Alesia, 52 a.C.

Generali: Cesare e Vercingetorige. Eh be’.

Forze schierate: dieci legioni contro 80.000 difensori intorno all’oppidum e, nella fase finale, 240.000 di rinforzo dall’esterno; una quantità imprecisata di cavalieri ausiliari romani, forse intorno ai 15.000, contro 8.000 cavalieri galli¹.

Esito: i Galli vengono sbaragliati, distrutti, annientati. Pare che ancora non l’abbiano superata, visto che per eroe nazionale hanno scelto il responsabile della sconfitta. 😀

Motivo del conflitto: perchessì difensivo! Vuoi che nel giro di qualche secolo ‘sti celti vagabondi non decidano di farsi un viaggio a sud?

Effetti: la Gallia diventerà il più docile cagnolino di Roma.

Prego, un'ultima occhiata ai Galli finché sono ancora interessanti.

Cavalieri d’Oltralpe. Oggi non solo saranno inutili, ma anche d’impiccio.

Cesare e Labieno di nuovo assieme, dicevamo. Chissà come ne è contento il giovane Marco Antonio, che le sue esperienze in Gallia le ha fatte sotto l’ala protettiva del generale! Adesso dovrà spartirsi le sue attenzioni con un gallo venuto dal nulla — o meglio, dallo stesso posto da cui viene Pompeo, il Piceno, che è anche peggio.

Illazioni a parte, Vercingetorige è costretto a ripiegare su Alesia, il che, per una volta, non è la scelta peggiore possibile — a sbagliare ci penserà tra poco.

Se Gergovia sorgeva su un colle circondato da colli, Alesia occupa un altopiano a forma di losanga in mezzo a una pianura circondata da colli. Su due lati scorrono altrettanti fiumi.
Come sempre finché non lo mettono in rotta, l’esercito gallo deve accontentarsi di un campo fuori dalle mura, per non gravare sulla popolazione.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Ora, la domanda è: Vercingetorige ha capito o no che, se perde qui, è finita?
Secondo me no. Altrimenti si proteggerebbe con qualcosa di più di una stupidissima muraglia alta due metri e un fossato che, per sopperire all’inutilità del vallo, dovrebbe essere profondo almeno fino al nucleo terrestre.

Copy of !!!

Allora cos’è, scemo?
No, semplicemente conta sui rinforzi in arrivo da tutta la Gallia. Immagina una manovra a tenaglia (che sembra sempre intelligentissima e in realtà da sola non serve mai a niente).

I legionari, per parte loro, in questo assedio smuoveranno due milioni di metri cubi di terra, a partire da due fossati interni e un terrapieno alto quattro metri addossato alla collina.

Ora, ogni epoca ha avuto i suoi metodi per assediare una città in santa pace, ovvero senza che il nemico le ammazzasse gli sterratori e senza usare l’intero esercito come vedetta.
I Romani fanno sempre i furbi e tendono trappole via via più crudeli fantasiose. Cesare ne inventa tre:

  • i cippi, rami collegati alla base per non essere divelti;
  • i gigli, pali spessi quanto una gamba, ben appuntiti e nascosti da rami, per i dieci centimetri scarsi di cui fuoriescono dal terreno;
  • gli stimoli o triboli, pioli (in latino talĕae, curiosamente²) con uncini di ferro conficcati a terra.

Da sinistra: triboli, gigli e cippi.

Vedendo questo gran daffare, i Galli sferrano subito il loro solito attacco di cavalleria, e come al solito vengono ricacciati indietro dagli ausiliari germani. Iniziamo bene: già adesso le linee galliche si spaventano tanto che Vercingetorige deve far chiudere le porte del campo, o i suoi se la svignerebbero in città.

I lavori durano un mese.
In questo periodo Vercingetorige fa alcune ottime cose, come liberarsi della cavalleria, ormai inservibile con quei trabocchetti, e realizzare di avere viveri solo per un mese — lui non lo sa, ma i Romani sono nella stessa situazione.
I suoi alleati invece non hanno idee particolarmente felici: parlano di mangiare i vecchi. Segue frettolosa decisione di evacuare la cittadinanza tutta, che invano si raduna da Cesare offrendosi in schiavitù per un po’ di cibo.

Ma tutto è bene quel che finisce bene! I rinforzi arrivano sulle colline attorno alla pianura e non sono niente male: duecentoquarantamila fanti e ottomila cavalieri.
Sì, altri cavalieri. Sono come dio, direbbe un mio professore: li cacci dalla porta e rientrano dalla finestra.

Nel frattempo le opere d’assedio romane sono concluse.
Il primo vallo, quello intorno ad Alesia, è ora dotato di palizzate, torrette e spuntoni simili a corna di cervo.
A difendere le spalle dei legionari dai rinforzi di tale Vercassivellauno è comparso un secondo vallo, come il primo dotato di otto fortini principali e ventitrè secondari.
I tranelli di Cesare concludono entrambe le linee. Interessante notare come il generale abbia mentito sul numero di file in cui ha organizzato i cippi: quindici invece di cinque, come rivelano gli scavi archeologici.

 La battaglia inizia a mezzogiorno del giorno dopo l’avvistamento di Vercassivellauno.

Come ormai abbiamo imparato, i Galli sentono il bisogno di farsi sconfiggere dai cavalieri germani prima di attaccare in massa. Al tramonto, soddisfatti di aver perso tutti gli arcieri e i fanti leggeri che in teoria avrebbero dovuto coprire la cavalleria, si concedono il meritato riposo. Salvo tornare a mezzanotte con fionde, frecce e sassi.

Vercingetorige ne approfitta per uscire dalla città.

Col buio le cose sono più difficili per i Romani che per i Galli: se i secondi, mirando sugli spalti, hanno ottime probabilità di beccare qualcuno, i legionari vanno a tentoni. Lo stesso gli ufficiali che, per la difficoltà dei collegamenti tra gli otto castra, possono solo fare congetture su quale zona abbia bisogno di rinforzi e quale no.

All’alba si raggiunge lo stallo; le perdite sono ingenti da entrambe le parti. I Galli decidono di ritirarsi, lasciando i fossati mezzi pieni. E qui Cesare ci stupisce riferendo che Vercingetorige aveva sfoderato delle macchine da assedio. Non sappiamo nient’altro, in proposito.

Ah sì? E da dove spuntano fuori? Come sono fatte? Parla, Cesare!

Ah sì? Be’, potevi parlarne un po’ di più, Caio Giulio.

Incredibile a dirsi, si tratta di una ritirata strategica: a preoccupare i difensori è uno dei castra romani, appollaiato com’è su un’altura, e non in pianura come gli altri.
Per risolvere la questione, la notte parte dell’esercito di rinforzo si nasconde dietro una collina più alta. Vercingetorige, che non comunica affatto con l’esterno, intuisce la mossa e riesce ad attaccare in simultanea.

Il risultato è che Cesare, a sua volta appostato su un’altura, deve far correre i suoi di qua e di là per allentare la pressione. Alla fine anche Labieno viene scomodato per portare sei coorti in quel povero castraminacciato da tutte le falci murali, da tutti i graticci e dalla terra per colmarne i fossati e da tutte le scale disponibili.

Cesare dà il colpo di grazia, ripulendo il vallo in pianura e soccorrendo Labieno.
Il quale, udite udite, era così in difficoltà da dover tentare un’azione disperata — per non dire suicida, accidenti — come radunare trentanove coorti (cioè quasi quattro legioni) e buttarsi a capofitto nello scontro.

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Questo è il bello dello stile di Cesare: i movimenti di Labieno in realtà erano premeditati. Era il Piano B!
Infatti, nell’ultima manifestazione di sovrumana efficienza del Libro Settimo, il Divo è pronto a venirgli incontro con quattro coorti e qualche cavaliere, mentre altri cavalieri prendono i Galli alle spalle.

Il peggio è fatto. Anche in questo caso, il fatto che i Galli non siano morti tutti e trecentomila ad Alesia è dovuto solo alla stanchezza dei legionari.

Il giorno seguente, forse il 26 settembre, Vercingetorige si consegna a Cesare. Accetta le condizioni di resa, pur durissime, senza fiatare.
Leggenda vuole che sia uscito dal campo nella sua corazza migliore, sul miglior cavallo, e che abbia fatto un giro attorno alla sella curule del Divo per poi smontare, gettargli l’armatura e sederglisi ai piedi, tranquillo.

Lo attendono sei anni di carcere, una sfilata in un trionfo decisamente sottotono e una morte squallida.

Vercingetorige himself. Particolare della statua di sette metri voluta da Napoleone III nel 1865.

Appendice I

Come avevo anticipato, per Alesia Cesare ha in testa l’assedio di Numanzia di ottant’anni prima.

Anche lì c’erano state due linee di fortificazioni (in quel caso fossati, non valli) separate da duecento metri. Solo che i terrapieni costruiti a parità di tempo da Cesare sono lunghi due volte e mezzo quelli dell’Emiliano… Questo dà un’idea dell’aura di fretta che doveva portarsi appresso quell’uomo.

Appendice II

Un momento di apprezzamento per il Divo Giulio. Non è da tutti pensare a presidiare una zona non in difficoltà quando si hanno trecentomila galli concentrati su un unico bersaglio.
Il fatto è che, come nota lo stesso Cesare, era fondamentale scongiurare anche la minima possibilità di sfondamento del vallo in pianura, perché da lì i Galli avrebbero avuto accesso all’intera rete di trincee, ovvero a una vittoria schiacciante — questione di pressione, ancora una volta.
Ancora, è sempre commovente come gli basti un pugno di uomini — duemila o poco più, nel caso di Labieno — per rigirare la frittata.

***

¹Dati forniti dallo stesso Cesare, quindi verosimili, confermati dai ritrovamenti archeologici, ma prendeteli con le pinze eccetera eccetera.
Come al solito, dare una cifra è un azzardo e non mi allontano di molto dal vero se dico che anche gli storici si producono in voli pindarici, o meglio con un margine d’errore del 10-20%. Non ha senso.
Per darvi un’idea, la legione modello di Cesare conta 6.000 uomini divisi in dieci coorti. Cesare si serve più di queste ultime che della legione come unità tattica — abbiamo visto per esempio che lascia 22 coorti al cugino Lucio, cioè due legioni e un quinto — e per questo è difficile capire cosa intenda per “dieci legioni”: con tutti gli spostamenti che ha fatto, ci saranno legioni da venti coorti come da otto.
Uno dice: vabbè, il totale è lo stesso, l’intero esercito è radunato ad Alesia. E invece no, perché nemmeno le coorti hanno sempre 600 uomini l’una. Anzi, dopo quattro anni di guerra ininterrotta e due senza rinforzi, è probabile che siano quasi tutte a ranghi ridotti.

È un pasticcio, regà.

²Dico “curiosamente” perché le talee già per i latini indicavano le parti di pianta usate per farla riprodurre altrove.
Insomma, casomai voleste anche voi un certo fiore o albero da frutto che avete visto in giro, potreste provare a staccargli un rametto (meglio se ha una gemma). Poi mettetelo in acqua: se gli sbucano le radici, è fatta.
Comunque, l’attinenza tra talee e pioli rimane per me un mistero.

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De Bello Gallico (VIII) – Libro Settimo, pt. 2

Dunque siamo arrivati sani e salvi sotto le mura di Gergovia.

La fortezza occupa un bel monticello circondato da colline scoscese. È ben protetta, tanto che Cesare preferisce fermarsi a distanza di sicurezza e studiare la situazione, anche a costo di perdere il vantaggio su Vercingetorige.
In effetti, espugnare Gergovia non è roba da un assalto e via. Bisognerà andarci cauti.

Il primo passo è occupare un colle dal quale badare che in città non arrivino né acqua né cibo. Il secondo collegare questo avamposto al castra di partenza con un doppio camminamento — o fossa, che alla fine è una trincea. Il terzo ricondurre gli Edui alla causa romana (per la vicenda del loro tradimento e relativo rant c’è l’Appendice). Il quarto, rimediare al terzo.

Infatti per punire gli Edui, ribellatisi sull’onda del Perchessìnianesimo, Cesare si allontana di quasi quaranta chilometri con quattro legioni e tutta la cavalleria; nel castra principale le due legioni rimanenti si trovano a dover difendere un’area pensata per contenerne sei.

Siore e siori, il 3D.

Siore e siori, il 3D. Vercingetorige è lungo le linee azzurre.

Il tribuno Fabio ha fatto tutto il possibile: ha ostruito tutte le porte inagibili, sfruttato al massimo le macchine da assedio e protetto per ore quell’impedimento di campo, per giunta continuando a fortificarlo.

Quando Cesare torna indietro capisce che non c’è verso e cerca un modo per trarsi d’impiccio prima di essere circondato dai nemici.

