa abbattere le porte e vende l’intera città in un solo lotto di schiavi. I mercanti che li acquistano riferiscono che sono 53.000.
Ecco, ora Cesare può iniziare a pagare i debiti che lo sommergono. Il ricavato della vendita degli schiavi appartiene tutto a lui, e un buono schiavo vale dai 2000 ai 4000 sesterzi (quelli “di lusso” molto di più), cioè 4000-8000 euro. Ehm… lui deve guadagnare qualche milioncino ancora, ma non temete, tornerà dalla Gallia ricco sfondato!
Tornando a noi, il legato Publio Crasso torna da Cesare annunciando di aver soggiogato Veneti, Vnelli, Osismi, Coriosoliti, Esuvi, Aulerci e Redoni, tutte popolazioni stanziate sulla costa oceanica (cioè in Francia occidentale).
Sottomessa l’intera Gallia, la fama di Roma è tale che arrivano spontanee offerte di ostaggi e ubbidienza da oltre Reno. Cesare sta macchinando di andare a guardare cosa c’è di bello in Illirico, quindi ordina alle delegazioni di ripresentarsi l’estate dopo, prende le legioni e le conduce a svernare dai Carnuti, dagli Andi e dai Turoni, prossimi agli ultimi teatri di guerra. Poi parte per l’Italia. Ed ora è il momento dell’autocompiacimento più assoluto, che va decisamente riportato:
Il Senato di Roma, informato delle vittorie dalle comunicazioni di Cesare, decretò feste di ringraziamento della durata di quindici giorni, cosa che prima di allora non era mai stata decretata in onore di alcun condottiero romano.
Fine Libro Secondo: campagne contro Bellovaci, Nervi e loro alleati.
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* Se nel 58 è nata la terza moglie di Ottaviano, nel 57 nasce la prima, Clodia Pulcra, figlia di Fulvia e di quel Publio Clodio che sempre nel 58 è stato tribunus plebis. Ottaviano in due anni di matrimonio non la sfiorerà neanche con lo sguardo, divorziando e rispedendola dalla madre come virgo intacta. Politica.
**Bibracte è anche la città degli Edui, se ricordate. La particolarità è che in latino la città edua è Bibracte, Bibractis, di genere neutro, mentre la Bibracte dei Remi è Bibrax, Bibractis, femminile.