Il risultato delle sue elucubrazioni è un altro di quegli specchietti per le allodole in cui i Galli cascano sempre. Stavolta il diversivo è un gruppo di pastori travestiti da cavalieri, che viene mandato a farsi un giretto nel modo più chiassoso possibile.
I difensori, che da lontano vedono poco, vanno a curiosare. Uno dei loro accampamenti resta incustodito, i legionari sgusciano dal campo maggiore a quello minore e colgono di sorpresa il nemico.
Pare che la cosa sia riuscita tanto improvvisa che un capo gallo, colto nel sonno, perde il cavallo e fugge “superiore corporis parte nudata”.

Spettacoli disdicevoli a parte, è il momento di ordinare la ritirata. Cesare lo fa, ma nessuno lo sente né dà retta agli ufficiali.
Intanto i difensori più lontani dagli scontri pensano che i Romani siano arrivati in città e se la danno a gambe. Le loro donne, memori di Avarico, prendono a gettare vestiti e preziosi dalle mura, supplicando pietà.

Parecchie, aiutandosi a forza di braccia, si calavano dalle mura e si consegnavano ai soldati.

Vergogna! Sintonizzatevi su Radio Utica tra qualche anno e ve lo insegnerà Catone cosa si fa in questi casi!

Poi, a loro maggior gloria, vedono che gli uomini stanno risolvendo il problema e diventano più spavalde: si sciolgono i capelli (la dissolutezza ha radici millenarie!), mostrano i figli ai legionari.

È un disastro, per i Romani. In pochi, su terreno sfavorevole, sfiancati dalla corsa, non perdono la posizione sulle mura solo grazie alla copertura delle coorti lasciate in riserva al campo minore.
Cesare non può che aspettare un’occasione. Solo la Decima, la legione più vicina, gli è rimasta accanto secondo gli ordini.

E poi arrivano gli Edui.

In quanto cavalieri, erano stati mandati a fare un lungo giro insieme al diversivo, giusto per non avere degli alleati infidi nel mezzo dello scontro. Adesso accorrono al fianco dei Romani ma, per quanto le loro spalle destre nude simboleggino la loro sottomissione a Roma, i legionari pensano all’ennesimo tradimento e iniziano a cedere terreno. La follia generale raggiunge livelli tali che i soldati in posizione più avanzata si sacrificano per coprire la ritirata.

In tutto ciò muoiono quarantasei centurioni e settecento soldati semplici. Non di più solo perché le Decima e le coorti di prima intralciano l’inseguimento finale.

Il giorno dopo tocca a Cesare fare una lavata di capo ai suoi.

Egli ammirava il coraggio che avevano dimostrato nel non lasciarsi fermare né dalle fortificazioni, né dall’asprezza del monte, né dal muro della città, ma altrettanto biasimava il presuntuoso arbitrio per cui avevano creduto di poter giudicare meglio del loro comandante sulla vittoria e sull’esito delle operazioni; egli pretendeva dai suoi soldati obbedienza e disciplina non meno che coraggio e sprezzo del pericolo.

Poi, per risollevare il morale, si schiera a battaglia in un punto favorevole, consapevole del fatto che Vercingetorige non si lascerà provocare a uno scontro campale. Non gli conviene, adesso che ha scoperto quanto sia duro per il nemico questo assedio.
Infatti dopo qualche giorno i Romani levano le tende e si mettono in marcia verso Novioduno, nelle terre degli Edui. Lì abbiamo lasciato armi e bagagli, ostaggi, viveri, danaro, cavalli.

Uno dei capi della ribellione, Litavicco, è ancora a piede libero con un contingente di cavalleria. Due suoi complici, Eporedorige e Viridomaro, rubano le salmerie e lo raggiungono a Bibracte.

Di male in peggio, ora bisogna anche preoccuparsi di non restare a secco. Che si fa?
Di tornare in Provincia non se ne parla — sarebbe disonorevole e non si può lasciare Labieno da solo con quattro legioni. Quindi tanto vale andargli incontro.

Sono passati anni dall’ultima volta che abbiamo visto Cesare e Labieno insieme, con l’esercito al gran completo. Per me è il momento più epico dei Commentari.

Adesso tutto si può fare. Questione di un attimo è attirare in trappola Vercingetorige, molto preoccupato da questi movimenti, con uno scontro di cavalleria.
I Germani compiono la loro missione di vita e fanno una strage — tremila morti, a fine giornata. Vercingetorige capisce di doversi ritirare e, proprio come ad Avarico, sceglie male.

Alesia.

L’assedio merita un articolo a sé, perché è un piccolo capolavoro. Anche i Galli si riscattano un pochino, per dire.

Un lieto fine, narrato da un Cesare così orgoglioso che il suo stile è spoglio come mai prima d’ora: i Romani che vincono e potrebbero annientare del tutto il nemico, ma sono così stremati che nemmeno sette anni di marce forzate attraverso metri di neve, col rancio non sempre garantito e migliaia di compagni morti li spingono all’inseguimento; i prigionieri dati in schiavitù ai soldati stessi, uno ciascuno; l’organizzazione per passare un inverno confortevole a Bibracte.

Ah, e la restituzione di tutti gli ostaggi accumulati dal 58. Indovinate quanti sono? Ventimila! C’è da chiedersi come li abbiano sfamati.

Ad ogni modo, la guerra è finita così, con la cattura di Vercingetorige. Per il 51 resta solo da fare un po’ di pulizia etnica.
Il De Bello Gallico, dal canto suo, continuerà a comparire un po’ ovunque, su questi lidi. Quindi niente titoli di coda.

Appendice I – Deprecazione degli Edui

Perché gli Edui dovevano chiedere a Cesare di essere giudice della loro costituzione e delle loro leggi, e non i Romani agli Edui?

Perché la Terra gira attorno al Sole?

Teorie eretiche a parte, mentre Cesare fa la corte a Gergovia Convictolitave, re fresco di nomina, decide che il favore di Roma non gli serve più.
Ha una sola idea per portare il popolo dalla sua…

A cinquanta chilometri da Gergovia, Litavicco, capo dei rinforzi richiesti, inizia una scenata: piange, racconta ai suoi di come i Romani gli abbiano ammazzato fratelli e parenti e presenta dei falsi testimoni. Questi a loro volta annunciano che i Romani, per ritorsione contro il recente tradimento, hanno fatto strage di ogni eduo a tiro.

Panico. I soldati acconsentono a passare dalla parte dei difensori e passano a fil di spada i cittadini romani – perché ci sono sempre dei cittadini pronti da ammazzare per dichiarare guerra! – che confidavano nella loro protezione per arrivare non si sa dove e, soprattutto, a far che. C’è la guerra, ragazzi.

In realtà i fratelli di Litavicco stanno benissimo, sono a Gergovia e pregano Cesare di non lasciare che il loro popolo segua la via della perdizione.
Lieto fine anche qui: basta mostrare che non è morto nessuno per ottenere la resa dei rinforzi e la fuga di Litavicco.

Ora, gli Edui sono forse il peggior popolo che mi sia capitato d’incontrare. Tradiscono chiunque in qualunque momento, meglio se ciò comporta danni solo per loro. E sì che da quando Cesare è in Gallia si espandono a danno dei vinti, i fetenti.
Deboli, volubili e stupidi, non ne combinano una buona nemmeno per sbaglio.

Appendice II — Le prodezze di Labieno

Io finora l’ho del tutto ignorato, ma Tito Labieno è un fior di comandante. In tutti questi anni ha condotto una guerra a parte, gestendo mezzo esercito senza l’aiuto di Cesare. In effetti, è l’unico legato che non abbia mai mandato un SOS alla mamma e l’abbia spuntata.
Per esempio, quando il piccolo Cicerone era alle strette coi Germani e il Divo ha dovuto mobilitare altri tre legati per raggiungerlo in tempo, anche Labieno era assediato da forze preponderanti, ma ha stretto i denti.

Anche nel Libro Settimo dimostra il suo valore, sospetto con disappunto di Cesare — alla fine, non è curioso che un legato di tali qualità sia stato impiegato solo per tenere sotto controllo qualche popolo focoso, invece che per dare manforte al generale?

Prima del ricongiungimento col resto dell’esercito, il nostro si trovava ad Agedinco con quattro legioni.

Campagna del 52. Agedinco è a due passi da Alesia e Cenabo.

Campagna del 52. Agedinco è a due passi da Alesia e Cenabo.

Il suo stile, di base, è la ‘toccata e fuga’: azioni di piccola portata a breve raggio e ritorno al campo.
Nel momento in cui Cesare attraversa la Loira con l’acqua fino alle ascelle per trovare un po’ di grano e raggiungerlo, lui si concede un assedio a Lutetia, “città dei Parisii situata su un’isola della Senna”.

La futura capitale francese è protetta da un esercito raccogliticcio. Il vecchio capo, Camulogeno, lo dispone nella palude che blocca l’accesso all’intera regione.

In puro stile cesariano, il primo tentativo di Labieno implica le macchine da assedio e le opere del genio per rendere agibile la palude. Solo che queste cose vanno sempre per le lunghe, e non c’è tempo da perdere.

fhaaaaaaaaa

Labieno è vulnerabile: con sé ha solo reclute e sempre più popoli stanno prendendo le armi.
Senza contare che tutta la Gallia ha gli occhi su di lui, ora che Cesare gli sta venendo incontro: non sarebbe male addentarlo mentre è isolato.

La notte stessa il legato attraversa la Senna in corrispondenza di un’altra isola, disabitata perché gli uomini sono in guerra altrove, e arriva a Lutetia dalla sponda opposta.
I difensori le danno fuoco e vedono di mettere l’intero fiume tra sé e i Romani.

A questo punto giunge la notizia del tradimento dei Bellovaci, finora amici buoni quanto gli Edui.
Bisogna darci un taglio e tornare ad Agedinco prima possibile.

Divide l’esercito in tre: mezza legione resta all’accampamento, mezza avanza di qualche chilometro via nave, le restanti tre ammazzano gli esploratori nemici e attraversano il fiume.
All’alba, i Galli sentono chiasso in tre direzioni distinte, pensano che Labieno abbia dichiarato il si salvi chi può e si dividono a loro volta in tre parti.

E così Labieno riesce a ingurgitarle una alla volta: prima quella destinata specificamente a lui, poi quella rimasta a difendere il campo e accorsa in ritardo, infine quella che seguiva gli spostamenti della mezza legione nel fiume.
Non ne scappa uno, dalle vedette a Camulogeno.

E poi via ad Agedinco, come se non ne fosse mai uscito.

 

Appendice III – Angolo  “Chi l’ha visto?”

Vi ricordate Ambiorige, quello che mentre Cesare se la spassa in Britannia ammazza le legioni di Sabino e Cotta? Quello cui Cesare dà la caccia per tutta Gallia, invano?
Be’, resta non pervenuto. Eccone un altro che, come Annibale, dopo aver sparato le cartucce migliori precipita in un buco nero.

***

Fine seconda parte del Libro Settimo: assedio di Gergovia, premesse all’assedio di Alesia e fallimento di Vercingetorige.

De Bello Gallico (VII) – Libro Settimo, pt. 1

I libri Quinto e Sesto descrivono la seconda invasione della Britannia e della Germania (anni 54-53). Certamente per un letterato hanno un grande valore e consegnano il Divo alla Storia come un antropologo ante litteram, ricchi come sono di notizie sulle società barbare. D’altra parte sanciscono una Grande Verità: Cesare se ne infischia della rischiosità delle sue imprese. Non ragiona mai in termini di quanti vantaggi gli porterà la tale spedizione — voleva vedere cosa c’è oltre il Reno, si è progettato il ponte da solo e c’è andato; voleva farsi un’idea della Britannia, s’è disegnato le navi adatte ed è partito; una volta arrivato gli rompeva di aspettare le navi con le macchine da guerra ed è sbarcato sotto i proiettili nemici (ricordate i legionari che saltano nella melma con l’acqua alla cintola, giavellotto e gladio in pugno, bagaglio in spalla); un’altra volta ancora aveva fretta di attaccar battaglia, non ha tirato in secco le navi e se l’è fatte distruggere da una tempesta. Perché lui vale.

E troppe volte ha consapevolmente sfiorato il disastro. Ironia della sorte, lo ricordiamo come un tipo prudente. Bella pensata, Giulio.

Dov’eravamo rimasti

Essenzialmente a quando lui ha allegramente abbandonato i suoi ufficiali, perso una legione e mezza, rischiato le tre di Labieno e dovuto personalmente salvare il piccolo Cicerone, assediato da sessantamila germani. Quanto a questi ultimi, li ha invasi solo per constatare che in confronto a loro i Romani sono anemici e se n’è tornato da questa parte del Reno dopo pochi giorni. Figuraccia.

Normalmente, Roma avrebbe riso di queste “imprese”, volte a riacquistare la dignitas del generale e portate a termine per miracolo. Invece la stella di Cesare è in continua ascesa e il Senato è costretto a dedicargli decine di giornate festive, nonostante la strenua opposizione di Marco Porzio Catone e compari.

!

Sempre fra i piedi, ‘sti conservatori tutti fichi¹ e mos!
Catone combatte sempre contro i mulini a vento, ma ha ragione. È assurdo che un generale se ne vada a zonzo per l’Europa con un esercito enorme quando Roma è in piena crisi politica e finanziaria!

In città però si parla di tutt’altro. Il tribuno Clodio, idolo delle masse, è appena stato massacrato dal rivale Milone e lasciato letteralmente a morire per strada. Il popolo lo cremerà mandando in cenere la Curia Hostilia, sede delle riunioni del Senato per seicento anni. Ovviamente Cicerone difenderà l’assassino con un’orazione vergognosa.

***

La Gallia è una polveriera. Gli indigeni sono pronti a ribellarsi al primo passo falso di Cesare. I Romani hanno perso la loro aura d’invincibilità e sanno che non riceveranno aiuti dalla penisola né possono permettersi di farsi rubare le salmerie, perché il cibo scarseggia.

Copy of !!!

Momento: perché non dovrebbero arrivare rinforzi dall’Italia?
E su proposta di chi? Pompeo l’ha già rifornito di soldi e soldati, e in più il decreto originario del Senato prevedeva che Cesare si facesse bastare due legioni. Se la dovrà cavare da solo.

Tale situazione ha qualcosa in comune con quella greca alla vigilia delle Guerre Persiane: la potenza livellatrice che invade tutto quel che vede, l’estrema divisione politica che convive con uno spiccato senso di appartenenza, la volontà comune di sacrificare tutto per resistere, le scarsissime possibilità di successo. Inoltre, sia Greci che Galli le tentano un po’ tutte per vincere: i primi combinando battaglie terrestri e navali, gli ultimi azzardando assalti diretti, guerriglia, assedi. Ed è proprio con questi ultimi che i Galli si condanneranno, fra poco.

Start!

Il Settimo Libro inizia con Cesare che, tornato in Italia, si mette a reclutare come non ci fosse un domani. Per la trentordicesima volta, i Galli tentano di separarlo definitivamente dall’esercito, che come al solito è rintanato un po’ qui e un po’ là oltre le Alpi. Il popolo più motivato sono i Carnuti, gente mai sentita prima, che pensa bene di ammazzare tutti i cittadini romani di Cenabo. Tra cui, per la cronaca, anche un fornitore di grano di Cesare.

Solita cartina OGM. In rosso l'ubicazione dei Carnuti e della loro capitale, Carnuto.

Solita cartina OGM. In rosso l’ubicazione dei Carnuti e di Cenabo, la loro città principale.

In quindici ore la notizia si diffonde fino alla nazione arverna. E fra gli Arverni c’è un certo Vercingetorige.

fhaaaaaaaaaLa distanza percorsa è pari a quasi 260 km, la stessa che separa in linea d’aria Firenze e Roma. Sapendo anche il tempo impiegato, possiamo ricavare la velocità media: fra i 15 e i 20 chilometri orari. Credibilissimo, eh? 😀

Il giovane principe incita immediatamente i propri clienti alla sommossa, prima dalla capitale e poi, quando ne viene cacciato, dalle campagne. In questo modo forma un esercito di sbandati, con cui accelera i tempi: in men che non si dica prende possesso di Gergovia, si fa re degli Arverni, riunisce tutti i popoli dall’oceano all’odierna Parigi e si pone al comando della fazione gallica.

L’idea è quella di reclutare a forza anche i Galli fedeli a Roma. Per questo divide l’esercito in due: la parte scelta da Vercingetorige si dirige a nord, l’altra a sud, invadendo la Gallia Transalpina², Provincia romana, e minacciando Narbona.

Altra cartina OGM. In realtà Cesare non dice se Lucterio, capo della spedizione a sud, abbia fatto quel viaggio tutto curve. Certo è che sia stato presso tutti quei popoli.

Altra cartina OGM. In realtà Cesare non dice se Lucterio, capo della spedizione a sud, abbia fatto quel viaggio tutto curve. Certo è che sia stato presso tutti quei popoli.

L’obiettivo del re sono i Biturigi. Essi vanno a lamentarsi dai padroni edui i quali, dietro consiglio dei legati di Cesare, inviano i rinforzi. E che gran bei rinforzi! Arrivati sulla Loira, confine coi Biturigi, si siedono lì per qualche giorno e poi se ne tornano a casa senza aver fatto niente. A detta loro, se avessero passato il fiume sarebbero stati accerchiati da un enorme esercito nemico. Come Cesare si premura di specificare, non c’è da credere a queste pappemolli. L’unica cosa è sospirare e lasciar correre.

A proposito del Divo. Quando viene a sapere delle prime manovre di Vercingetorige è ancora in Italia, ma si muove così in fretta che, all’arrivo di Lucterio, la Narbonense e le nazioni che si frappongono tra essa e i nemici pullulano di legionari.

Respinto Lucterio, siamo nelle condizioni di infierire sugli Arverni in tutta calma. Certo, sono un tantino fuori mano — attraversare le Cevenne con due metri di neve non dev’essere stato il massimo — ma il vantaggio è grande: Vercingetorige, che abbiamo lasciato in un punto imprecisato “a nord”, è ora privo di alleati e con un popolo sofferente. È dunque costretto a tornare in picchiata verso la patria. Cesare gli taglia la strada presso i Lingoni (intorno all’attuale Champagne) con tutte le legioni a portata di mano, costringendolo a deviare attraverso i Biturigi e ad assediare Gorgobina, unico oppidum dei Boi.

fhaaaaaaaaa

I Boi sono gli ebrei della situazione, ogni tanto vengono cacciati in un angolo dimenticato dagli dèi e resi vassalli di qualche popolo più utile. Cesare per esempio li ha recentemente deportati fra gli Edui, dove si trovano tuttora.

A questo punto il valoroso Cesare condivide con noi i suoi dubbi amletici: attaccare o non attaccare? Naturalmente, spostarsi è una seccatura: è inverno, c’è la neve e c’è il solito problema degli approvvigionamenti.
Però…
Però…
Okay, si parte. Destinazione: i Biturigi.

Copy of !!!Perché non azzannare direttamente Vercingetorige?
Perché qui conviene davvero essere prudenti e staccare una a una le membra del corpo gallico: lo scopo è pacificare una futura Provincia, prima ancora che sconfiggere il capo di turno. Infatti il Settimo è il libro degli assedi.

Nella marcia, già che c’è, il nostro assedia tutte le città a tiro. Vallaunoduno, oppidum senone, si arrende in due giorni. Cenabo, dei Carnuti, viene saccheggiata e distrutta.

A questo punto Vercingetorige inizia a mostrare di che pasta è fatto. Lascia perdere l’assedio a Gorgobina, tanto ormai si è capito che a Cesare non importa niente di soccorrere i propri alleati, e gli corre dietro. Con un tempismo tale da far sanguinare il naso a un otaku della storia, lo raggiunge proprio mentre Novioduno gli sta consegnando ostaggi.

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I cittadini, Biturigi, si fanno forza e chiudono le porte della città, non intrappolando per un soffio i centurioni già entrati. Nonostante uno scontro di cavalleria abbastanza preoccupante da richiedere l’impiego di quattrocento Germani, i Romani se la cavano con poco (e alla fine Novioduno si arrende davvero).

Basta schiacciare un ultimo oppidum affinché i Biturigi cadano in ginocchio: Avarico.

Per Vercingetorige è il momento di cambiare tattica. Ha visto che è stato facile spaventare i nemici con la cavalleria che si ritrova, quindi avrebbe senso usarla per farli morire di fame: incendiare campi, sgraffignare bagagli alle colonne in marcia e altre cose da teppisti. Uhm, dov’è che ho già sentito questa storia? Ah, forse in praticamente tutti gli altri Libri del De Bello Gallico. Be’, tu impegnati, Cingy caro.

E se il giovane gallo ha dimostrato di non essere un idiota, adesso vedremo quanto grezzo sia il suo genio.

Supponendo che Cesare sia attratto dai grandi centri abitati — che di solito sono i meno fortificati — convince il consiglio di guerra a radere al suolo le città diventate rifugio di chi non può o non vuole combattere. Giustissimo! Se l’avesse fatto prima i Romani avrebbero avuto vita dura. E così in un solo giorno vanno a fuoco venti villaggi biturigi e molti altri in tutta la Gallia. Tranne uno…

Già, proprio Avarico. Dopo molto tentennare, Vercingetorige la risparmia in quanto “città più bella di Gallia”.

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O almeno Cesare la racconta così. In realtà la prossima mossa del condottiero gallo fa pensare che avesse previsto il comportamento del Divo. Infatti le legioni puntano proprio su Avarico, e Vercingetorige le segue con calma. Sotto le mura della città le due armate si accampano l’una a ventiquattro chilometri dall’altra.

Il terreno è inadatto a un vallo, così il castra romano viene protetto solo con un terrapieno, delle tettoie e un paio di torri. Inoltre gli Edui e i Boi, vuoi per la generale povertà al settimo anno di guerra, vuoi per la scarsa lealtà alla causa, portano ben poco cibo in dono.

In queste condizioni, come sempre nella carriera di Cesare, l’esercito è di ottimo umore. Il generale può anche permettersi di assicurare la ritirata, se i soldati lo vogliono: tanto quelli gli rispondono che non hanno mai lasciato un’impresa a metà né vogliono iniziare ora. Anzi, fosse per loro si scaglierebbero a corpo morto contro Vercingetorige, or ora piazzatosi in un’ottima posizione, e Cesare deve calmarli: Avarico verrà presa solo e soltanto per assedio.

Nel frattempo Vercingetorige passa i suoi guai con gli alleati, costretto a difendersi dall’accusa di tradimento. Lo lasciano parlare un po’ e la conclusione è

Vercingetorige era il loro capo supremo, non si doveva dubitare della sua fedeltà, nessuno avrebbe potuto condurre la guerra con senno maggiore.

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Inizia ora una parte un po’ sconnessa, in cui Cesare si concede qualche intervento personale in più e che mi diverte immensamente. Quindi la spezzetterò in tre episodi, anche se potrei tranquillamente saltarla. ^_^

Prima digressione: i Galli imparano dagli avversari

È nell’interesse di Cesare esaltare l’ingegnosità del nemico sconfitto, ma d’altra parte è dovuto: finora i Galli ci sono sembrati dei bambini che giocano alla guerra. Certo, io stessa ho contribuito a rendere grottesche le loro azioni — ricordate i Germani che vanno col bob? O che pensano di bloccare la corrente di un fiume coi propri corpi?

Fatto sta che

i Galli, popolo di grande vivacità, capacissimo di imitare e rifare qualunque cosa da qualunque persona gli venga insegnata

stendono dei lacci perché le falci non trovino l’appiglio sulle mura, se ne impadroniscono, scavano sotto il vallo per farlo crollare, erigono torri tanto più alte quanto più il detto vallo cresce (proteggendole tra l’altro con delle pelli), fanno sortite notte e giorno, ostruiscono le gallerie scavate dai legionari con pali appuntiti, pece bollente e massi e in generale danno un gran fastidio. Si rendono così inattaccabili dal terreno.

Diorama di Avarico

La reazione romana, come sempre per niente esagerata.

Fa freddo e piove, si lamenta con noi Cesare. Nonostante ciò, in venticinque giorni appare dal nulla un terrapieno lungo cento metri e altro ventiquattro, che i difensori si affrettano a incendiare. Segue una massa di Galli che erutta dalle porte della città e lancia fiaccole dalle torri.

Era quindi difficile, in tale situazione, decidere dove accorrere e portare aiuto.

Così difficile che le due legioni lasciate appositamente a riposo con l’unico scopo di proteggere il castra riescono sia a respingere i difensori che a spegnere gli incendi. L’hanno proprio colto di sorpresa, povero Cesare!

Seconda digressione: Cesare intellettuale

Nel solito momento in stile “Tutto è perduto, non v’è speranza alcuna!” che precede la rimonta dei legionari,

accadde, davanti ai nostri occhi, un fatto che ci sembra veramente degno di ricordo e che perciò non tralasceremo di narrare.

Uno scorpio.

C’è infatti un punto, sulle mura di Avarico, che gli scorpiones raggiungono particolarmente bene. Nonostante il gallo che occupa quella posizione venga puntualmente abbattuto dai proiettili, c’è sempre qualcuno a prendere il suo posto, all’infinito. Non gli importa un fico secco di andare incontro a morte immediata (e inutile)! Bah.

Pillola di LOL: si salvi chi può!

I galli misero in opera ogni espediente, ma visto che non riuscivano a ottenere alcun vantaggio, il giorno dopo decisero di fuggire dalla città, per consiglio e ordine di Vercingetorige.

Ora, lasciatemelo dire: ma a che diavolo sta pensando Vercingetorige? Prima risparmia Avarico in quanto “bella”, poi si apposta a distanza di sicurezza sia dalla città che dai Romani, inviando rinforzi insufficienti (10.000 armati, e i legionari sono tre volte tanto). Adesso ordina di abbandonare il posto senza nemmeno tentare un attacco congiunto? Chiamasi spreco di risorse.

Ad ogni modo le donne non ci stanno. Che fanno i mariti, se la svignano lasciando indietro i bambini? Visto che le lacrime non li smuovono di un millimetro

— per lo più, infatti, al momento del supremo pericolo la paura non lascia posto alla pietà —

(Cesare, meno osservazioni geGnali, per favore) le mogli fanno la spia agli assedianti e il tentativo di fuga non parte nemmeno. Complimenti ai Biturigi. Se fossero sopravvissuti sarebbero certo stati il primo popolo barbarico ad approvare una legge sul divorzio.

L'agger romano e le file di vinea per proteggere i lavori in un'illustrazione di Adam Hook.

L’agger e le file di vineae, gallerie mobili di tettoie coperte di pelli, in un’illustrazione di Adam Hook.

I difensori, non sapendo come destreggiarsi tra madri/mogli/suocere e Cesare, hanno il morale a pezzi. È il momento di attaccarli!

Ventiquattr’ore dopo la tentata fuga questi Prodi Guerrieri hanno abbandonato il muro in favore di un più virile schieramento a cuneo negli spiazzi della città, decisi ad affrontare i Romani in regolare battaglia. Questi però salgono sulle mura e li accerchiano. Sono così incattiviti da anteporre l’inseguimento al saccheggio. Così, da 40.000 che erano, al campo di Vercingetorige arrivano in 800 – il 2%, “quelli che erano fuggiti alle prime grida”.

Al capo della coalizione gallica tocca accoglierli con parole d’incoraggiamento e smistarli nell’accampamento, ma di nascosto — la disciplina è tale che, se si venisse a sapere del loro arrivo, si solleverebbe un gran chiasso. E non c’è bisogno di chiamarsi addosso un’orda di legionari assetati di sangue!

Comunque, ben lungi dall’ammettere il suo errore, Vercingetorige rimprovera i rifugiati. Eh sì, lui gliel’aveva detto di abbandonare la nave, ma hanno voluto essere indulgenti e adesso guarda com’è finita. Ma fa niente, aggiunge, ci pensa lui a risolvere tutto!

Avrebbe stretto in un solo fascio tutta la Gallia e di fronte a questa unità neppure il mondo intero avrebbe potuto resistere.

*Inserire qui risata malvagia*

Per la prima volta, allora, i Galli cominciarono a fortificare il campo, ed erano così sconcertati che essi, uomini insofferenti a ogni fatica, erano decisi a ubbidire a ogni ordine.

Persino difendersi? Roba da matti.

Ma torniamo ad Avarico. Cesare la trova così piena di scorte che decide di fermarsi fino alla primavera. Nel frattempo fa anche visita agli Edui, che sinceramente in questo libro sono dei gran rompiscatole.

Testa e Collo di Cesare - Copia 2Cesare baby-sitter
Come tutte le mamme premurose, il Divo si fa in quattro per risolvere i problemi dei suoi bambini. Adesso il dramma è che devono cambiare re, ma hanno due candidati! Sono persino arrivati sull’orlo della guerra civile e c’è il rischio che uno dei contendenti si allei con Vercingetorige. In più i magistrati edui non possono viaggiare, quindi Cesare deve assentarsi nel bel mezzo della guerra.

A fine inverno l’esercito si divide. Labieno marcerà su Senoni e Parisii con quattro legioni (perciò lo perderemo di vista a lungo), Cesare sugli Arverni e Gergovia con sei. Vercingetorige, ovviamente, seguirà il secondo gruppo.

Dapprima i due eserciti viaggiano di pari passo, separati dal fiume Elaver (Allier) — Cesare sulla sponda sbagliata. Tocca attraversare, ma non ci sono ponti né si riesce a guadare. Il trucco che escogita fa molto Looney Tunes e consiste nel nascondersi in un bosco con due legioni, mandando avanti le altre. Vercingetorige l’Astuto passa oltre senza accorgersene, le due legioni ricostruiscono indisturbate un ponte distrutto, attraversano e proteggono il passaggio del grosso dell’armata, che nel frattempo è tornata indietro. Trollato, il nostro Vercingetorige se ne scappa più avanti “per non essere costretto a combattere contro la sua volontà”.

Così si giunge a Gergovia, un posto interessante di cui parleremo nella seconda parte.

Fine prima parte del Libro Settimo: guerra contro i Biturigi.

***

¹Ops, quello era un altro Catone

²Ci sono un sacco di sinonimi per distinguere la Gallia meridionale da quella italica, rispettivamente: comata/bracata e togata, ulteriore e citeriore, transalpina e cisalpina. Per semplicità d’ora in poi userò il termine Narbonense, visto che la città di Narbonne esiste tutt’oggi.

De Bello Gallico (VI) – Libri Quinto e Sesto

Circa un anno fa abbiamo lasciato nella Belgica il nostro Cesare, frustrato per il fallimento della prima spedizione in Britannia. Certamente lo aveva considerato un anno sprecato, soprattutto con la situazione politica a Roma che si faceva sempre più difficile per i triumviri. Due furono, in particolare, i segnali di questa tensione.

Nel 56, a Lucca, Pompeo e Crasso hanno deciso di ricandidarsi consoli insieme per l’anno successivo, non tanto per pasticciare con le leggi – sono al sicuro, con tutti i tribuni della plebe che hanno comprato – ma perché le gesta di Cesare fanno loro temere di perdere popolarità. Crasso non ha nemmeno mai avuto un trionfo, sebbene con Spartaco se la sia cavata niente male. E per avere una guerra, contando che un trionfo si ha solo ponendo fine a una guerra importante (niente soppressione di rivolte, ad esempio), tocca ottenere il proconsolato in una Provincia di frontiera. Solo che per farsi eleggere devono usare la forza: prima creano tumulti in città per far accettare la loro candidatura (presentata fuori tempo massimo: un trucchetto ben noto già a quei tempi!), poi fanno allontanare dai comizi gli altri candidati e i loro sostenitori, impedendo loro di votare.

Il secondo segnale che qualcosa non va arriva un anno dopo, il 13 novembre del 55: Crasso sta partendo per la Provincia che si è scelto (ops, ma che dico, i sorteggi non si possono truccare!), la Siria, ma il tribuno Capitone gli aizza contro la folla. Solo l’ascendente di Pompeo, supplicato dal collega, impedisce conseguenze più serie. Io non capisco queste masse: voglio dire, se uno vuole a tutti i costi morire ammazzato, diciamo, a Carre, non bisognerebbe impedirglielo.

Passo indietro. Mentre il divo Giulio bisticcia con le più diverse etnie e corre di qua e di là per soccorrere le forze che è costretto a frazionare fino all’inverosimile pur di controllare tutto il territorio, Pompeo e Crasso da consoli si contendono il facoltoso re Tolomeo XII, che si è fatto scalzare da Alessandria d’Egitto. Alla fine se lo aggiudica  Pompeo: Aulo Gabinio, il suo servo fedele, lo rimette sul trono.

Questo Gabinio è  un tipo sfortunato. Homo novus, ha fatto carriera all’ombra del suo patrono, Pompeo. Si è fatto le ossa in guerra con lui ed è diventato un ottimo generale, gli ha fatto da tribuno della plebe al momento giusto e si è guadagnato consolato e proconsolato in Siria. Poi arriva Crasso, il nuovo governatore, e rileva il suo comando e il suo esercito, rispedendolo a Roma senza tanti complimenti. Ora che è stato console, in cosa potrà mai sperare un piceno? Nella censura? Non è periodo, i senatori hanno ben altro cui pensare… come lo stesso Pompeo, ad esempio. Da questo momento in poi, infatti, Gabinio non darà più troppo nell’occhio. All’incirca lo stesso destino di Lucullo.

In effetti, il periodo tardo-repubblicano è particolarmente denso di ottimi generali impossibilitati a far carriera oltre il minimo canonico – anche un consolato non ha più lo stesso valore, col triumvirato. Non mancano né le guerre né il talento: semplicemente, ci sono figure che riescono sempre più facilmente a fare incetta di tutti gli onori disponibili (anzi, qualcuno, tipo l’imperium maius, viene addirittura inventato apposta), e chi vuole emergere deve anche brillare di luce riflessa. Certo, ci sono sempre delle eccezioni. Una è stata Quinto Sertorio, il più tenace oppositore di Silla, che ha provato a ritagliarsi un regno nelle Spagne modellandolo sulla Repubblica romana, con tanto di scuola per romanizzare l’ambiente. Morì per avvelenamento. Un’altra sarà Tito Labieno. Il comandante in seconda di Cesare, anch’egli creatura di Pompeo, finirà a comandare una buona fetta dell’esercito che Farnace del Ponto opporrà al prossimo dictator.

Abbandonando il dispiacere per queste figure, addentriamoci negli affari gallici del 54 a.C.

Libro V

La seconda spedizione in Britannia.

Cesare è tornato in Europa a metà settembre. Durante l’inverno si dà da fare per recuperare le navi reduci dall’attraversata della Manica, progettandone lui stesso un tipo più consono a sopportare le maree e a sfruttare i venti del luogo. Perché ritentare? Il brivido dello sbarco in terra ignota l’ha già vissuto. Tuttavia a Roma, nonostante di fatto sull’isola non abbia concluso niente, il senato ha decretato venti giorni di festa in suo onore, e i cittadini si aspettano ancora tanto da lui. Può Cesare rassegnarsi a un fiasco, anche se l’impresa è più a sua maggior gloria che per la sicurezza della Repubblica?

Il tempo di correre a sedare una sommossa in Illiria (ma perché diavolo continua a tenersi quella Provincia? Aveva senso i primi anni, quando pensava di far guerra ai Daci, non ora!) e tornare indietro, l’esercito è tanto entusiasta da aver già costruito più di 600 navi del nuovo tipo. Ma a questo punto sono i treveri a dare problemi: pare che stiano brigando coi germani, che da sempre vorrebbero visitare la Gallia. Così Cesare, rassegnato, prende quattro legioni e va ad annusare la situazione. Dei due pretendenti al trono, uno gli fa atto di sottomissione (che rispetterà sempre, stranamente) e l’altro si prepara alla guerra, mandando però a dire al romano che anche lui gli è fedele, solo che è dovuto restare indietro a tenere calmo il popolo inquieto. Bugiardo! Cesare non ha tutta l’estate, quindi si limita a prenderlo in ostaggio e a trascinarselo dietro fino a Porto Izio, insieme a tutti gli elementi pericolosi.

La solita cartina che ricompare a ogni articolo. Un male necessario che solo in pochi sapranno sopportare.

Per scongiurare nuove ribellioni nelle terre che si lascerà alle spalle deve portarsi dietro centinaia di ostaggi, tra cui c’è Dumnorige, un giovane eduo. Costui convince i suoi compagni di sventura che i romani vogliono ammazzarli tutti, ma quando il suo piano viene sventato si vede costretto a svignarsela coi suoi.

M’immagino la frustrazione di quell’uomo: ecco che deve di nuovo rimandare la spedizione per acciuffare un gallo idiota. “Riacchiapparlo vivo o morto”, è la consegna per la cavalleria. Beh, come non detto: ammazzarlo è più facile. Cesare dice che perì nel corso della scaramuccia, pur di non farsi catturare; in realtà è ipotizzabile che sia morto nel corso di una colluttazione del tutto casuale mentre veniva ricondotto al castra in catene.

Vorrei soffermarmi un attimo su questa scenetta. La vera barbarie di queste genti sta, a mio avviso, nel non saper conservare le forze in attesa del momento adatto, laddove i romani per leggenda sprizzano pragmatismo da tutti i pori. I galli semplicemente si ribellano non appena il padrone guarda da un’altra parte. E sì che Dumnorige avrebbe ben potuto aspettare che Cesare fosse in Britannia, per mettergli i bastoni fra le ruote: anche se in quel momento non era prevedibile, i romani si trovarono sul punto di morire di fame. Sarebbe bastato bloccare i rifornimenti via mare. Naturalmente, le truppe romane rimaste all’asciutto – ossia Labieno, tre legioni e duemila cavalieri – avrebbero fatto fallire la tattica, ma di più non si sarebbe potuto fare. Fortuna vuole che quello che non faranno i galli alle navi piene di viveri lo faranno, provvidenzialmente, le tempeste. Vediamo.

Quando a luglio i britanni vedono arrivare ottocento navi – secondo il cronista: dieci volte quelle dell’anno scorso – che sanno benissimo dove sbarcare, si ritirano dalle coste. Forse hanno notato che le navi da carico filano come quelle da guerra: l’ho detto che il morale dei romani è alto! Non avranno pace ancora per molto: appena il tempo di sbarcare, accamparsi e predisporre le difese alle navi, e Cesare a mezzanotte è in giro con circa cinque legioni e 2000 cavalieri, a portar guai.

Fa ben diciotto chilometri verso ovest prima d’incontrare resistenza, intorno a Canterbury, ma ricaccia carri e cavalleria nemici dentro una foresta, i cui accessi sono stati ostruiti dagli stessi britanni tempo addietro, probabilmente in vista delle continue guerre tribali. La cosa viene risolta con un terrapieno, che prima impedisce il bersagliamento con le frecce e poi mette i legionari in condizione di varcare le difese nemiche. Tutto ciò prende appena una nottata. In altri dieci giorni dovrà tornare alle navi, danneggiate dall’ennesima tempesta (non si era curato di tirarle in secco!), farle riparare e trainare dietro le fortificazioni del suo castra, per poter tornare ai suoi barbari.

La più ovvia considerazione che si possa fare su questo punto è come sia strano che un esercito di veterani superbamente comandato a ogni vertice abbia bisogno dell’intervento diretto del generale per ogni sua mossa: non ci poteva pensare Labieno a mettere al sicuro le navi? Sicuro, ma a Cesare non piace delegare: ha sempre fatto tutto da solo, in effetti. Mai come in questo libro si vede il nostro macinare chilometri su chilometri per soccorrere le sue creature.

La naturale conseguenza è che i britanni si sono riorganizzati sotto il famoso Cassivellauno e sono molti più di prima. Qui il cronista fornisce un dettaglio curioso: i romani non hanno problemi a mettere in fuga i barbari, ma se la vedono brutta nell’inseguimento. Il motivo emerge più tardi, quando arriva l’attacco al castra in edificazione: le armi dei legionari sono troppo pesanti e persino la cavalleria si ritrova sempre a combattere in posizione sfavorevole, lontana dai fanti, coi nemici che prima erano sui carri ora improvvisamente appiedati, cioè in un posto letale per i leali destrieri romani. Dunque ci si organizza in modo che i barbari dalla pelle blu non abbiano il tempo di smontare da carri e cavalli, e infatti le loro forze si disperderanno al primo attacco per non tornare mai più così potenti.

C’è da dire che Cesare glissa sugli ostinati tentativi di Cassivellauno di cambiare continuamente strategia: una volta appronta uno sbarramento di pali aguzzi conficcati nel letto e su una sponda del Tamigi (invalidato da una semplice carica di cavalleria), poi si dà alla guerriglia per danneggiare la stessa cavalleria, usando i carri da guerra che i celti del continente hanno dimenticato secoli fa. Insomma, questi uomini dipinti col guado vendono cara la pelle. La svolta arriva quando l’unico oppidum di Cassivellauno viene facilmente espugnato. In effetti, una roccaforte per i barbari consiste semplicemente in un bosco circondato da vallo e fossato, che i romani non hanno nemmeno bisogno di assediare…

La capitolazione è  fulminea, poiché giunge subito dopo il fallimento nell’istigare i britanni del sud (i canzi, che popolavano l’odierno Kent) ad attaccare Labieno e le navi.

Le tregue stipulate da Cesare mi sono sempre parse fortunate e penose al contempo: giungono sempre un secondo prima che sorga un altro problema, dandogli il tempo di tirare il fiato, ma risultano insoddisfacenti, proprio a causa della fretta di mettersi al sicuro. In questo caso, la resa arriva proprio a ridosso dell’inverno, che i romani devono assolutamente passare in Gallia, ma la vittoria incompleta impedisce di asservire del tutto i britanni – e l’effetto sarà che l’isola sfuggirà per decenni all’influenza romana. Che peccato, sarebbe stato così bello un mondo in cui gli inglesi sono persone raffinate!

Ritorno al continente.

È tempo di tornare sulla terraferma. I romani vorrebbero tanto illudersi che sia tutto finito lì, con l’inverno, e così si dividono fra i diversi popoli per concedersi il meritato letargo. Solo che i ragionevoli sospetti del generale vengono confermati quando uno dei galli che aveva fatto re egli stesso viene assassinato. Due settimane dopo è la guerra. Gli indigeni, alla fine, sono riusciti a coalizzarsi in modo da assalire contemporaneamente tutte le guarnigioni romane, distanti l’una dall’altra al massimo centocinquanta chilometri. Però uno dei capi, Ambiorige, si premura di render noto ai due legati di stanza ad Aduatuca che ha dovuto assecondare la volubilità del suo popolo, pur restando personalmente un convinto filoromano! La strategia è quella di Dumnorige, ma non il risultato. Inoltre informa i poveri Cotta e Sabino che un’orda di germani arriverà entro due giorni, cosa spudoratamente falsa. Lui, nella sua magnanimità, è disposto a garantire un salvacondotto attraverso le sue terre, affinché i romani prestino soccorso ai colleghi più vicini. Certo, così quella fetta di Gallia resterà sguarnita!

Il gallo che giocò un romano.

Non tutti nell’accampamento vogliono cadere in trappola, così si discute. Alla fine prevale chi vuol togliere le tende – grosso errore. Sabino, il maggior sostenitore di questa tattica, non mette in conto il rischio di essere assalito durante il viaggio, rallentato per di più dalle salmerie… ed è proprio ciò che succede. Mentre il collega parigrado fa di tutto per resistere ai galli con quelle misere quindici coorti (7/8.000 uomini), Sabino si può far prendere dal panico. Bello il comando congiunto, eh? Se fosse stato solo, sarebbe morto sul posto. Ma comunque resta poco da vivere a entrambi.

Schierato in una disastrosa formazione ad anello e costretto ad abbandonare quel poco cibo disponibile, quella legione e mezza è costretta a chiedere la tregua. La risposta è affermativa, a patto che i legati abbiano un abboccamento col capo nemico. Dei due comandanti, quello furbo rifiuta, quello ingenuo – sempre lui, Sabino – si affretta a incontrare Ambiorige. Si fa disarmare, distrarre dall’eloquio dell’eburone e accerchiare insieme agli ufficiali e ai preziosi centurioni del seguito. Cotta, già ferito, lo seguirà nel conseguente attacco al campo. Dei superstiti, la maggior parte si suicida, mentre qualcuno va ad avvertire Labieno – l’originario destinatario dei “rinforzi”, ma tu guarda. Non solo non li riceverà mai, ma nemmeno gli serviranno. Intanto, però, il prestigio di Cesare ne risulta notevolmente diminuito: non sono davvero invincibili, questi romani.

L’assedio di Cicerone.

Subito dopo –  cioè non contemporaneamente, come avrebbe dovuto essere! –  Cicerone (il fratello buono, non la vecchietta del Foro) viene attaccato dai nervii senza nulla sapere del destino di Cotta e Sabino. A lui andrà bene, tutto sommato. Si barrica nel suo castra edificando 120 torri in una sola notte. Nell’attesa manda lettere a Cesare per chiedere soccorso e lavora lui stesso alle fortificazioni, allarmando i legionari con la sua gracilità. La resistenza è eroica: fino all’ultimo il legato si rifiuta di scendere a compromesso. “I romani non trattano con nemici armati; se il blocco al campo verrà rimosso all’istante e i nervii faranno atto di sottomissione, il mero senso della giustizia mi farà intercedere in loro favore presso Cesare, e questo è quanto”, mi pare di sentirgli dire.

Disgustati, gli assedianti si apprestano a circondare gli invasori con trincea e fossato, come hanno imparato dagli stessi romani. Solo che non hanno arnesi in ferro e sono costretti a rompere le zolle con le spade e a trasportarle a braccia o nei mantelli. L’aria di superiorità dei capitolini qui è tangibile. Eppure i Nervii sono così tanti da concludere in sole tre ore.

Le lettere di Cicerone si fanno sempre più accorate, dato che non giunge risposta: sono tutte intercettate. Alcuni messaggeri vengono torturati a morte davanti ai suoi occhi. Infine uno di quei comunicati, nascosto nell’impugnatura di un giavellotto, si salva. È novembre. Il Divo Giulio è fulmineo: ordina il ricongiungimento con Fabio e Publio Crasso, figlio del plutocrate, mentre Labieno dovrà occupare i territori dei nervii per conto suo, se può spostarsi. Nel giro di sedici ore Cesare parte da Amiens (Samarobriva) senza aspettare Crasso, convocato da trentotto chilometri di distanza, né tantomeno il resto dell’esercito. Solo quando viene raggiunto dai legati si alleggerisce di una legione e dei viveri, rimanendo con le ultime due di Crasso e 400 cavalieri. Si deve dare una mossa, anche perché Labieno gli manda a dire che non può allontanarsi (c’ha ggente, direbbe Bonolis: fanti e cavalieri treveri a meno di cinque chilometri da lui), raccontandogli poi del disastro di Sabino.

Immagino la scena che videro quei poveri assediati quando scorsero il fumo degli incendi all’orizzonte. È probabile che notarono prima quello del giavellotto conficcato in una torre, con la pergamena da parte di Cesare legata alla cinghia (o tragula). Il bello di vivere a quei tempi e di combattere dei barbari è che, per crittare un messaggio, bastava scriverlo in greco!

I 60.000 galli che si fecero giocare da 7.000 romani.

È fatta: i barbari tolgono l’assedio per catapultarsi sull’esercito proconsolare, forte di due sole legioni. Lo scontro è comunque impari. I barbari, infatti, vengono facilmente indotti a combattere in posizione sfavorevole e ad assediare un campo apparentemente minuscolo e morso dal terrore, le cui porte sembrano sbarrate ma in realtà sono solo accostate da mucchietti di terra. Uno spasso. Il disprezzo per i legionari porta i nervii a cercare di demolire il vallo di protezione con le mani. Inoltre, certi della vittoria, essi mandano pure degli araldi a imporre ai disertori di uscire entro tre ore, se gli garba vivere.

La sortita romana li mette in fuga senza che nessuno si sia neppure sognato di combattere. Il che mi ricorda quella frase detta da Quinto al cospetto dei germani, nel Gladiatore: “Un popolo dovrebbe capire quand’è sconfitto”; Massimo ne dubita, e quanto narrato è la prova che fa bene.

In nove ore la notizia fa sessanta chilometri: l’orda che minaccia Labieno, come quelle in prossimità di altri legati sparsi per la Gallia, si dissolve senza lasciare traccia. E sì che il capo dei treveri, tale Indutiomaro, aveva progettato la prima offensiva proprio per il giorno dopo! Alla faccia dell’«assalto simultaneo»…

Ma gli scoppi d’insofferenza al dominio romano continuano, molti re filoromani vengono accoppati. Per quest’anno risolve Labieno, nuovamente assediato dall’Indutiomaro di prima. Quando i suoi cavalieri gli servono quel testone dai lunghi mustacchi, gli eserciti messi insieme da senoni e nervii vengono nuovamente mandati a casa.

La campagna del 54 a.C.: la Britannia non diventerà mai rosa; l’Alvernia, patria di Vercingetorige, sì. E così anche la terra dei menapi, a nord, ponte verso i batavi (rinomati auxiliarii durante l’Impero).

Quale fu la differenza tra questa rivolta e quella della prossima campagna? In primo luogo, non c’è l’intera Gallia a ribellarsi, anche perché non tutta la Gallia ha avuto a che fare con un esercito romano. In secondo luogo, non c’è ancora un capo carismatico come Vercingetorige, il cui popolo al momento non è nemmeno entrato in contatto coi romani. In terzo luogo, Cesare non ha ancora fatto del suo peggio perché i galli s’imbufaliscano sul serio – solo fra poche righe si metterà d’impegno.

Nell’attesa, per un po’ si sta tranquilli, anche se in Cisalpina Cesare riprende a reclutare ed entro l’inverno si fa regalare tre legioni da Pompeo, proconsole nel 53.

Non finirò mai di stupirmi di quanto poco scaltro sia quell’uomo, che si faceva pure chiamare “Magnus”. Quando mai s’è visto un condottiero che regala soldati al rivale? Perché è certo che già ci fosse un contrasto in termini di prestigio tra i due, se c’era stato bisogno di rivedere il contratto fra i triumviri. Boh.

Fatto sta che le preoccupanti notizie dalla Gallia inducono il nostro a riprendere la guerra prima della fine dell’inverno. Entro la primavera non solo nervii, senoni e carnuti sono stati perentoriamente zittiti, ma anche l’unico popolo che non si era mai preoccupato di fornire un’ambasceria ai romani, i menapi, sono più o meno pacifici (o quantomeno neutrali). Sì, diciamo che l’operato di Cesare negli ultimi tempi ha un po’ perso in efficacia: nessun suo provvedimento pare definitivo. Diamogli un paio d’anni, suvvia.

Libro VI

Il sesto anno in Gallia vede innanzitutto la seconda invasione della Germania tramite un secondo ponte – per la cronaca, più a sud dell’altro –  e la seconda precipitosa ritirata. Vediamo perché.

Dobbiamo ripescare Ambiorige, il tizio che ha fatto fesso Quinto Titurio Sabino due volte di fila. Di fatto, è l’unico gallo ad aver vinto un contingente romano con tutti i crismi, privando Cesare di più di una legione in un periodo in cui le nuove leve scarseggiano: ormai il serbatoio italico si è esaurito. Tuttavia di questo il Divo Giulio non si deve preoccupare, grazie alla generosità dei suoi alleati: nel 53 torna al Nord con un numero di reclute doppio rispetto agli uomini persi contro gli eburoni, cioè tre legioni nuove di zecca.

Dunque guardiamo in due direzioni: Ambiorige, che in qualche modo se la deve sbrogliare – se lo acchiappa Cesare, è morto – e Cesare stesso, che deve punire adeguatamente le sommosse del 54.

Abbiamo anche un’altra questione in sospeso, ovvero i treveri: all’inizio dello scorso libro si intendevano coi germani, poi hanno assediato Labieno due volte, sono stati vinti ma non invasi. E quale migliore prospettiva per loro, se non allearsi con il grande Ambiorige, vincitore di Cotta e Sabino? Anche a lui conviene, dato che, in caso di sconfitta, la Germania è a un passo, e lì Roma non ha influenza di sorta – se non presso i popoli di confine.

La seconda spedizione in Germania.

Cesare decide di fare le cose per bene: porta le prime quattro legioni che gli capitano sottomano nelle terre dei nervii, devastando, incendiando e razziando. I belgi, al contrario degli iberi, non hanno mai avuto la tempra per sopportare queste cose! Alla fine dell’inverno, cioè dopo poche settimane, offrono la resa. Alla conseguente assemblea pangallica non partecipano i capi dei soliti noti: senoni, treveri e carnuti. I primi capitolano, seguiti dai carnuti, perché la loro popolazione viene sorpresa dalle legioni mentre sta ancora accorrendo verso gli oppida, e Cesare dimostra misericordia ancora una volta. Restano i treveri e Ambiorige, che non accetterà mai una battaglia campale, sapendo di non poterla vincere: come fare per incastrarlo?

Tanto per cominciare, impedirgli la fuga oltre il Reno, ovvero dissanguare le popolazioni che stanno tra lui e la Germania finché non gli giurano fedeltà. Sono proprio i menapi. Ci andrà Cesare con cinque legioni, mentre i treveri si godono le premurose attenzioni di Labieno e di due buone legioni.

Tutto regolare: la terra dei menapi brucia, dunque i menapi si arrendono alle condizioni che pone Cesare. Poi è la volta della Germania, rea di ospitare i popoli che mandano aiuti ai galli. Stavolta la truppa è entusiasta, dopo tutti quei saccheggi (Cesare del bottino non si è tenuto quasi niente, per ingraziarsi i suoi uomini), pur dovendo ricostruire daccapo quel mostro di ponte. Ora, ciò che colpisce è che le prime tribù che s’incontrano in Germania, quelle degli ubii, sono a dir poco servizievoli: non gliene importa niente di esser state invase, la prima cosa che rendeno noto è che con gli affari gallici non c’entrano niente e che, se Cesare vuole altri ostaggi, non ha che da chiedere. Che razza di comportamento, per dei germani che fanno paura a tutto il mondo! In effetti, quelli davvero temibili, nonché i responsabili degli aiuti oltrereno, sono gli svevi. I quali svevi sanno già che ci sono i romani in giro e si sono ritirati ai margini di una foresta impenetrabile: lì aspettano gli invasori.

Ecco, questo a Cesare è parso il punto giusto per parlare di druidi, sacrifici, castità, proprietà privata e cultura generale dei barbari, ma siccome a noi non ne può importare di meno ve lo risparmio. Magari un’altra volta.

Fatto sta che, come germani alleati dei romani, gli ubii non vogliono compromettersi troppo, e così Cesare, preoccupato per il cibo, torna a ovest del fiume, premurandosi di distruggere la metà germanica del ponte e di sorvegliare quella gallica con una torre, in modo da tenere sotto scacco ogni scambio nei due sensi.

L’astuzia di Labieno.

Intanto Labieno ha ricevuto le legioni di rincalzo, portandosi a tre, ma continua a fare gola ai numerosi treveri. Questi si accampano a ventitré chilometri da lui, praticamente invitandolo a uscire con due legioni e mezza per appostarsi a due passi dal nemico. Solo un fiume, quasi impossibile da guadare senza perdere l’assetto, divide i due schieramenti. Ai treveri, che aspettano i rinforzi promessi dai germani, non converrebbe accettare lo scontro, ma si sa che i galli non sono in grado di contenersi quando vedono una preda vulnerabile: sono pronti per il solito giochino dell’agnello che si trasforma in lupo!

Labieno, leccandosi i baffi che non ha, al consiglio di guerra grida a bella posta che non bisogna forzare la mano alla fortuna, che è meglio svignarsela e che ha tanta, tanta paura di quei guerrieri possenti e indomiti. Molti dei soldati che lo sentono sono galli, e così la notizia attraversa il fiume. Il giorno dopo i treveri sono sull’altra sponda, in posizione sfavorevole, e attaccano un’accozzaglia di soldati rumorosi e indisciplinati. Per un po’ Labieno continua a camminare mogio mogio, mettendo al sicuro i bagagli, poi ordina il dietrofront e si dà al massacro, incitando cavallerescamente i suoi a combattere per lui come se lo stesso Divo Giulio li guardasse. I germani vengono a sapere della disfatta appena in tempo per svignarsela senza colpo ferire.

Ancora Aduatuca, ancora Cicerone, ancora un assedio.

Tutto fatto, dunque. Ah, ma Ambiorige è ancora in circolazione! Più volte sfugge ai romani per un pelo, spostandosi continuamente con la protezione di pochi cavalieri. Cerca addirittura di costituire un nuovo esercito, invano. Alla fine lo stesso Cesare si mette sulle sue tracce, mentre gli altri legati si spostano da un capo all’altro della Gallia per spegnere gli ultimi focolai di rivolta e incoraggiare le popolazioni nemiche degli eburoni a saccheggiare le loro terre: se accorreranno abbastanza “volontari”, il popolo di Ambiorige morirà.

Le tre legioni del generale invece devono attraversare le Ardenne: operazione lenta, se si bada alla vita dei singoli soldati. Vi si attarderanno ben più dei sette giorni previsti, con conseguenze che hanno dell’apocalittico – almeno per i poveretti che le vissero.

Infatti fra i predoni giunti a devastare il territorio degli eburoni ci sono dei germani (i sigambri, per la precisione) che hanno adocchiato i bagagli dei romani. Indovinate dove si trovano? Ad Aduatuca, dove l’anno scorso sono caduti Sabino e Cotta. Indovinate chi li sorveglia? Lo stesso Cicerone assediato l’anno scorso. Mai vista una sfortuna così!

È un disastro, manco a dirlo. La superstizione regna sovrana fra le giovani reclute, ma per fortuna ci sono anche dei veterani rimasti indietro per le ferite. Tra questi il valoroso Baculo, il “Rambo” della situazione. È malato e non tocca cibo da cinque giorni (mah!), eppure raccoglie le armi, si dirige alla porta posteriore, dov’è l’attacco, e sviene. Probabilmente se la caverà, pur essendo pieno di ferite e contusioni; Cesare non ne parlerà mai più. Magicamente, il suo intervento sembra raddrizzare il corso degli eventi, ma per poco. Le coorti uscite a fare provviste prima dell’attacco tornano indietro e non sanno che fare. I pochi veterani in convalescenza riescono a penetrare nel blocco fino alla porta più vicina disponendosi a cuneo, mentre le reclute rimangono indietro come pecore. Gran parte, compresi tutti i centurioni, cade sul posto.

La cosa sorprendente è che i germani sono perfettamente coscienti di non poter più  prendere il castra, ora che i veterani sono tutti al suo interno, quindi fanno fagotto e se ne tornano a casa loro con uno stupendo bottino. Caspita, che bravi! Buon per loro!

Cicerone stesso crede che, se è stato attaccato, significa che la spedizione di Cesare è fallita e le altre nove legioni sono state distrutte: quasi non crede ai suoi occhi quando il generale arriva e gli fa la ramanzina per aver lasciato uscire delle reclute dal campo. Il cronista conclude poeticamente che, ironia della sorte, i germani venuti per danneggiare gli eburoni hanno finito per aiutarli impegnando i romani.

La guerra si conclude qui, con qualche altro rogo, processo ai ribelli, condanna al supplizio e cosette varie. Ambiorige è sparito nel nulla.

Campagna del 53 a.C. Periodo di magra, dopodiché arriva il bello. Sul serio!

 Fine Libri Quinto e Sesto: seconda campagna contro britanni e germani.

De Bello Gallico (V) – Libro Quarto

Il 55 è un anno in cui succede qualcosa un po’ in tutto il mondo conosciuto – fatto che mi rincuora, poiché è il motivo per cui mi sono imbarcata in questa folle impresa estiva. Approfondirò il tutto nel prossimo articolo, ma i fatti sono i seguenti:

– a Roma, consoli Pompeo e Crasso, come concordato a Lucca dal triumvirato, viene inaugurato il teatro di Pompeo: come quasi qualunque cosa lui escogiti, è illegale;

– in Egitto, il pompeiano Aulo Gabinio rimette sul trono di Alessandria (che, ripeto, non significa essere faraone di tutto l’Egitto, ma solo re di una città) Tolomeo Filadelfo, detto Aulete (“suonatore di flauto”, probabilmente per la sua voce… flautata), con interessanti conseguenze sul futuro: ci avviciniamo a Cleopatra!

Quest’anno Cesare avrà da combattere contro Germani e Britanni. I primi, sottoforma di Usipeti e Tenteri, si manifestano attraversando il Reno vicino alla foce (nel Mare del Nord). Com’è prevedibile, stanno scappando dalle popolazioni che li hanno invasi, gli Svevi (o Suebi, che dir vogliate). Questi ultimi fanno davvero paura: si dice possiedano cento villaggi che forniscono mille armati ognuno all’anno. Ma la cosa più inquietante, per noi capitalisti dei posteri, è questa affermazione:

Nessun campo è presso di loro di proprietà privata né definito da limiti; nessuno può rimanere più di un anno a lavorare la terra nello stesso luogo.

Il che mi fa domandare con un brivido fino a che punto i Germani fossero imparentati con gli Sciti, gli antichi abitanti della Russia europea!

Una particolarità dei Germani è che non stravedono per i cavalli: mentre i Galli li comprano dagli Ubii per migliorare le loro razze, gli Svevi si tengono i loro pony, addestrandoli a sopportare grandi carichi e a rimanere immobili anche in mezzo alla battaglia se il padrone smonta. Ah, e come i Veri Barbari Doc, considerano vile usare una sella. Gli Ubii cui ho accennato sono la nazione germanica più civilizzata – e filoromana – che li divide dalla Gallia e che è loro tributaria.

Ora, i Menapi, che abbiamo incontrato di sfuggita nell’articolo scorso, hanno villaggi sia sulla sponda belgica che su quella germanica del Reno: quando Usipeti e Tenteri, nella loro marcia per attraversare il fiume, li cacciano dalla loro riva, i Belgi si ritirano sulla sponda sinistra e li bloccano. I Germani allora fanno finta di ritirarsi e, quando vedono che i Menapi hanno riattraversato il Reno, tornano indietro con la cavalleria, li massacrano, si impossessano delle imbarcazioni e raggiungono la Gallia Belgica, dove banchettano a spese dei vinti per tutto l’inverno.

A questo punto, Cesare inizia a temere che i Galli si lascino entusiasmare dall’inaspettato arrivo di rinforzi e si ribellino di nuovo a Roma. O, come sottolinea, “teme la loro leggerezza”, e dunque decide di mobilitare l’esercito prima del solito. Quando arriva nella Gallia vera e propria (non la Provincia Romana), scopre quello che aveva temuto: i Galli si sono messi a disposizione degli invasori, invitandoli ad insediarsi con loro. I Germani ne approfittano spingendosi fin tra gli Eburoni e i Condrusi, tributari dei Treveri.

La solita cartina. Mi sento stupida a riproporvela per la terza volta, ma dovete sapere dove sono i Treveri, gli Usipeti, gli Ubii, gli Eburoni e i Sigambri!

Cesare convoca un’assemblea pangallica in cui finge di non sapere del tradimento, dichiara guerra ai Germani e chiede rinforzi. Poi fa provviste, recluta cavalieri e, arrivato a pochi giorni di marcia dagli insediamenti Germani, riceve le loro ambascerie. Il messaggio è che i barbari non attaccheranno, ma si difenderanno: altrimenti, se ai Romani garba, possono allearsi, a patto che essi assegnino loro delle terre in Gallia o permettano loro di tenersi quelle appena conquistate. Cesare risponde che

Nessuna amicizia avrebbe potuto esistere tra lui e i Germani, se essi fossero rimasti in Gallia, né era giusto che chi non aveva saputo difendere le proprie terre occupasse quelle altrui.

Come ho evidenziato, Cesare non si fa nessuno scrupolo a tacciare 430.000 persone di vigliaccheria, dall’alto della sua romanità, e, per ulteriore derisione, aggiunge che possono sempre rifugiarsi tra i loro tributari Ubii, prestando loro soccorso contro gli Svevi che minacciano d’invaderli: in cambio di questa cortesia, Cesare ordinerà loro di ospitare questi Germani.

I Germani allora chiedono tre giorni di tempo per decidere, durante i quali Cesare dovrebbe rimanere fermo dov’è, ma l’imperator risponde di non poter concedere nemmeno questo: sa che è un tranello. Gli è stato infatti riferito che i barbari sono in attesa del ritorno di buona parte della cavalleria con tanto di provviste, che si trovano al di là della Mosa: vogliono riunire le forze prima di rifiutare le condizioni romane, già abbastanza vergognose per loro.

Dunque Cesare continua a marciare verso i Germani. Riceve l’ennesima ambasceria a diciotto chilometri dai loro accampamenti, senza nemmeno fermarsi. Gli viene di nuovo chiesto di fermarsi, di concedere loro del tempo o quantomeno di non attaccarli. Rifiuta per la quarta volta, ma si impegna a non proseguire che per altre quattro miglia quel giorno, in cerca d’acqua. Indice per il giorno dopo un’assemblea con quanti più Germani possibile per discutere ulteriormente delle loro richieste. Infine manda ordine ai prefetti dell’avanguardia – il cui capo è nientemeno che quello sciocco di Marco Antonio, praefectus equitum – di non attaccare e, se assaliti, di resistere sulla difensiva fino all’arrivo dell’esercito.

Ora, l’avanguardia romana è composta da cinquemila cavalieri, e tuttavia i Germani pensano di poterla sbaragliare con solo ottocento dei loro – ricordate che il resto della loro cavalleria è andata a far provviste oltre la Mosa. Ecco che i Romani si riordinano dopo l’attacco a sorpresa, ed ecco i Germani che scendono dai loro nerboruti cavallini. Feriscono le cavalcature romane dal basso, facendo cadere i cavalieri e mettendoli presto in fuga, e li inseguono fino ad arrivare in vista dell’esercito romano. Il bilancio delle perdite è di settantaquattro morti fra i Romani, tra cui il nobile Pisone Aquitano, morto per coprire la ritirata del fratello – invano, visto che questi ha onorato il suo sacrificio facendosi ammazzare nell’intento di vendicarlo…

A questo punto Cesare decide di non aver più a che fare con questi barbari senza senso dell’onore, e di non voler sapere cosa succederà al ritorno della cavalleria germanica, quindi si risolve ad attaccare. Il giorno dopo incarcera l’ultima ambasceria inviatagli e schiera l’esercito in triplex acies, con l’abbattuta cavalleria in retroguardia. Percorre in fretta le otto miglia che lo separano dal nemico e piomba sull’accampamento, privo com’è di comandanti: facevano parte del gruppo di ambasciatori trattenuti da Cesare. I Germani, a questo punto, non sanno se attaccare, difendersi o fuggire, e poiché esitare è sempre fatale, i pochi che decidono di resistere vengono sbaragliati senza difficoltà dai legionari. Infine la cavalleria si ritempra dalla sconfitta del giorno prima inseguendo e uccidendo i fuggitivi, in massima parte donne e bambini. I pochi che si salvano correndo arrivano alla confluenza tra Mosa e Reno, ci si buttano per arrivare alla riva opposta e annegano tutti. I Romani subiscono pochi feriti e nessuna perdita: la spaventevole guerra contro 430.000 barbari è finita! E tutto prima ancora della fine di maggio…

L’ultimo atto di Cesare prima di una delle sue imprese mozzafiato è di liberare gli ostaggi, i quali preferiscono rimanere fra i Romani piuttosto che subire le ritorsioni dei Galli: dopotutto, Usipeti e Tenteri hanno devastato le loro terre.

Ebbene, nel quarto libro assistiamo alla prima di queste imprese mozzafiato che ho menzionato: la costruzione del ponte sul Reno.

Il motivo, innanzitutto. Cesare pensa sia necessario, oltre che glorioso, andare in Germania: se gli Svevi pensano di poter invadere la Gallia quando sono comodi, perché i Romani non dovrebbero fare lo stesso con loro? Ne hanno il coraggio e l’abilità. In più rimane da vendicarsi su Usipeti e Tenteri catturando la cavalleria inviata oltre la Mosa, che ora si è rifugiata fra i Sigambri. Alla richiesta di consegna di Cesare, i Germani rispondono che la riva destra del Reno non è di competenza romana. Ma gli Ubii, unici fra le popolazioni d’oltre Reno ad avergli consegnato ostaggi, chiedono con insistenza l’intervento di Cesare per difenderli dagli Svevi, e può Cesare negare soccorso a così insostituibili alleati? Come con gli Edui tre anni fa, la risposta è no.

Il problema su cui Cesare focalizza la nostra attenzione è che non sarebbe “né sicuro né confacente alla dignitas sua e del Popolo Romano” (dBG, IV, XVII) entrare per la prima volta nella Storia in Germania a bordo di misere zattere fornite da barbari. Dunque vada per il ponte. Ecco le istruzioni per chi volesse ricrearlo.

Per prima cosa, si formano delle specie di cavalletti con delle travi appuntite all’estremità inferiore e lunghe a seconda della profondità del fiume, congiunte a coppie a sessanta centimetri l’una dall’altra. Poi le si cala nel fiume tramite dei macchinari e le si conficca con battipali (altri macchinari appositi).

Una delle macchine usate per costruire il ponte, collocato in un punto incerto nei pressi di Coblenza.

I cavalletti non vanno confissi ad perpendiculum come le palafitte, ma inclinati nel senso della corrente. A circa dodici metri da essi si dispone un’altra fila di cavalletti, questa volta in senso contrario, e sopra di essi si incastrano delle travi lunghe sessanta centimetri – cioè la distanza tra un palo e l’altro di ogni cavalletto – che danno alle due strutture, per ora separate, l’aspetto di scale a pioli. L’accorgimento serve per tenere separati i piloni dei diversi cavalletti. Per lo stesso motivo, alle estremità dei pali da sessanta centimetri ci sono dei ramponi che impediscono ai cavalletti di avvicinarsi. Il tutto è così ben congegnato – gongola Cesare – che più violenta è la corrente e più solida è la struttura. Infine, sulle traverse si aggiungono delle travi ricoperte di tavole e graticci, che costituiranno il passaggio. Il ponte è ulteriormente puntellato a valle da contrafforti in senso obliquo, e difeso a monte da altre travi che faranno da “colino” contro tronchi e navi che i Germani userebbero per distruggere il capolavoro. Il ponte risulta lungo cinquecento metri e largo quattro, ed è pronto – dice Cesare – in soli dieci giorni. Avrà vita breve, nemmeno tre settimane, ma questo non conta. Anzi, per secoli ci si spremerà le meningi chiedendosi dove sia il segreto. Il primo che capirà il tutto e lo documenterà con abbondanti disegni sarà Andrea Palladio – di cui, in attesa di un articolo per me insolitamente cinquecentesco, vi dico solo che chiamerà i figli Leonida, Marcantonio, Orazio, Silla (notare, grazie!) e Zenobia: grazie solo agli ultimi due e al suo cognome, Palladio fa parte del mio personale empireo dei Grandi!

Il ponte in un dipinto “neoclassicamente romantico” di John Soane, 1814.

Ad ogni modo, vediamo or ora otto legioni romane passare il Reno, lasciando abbondanti presidi su entrambe le sponde, per poi marciare sui Sigambri (che, vi ricordo, ospitano la residua cavalleria tentera e usipeta). È giugno.

La Germania come apparirà ai Romani nati quasi tre secoli dopo Cesare. Questa cartina serve per mostrarvi quanto enorme sia rispetto ad oggi.

I quali Sigambri, consigliati a loro volta da quei vigliacchi dei rifugiati, hanno da tempo appallottolato famiglie e averi nei carri e se la sono svignata nelle loro foreste.

Cesare ha imparato dall’anno scorso e non ha la minima intenzione d’inseguirli: devasta i campi, brucia villaggi e costruzioni isolate e poi va dagli Ubii. Qui giunto, viene informato del fatto che gli Svevi sanno del ponte e li aspettano al centro delle loro terre con un immenso esercito composito. Il nostro eroe prende una decisione forse inaspettata, per come lo conosciamo, ma sicuramente l’unica razionale: se ne va. Beh, lui non lo dice così, ci tiene a convincerci che davvero ha già raggiunto tutti gli scopi che si era prefisso – intimorire i Germani, punire i Sigambri e aiutare gli Ubii – e che ha rischiato abbastanza in nome della gloria sua e dell’interesse di Roma, ma noi non ce la beviamo: se avesse potuto, non ci sono dubbi che avrebbe massacrato almeno i Sigambri ed i loro protetti, no?

Dunque, dopo diciotto giorni in Germania, Roma torna a spadroneggiare sulla sponda sinistra del Reno, e il mitico ponte viene distrutto. Ma rimane ancora un po’ d’estate, Cesare non vorrà sprecarla!

No, infatti. Si va in Britannia. E perché mai?, direte voi. Il motivo vero è lo stesso della spedizione in Germania: acquisire auctoritas per il Grand’Uomo. Il motivo di copertura è punire le genti che mandano fisso i rinforzi ai cugini Galli quando si tratta di liberarsi da Roma. In effetti, come vedremo – se vi aggrada – nel prossimo articolo, i Britanni della costa sud sono discendenti o addirittura parenti dei Galli e dei Belgi, quindi non stupitevi se notate che i nomi di certi popoli, come gli Atrebati, compaiono sia nella Belgica che in Britannia.

Ci sono già degli indizi che ci fanno pensare che Cesare voglia spezzare la spedizione in due campagne, cosa che in effetti farà. In particolare afferma (dBG, IV, XX) che, anche se quest’anno non ci fosse tempo per fare una guerra, è sempre meglio familiarizzare con popoli e luoghi.

Come suo solito, cerca di raccogliere quante più informazioni sull’isola, arrivando a radunare dozzine di mercanti e ad inviare Voluseno a perlustrare la costa, ma con risultati talmente trascurabili che non ci vengono nemmeno riferiti – cosa che mi irrita alquanto. Intanto che i suoi legati sono a caccia di conoscenza per lui, Cesare va a trovare i Morini, che detengono il controllo dello stretto. E qui qualcuno urlerà: “Ma come, non si sa niente della Britannia, eppure tu hai già lasciato intendere che i Romani sanno che è un’isola e che c’è uno stretto?” Sì, sanno tutto questo perché abbiamo detto che i Veneti commerciano con la Britannia, e dunque ne conoscono i porti – ma rimane il fatto che nessuno di essi è adatto per ospitare cento navi, tra longae ed onerariae (cioè rispettivamente da guerra e da carico). E i Romani, avendo battuto i Veneti, hanno anche accesso alle loro conoscenze. Infine, la Britannia fu circumnavigata dal greco Pitea, che arrivò a vedere il sole di mezzanotte e l’aurora boreale.

Queste cento navi che Cesare conta di possedere gli risultano dalla flotta dell’anno scorso più quelle da carico – compresi praticamente anche tutti i pescherecci della zona, data la fretta che ha. Intanto la notizia della spedizione giunge, attraverso i mercanti, fino ai Britanni, che si affrettano a mandare a Cesare ostaggi e offerte di obbedienza. Cesare, compiaciuto del fatto che il nome di Roma incuta timore a duemila miglia di distanza, esorta i barbari a mantenere saldi i loro propositi e li rispedisce sulla loro isola insieme a Commio, che lui stesso ha nominato re degli Atrebati dopo la guerra, con l’incarico di preparare il suo arrivo.

Meraviglia delle meraviglie, mentre Cesare sta ancora facendo i preparativi per la crociera, i Morini gli si presentano chiedendo umilmente perdono per la loro condotta disdicevole, l’anno prima, “quando essi, barbari rudi e ignari delle nostre abitudini di clemenza, avevano fatto guerra al Popolo Romano” (dBG, IV, XXII) e mettendosi al suo servizio. Indovinate un po’? “Cesare ritenne ciò molto opportuno”, perché non è proprio il caso di lasciarsi un nemico alle spalle che ti controlla i punti di approdo… e comunque non ha tempo di far loro la guerra: la Britannia prima di tutto. Per cui accetta di buon grado la pace, raduna un’ottantina di navi da carico, in cui stipa la Settima e l’immancabile Decima, più altre diciotto per la cavalleria – le quali, vi preannuncio, non riusciranno mai a raggiungerlo sull’isola. Sul posto lascia il legato Sulpicio Rufo a coprirgli le spalle con gli uomini che ritiene necessari, mentre il resto dell’esercito (cioè, diciamo, almeno quattro legioni, ma non ci viene detto), guidato dai soliti Titurio Sabino e Aurunculeio Cotta, viene mandato a sottomettere le tribù di Menapi e Morini che non hanno fatto atto di obbedienza.

A mezzanotte di quella stessa sera, Cesare salpa col vento in poppa e alle dieci del mattino seguente raggiunge la costa britannica. È il 26 agosto. Le diciotto navi con la cavalleria a bordo se la sono presa comoda e sono rimaste indietro. Ipotizzo che gli sarebbero servite subito, visto che le colline che sovrastano la spiaggia sono costellate di armati: i nemici sono in posizione sopraelevata e così vicini che i loro dardi raggiungeranno la riva; Cesare non trova un punto protetto in cui sbarcare e attende quelle benedette diciotto navi all’ancora per cinque ore. Infine, non potendo contare su di esse, tiene un consiglio di guerra in cui decide di far sbarcare i suoi su un lido piano ed esposto.

L’operazione è già difficile di per sé, poiché le navi hanno una carena così curva che si sono dovute ancorare a distanza per non arenarsi, e quindi i soldati devono saltare giù con le armi in mano, trovare un punto stabile in mezzo all’acqua e combattere; tutto col bagaglio, seppur ridotto, addosso*. In più i barbari li hanno visti e cercano d’impedire lo sbarco con carri e cavalleria. A questo punto, ancora una volta la tecnologia salverà tempo e vite, perché Cesare manda le navi da guerra a respingere il lato destro nemico, scoperto, per mezzo delle armi da gitto: fionde e frecce, certo, ma soprattutto balliste**.

Una ballista. Ci si potrebbe aspettare un attrezzo di dimensioni colossali, invece i Romani sono intelligenti e compattano, proprio come l’IKEA.

I Romani riprendono coraggio al parziale ripiegamento dei barbari, e ancora più eroico è il comportamento dell’aquilifero della Decima – che, vi ricordo, se perde l’insegna, la legione o muore con lui, o viene decimata, o viene congedata con disonore… più spesso la prima ipotesi – : questi invoca gli dèi e urla “Saltate giù, compagni, se non volete consegnare la vostra aquila ai nemici: io da parte mia farò il mio dovere per Roma e per il nostro imperator!” E si butta nella mischia, protetto con nuovo ardore dai legionari.

Tuttavia, se gli atti di coraggio (o di disperazione, che ammiro moltissimo) bastano nell’Iliade a far vincere una battaglia, coi pragmatici Romani così non è: i nostri non riescono a tenere la posizione e le formazioni sono traballanti perché ognuno, sbarcando, si è aggregato sotto la prima insegna che ha trovato, mentre i Britanni vedono i buchi dall’alto, scendono a cavallo e circondano i gruppi isolati. Cesare rimedia mandando i pochi rinforzi di cui dispone dove c’è bisogno. In questo modo, per improbabile che possa sembrare, i Romani non solo non vengono respinti, ma raggiungono la spiaggia, riformano gli schieramenti e mettono in fuga i Britanni! L’unica pecca è che, mancando la cavalleria, non possono inseguirli a lungo sulle colline:

Questo solo mancò perché Cesare avesse anche quella volta la solita fortuna.

Infine, con i messi inviati per i negoziati risbuca Commio Atrebate, poveretto, che scopriamo essere stato incarcerato nel riferire ai barbari suoi cugini le volontà del divo Giulio. Chiedono la pace “in considerazione della loro ignoranza” (dBG, IV, XXVII) (ci manca solo che implorino perdono ‘in considerazione’ dell’evidente demenza dei loro anziani, perbacco!) e la ottengono dopo una buona dose di cesariane lagnanze – “Ma come, hanno spedito gente fino in Gallia per dire che avrebbero obbedito, e poi accolgono il loro dominus facendogli guerra senza neanche un pretesto? Mah!”

Il quarto giorno di permanenza sull’isola quelle disgraziate diciotto navi salpano di nuovo dal continente, questa volta arrivando fino in vista del campo di Cesare: subito scoppia una tempesta così tremenda che alcune vengono risospinte verso la Gallia, mentre altre si scontrano con le scogliere a sud-ovest. Quella stessa notte accade un altro disastro: i Romani non sanno prevedere quando si manifesterà l’alta marea, per cui le navi da guerra tirate in secco si riempiono d’acqua mentre le onerarie, ancorate, vengono sbatacchiate qua e là senza che le si possa manovrare. Il risultato: molte navi danneggiate, altre inservibili (perché una nave sia inutilizzabile basta non avere funi ed ancore). Dunque, non ci sono altre navi, né pezzi di ricambio, né materiali per realizzarne di nuovi ed il cibo inizia a scarseggiare, perché si era messo in conto di svernare sul continente.

I principes britanni si riuniscono e vedono che Cesare manca di cavalieri, navi e approvvigionamenti: non può attaccare al massimo della sua potenza, non può scappare e non può restare… Basta sconfiggerlo, e le ingerenze di Roma sulla loro verde isola finiranno per sempre (mai previsione fu più errata)! Dunque si mobilitano per la seconda volta – infatti, non chiedetemi perché, hanno congedato i soldati della prima scaramuccia pur vedendo bene che Cesare non era fuggito, anzi… Bah!

Cesare, per una volta, non è al corrente di tutto questo, ma sospetta.

Itaque ad omnes casus subsidia comparabat.

Cioè si prepara a tutto: fa portare del grano dai campi circostanti ogni giorno, sventra le navi morte per riparare quelle ferite (come facciamo con gli umani), riutilizzando soprattutto le parti metalliche e fa venire dal continente il resto. In questo modo perde “solo” dodici delle ottanta navi di cui dispone.

Intanto che prende tutti questi accorgimenti, la Settima viene mandata a fare frumento. I legionari arrivano sul posto, si liberano delle armi, delle armature e del bagaglio, indossano le loriche di cuoio (vi immaginate la tortura di indossare una corazza a piastre, ad anelli o a fasce metalliche per i lavori manuali?) e si mettono a tagliare il raccolto.

Torniamo da Cesare. Passa diverso tempo e lui sospetta il peggio. Quando gli viene riferito che c’è un gran polverone nella direzione in cui si è allontanata la Settima, il nostro eroe prende le coorti di guardia al campo, ordina ad altre due di prendere il loro posto e alle altre di armarsi e seguirlo. Arriva mentre i suoi sono completamente circondati dai barbari, che corrono come forsennati scagliando frecce dai carri, insinuandosi nelle aperture, smontando e combattendo a piedi. Intanto gli aurighi dispongono i carri in modo da favorire la fuga, in caso di sconfitta; tattica che Cesare, pur nel mezzo della narrazione di una battaglia, non manca di apprezzare: i Britanni, dice, hanno così la mobilità dei cavalieri e la stabilità dei fanti. Poi, come si vanta lui stesso, interviene proprio nel momento giusto, sbaraglia gli attaccanti e riporta la depressa Settima al campo. Non è il caso di attaccare una battaglia seria: ha solo due legioni con sé.

Per inciso, non vi ho detto come hanno fatto i Britanni a capire dove sarebbe andata la legione: facile, era rimasto solo un punto in cui ancora non avevano fatto tabula rasa del raccolto…

I Romani dunque rientrano nel loro castra e lì rimangono per diversi giorni, bloccati dagli uragani. Intanto i Britanni mandano messi a destra e a manca in cerca di alleati. Quando sono soddisfatti del loro numero, marciano verso i nostri.

Cesare, “forte” della trentina di cavalieri racimolati da Commio Atrebate fra i britanni filoromani, schiera le legioni. Sa che non otterrà una vittoria completa, perché i nemici si ritireranno senza grosse perdite e senza essere inseguiti a lungo. Infatti i Romani sfondano il loro schieramento al primo assalto, li incalzano fin dove possono e bruciano i villaggi.

Naturalmente, arriva l’ennesima ambasciata de pace petens. Cesare, poco convinto, ordina la consegna di molti ostaggi da spedirsi sul continente. Salpa a mezzanotte, approdando incolume a Porto Izio, nella Belgica (oggi in Piccardia). Così viene coronata la prima spedizione romana in Gallia: non molte perdite, ma anche pochi risultati concreti. L’anno prossimo andrà meglio!

Ma non è ancora finita, perché i Morini – che, proprio come i Britanni, avevano chiesto spontaneamente la pace – li aspettano al varco: mentre i legionari stanno sbarcando, li circondano e ingiungono loro di gettare le armi o essere uccisi fino all’ultimo. Ovviamente i Romani si difendono e Cesare manda la cavalleria in loro soccorso. I Morini sono più di seimila: dopo quattro ore sono sconfitti e si arrendono all’arrivo dei rinforzi. Poi, visto che non sanno fare altro, scappano.

Il giorno dopo Labieno e le legioni “britanniche” vengono mandati a sistemare la cosa. Ora, se ricordate, l’anno scorso i Morini hanno trovato rifugio nelle paludi, ma ora è autunno: sono secche. Quindi non hanno altra scelta che sottomettersi.

Infine il circolo delle operazioni lasciate in sospeso con la partenza di Cesare si chiude quando Sabino e Cotta tornano al campo dopo aver devastato i raccolti e i villaggi dei Menapi, mentre la popolazione se ne stava nascosta nei boschi. Cesare acquartiera le legioni lì dove si trova, nella Belgica, dove gli giungono gli ostaggi promessi di soltanto due tribù britanniche (ecco perché ho detto che era poco convinto): equivale ad una dichiarazione di guerra. Il Senato ammaestrato dai triumviri indice altri venti giorni di ringraziamento agli dèi per la ‘buona riuscita’ dell’impresa.

Fine Libro Quarto: prima campagna contro Germani e Britanni.

***

*Immaginatevi il terrore dei Romani che, dopo più di tredici ore per mare – cosa che odiano e temono più di tutto – si trovano a combattere in mezzo all’acqua e all’improvviso fra i barbari vedono alcuni “reparti” di gente piena di tatuaggi e disegni blu sul corpo e sulla faccia! Sono i famosi Picti, bellicosa popolazione che compare perfino nei romanzi pseudostorici (ma più volgari che altro) di Jacqueline Carey. Sì, sì, ridete pensando ai Puffi, vorrei vedere voi alle prese con loro! Poveri i miei Romani!

**Ne parlerò diffusamente prima, durante o dopo l’articolo sul Libro Settimo. Questo è un riferimento troppo stringato, per ora.

De Bello Gallico (IV) – Libro Terzo

*** Premessa che non c’entra un tubo caramellato con quel che ho da dirvi: noto che ultimamente sono soggetta ad imbarazzanti errori di battitura. Se ne trovate qualcuno, potete segnalarmelo oppure lasciare che faccia una figuraccia, in ogni caso chiedo scusa in anticipo. Grazie! ***

Siamo nel 56 a.C., anno di morte del compianto Lucio Licinio Lucullo. Vale la pena parlarvene un po’. Membro della gens Licinia, la stessa di Crasso, Lucullo è un perfetto patrizio: è nipote dei famosissimi fratelli Metello Numidico – padre di Metello Pio, migliore amico di Silla – e Metello Dalmatico – la cui figlia, non per niente, sarà l’ultima moglie di Silla: tutte le strade mi portano a lui! – e fratello di Marco Terenzio Varrone Lucullo, console. Ora, io vorrei raccontarvi le storie di quattro generazioni di patrizi, ma dovrei prendere a parlare dai tempi di Mario. Impossibile, lo farò in separata sede. Ad ogni modo, c’è un aneddoto in particolare che ci dimostra la sua patrizia superbia, nonché l’innata passione per lo sfarzo: si narra che, una delle rare volte in cui Lucullo non aveva ospiti a cena, un servo gli portò un pasto singolo. La risposta fu “Non sai dunque che oggi Lucullo cenerà con Lucullo?”, e fece preparare per due.

Lucullo, ve l’ho accennato non ricordo dove insieme alla storia dei tordi, era un conservatore come Silla, ciononostante sposò Clodia Quinta, sorella dello scandaloso Publio Clodio. Prevedibilmente, l’unione non durò a lungo: quella generazione di Clodii aveva la tendenza al tradimento (e forse anche all’incesto tra fratelli e sorelle), quindi Lucullo la ripudiò e si fece nemico lo stesso Clodio. Una cosa che mi ha colpita, poi, è che nei romanzi della McCullough si dice che il generale avesse una passione per le ragazzine e per le droghe orientali: “notizia” molto probabilmente falsa, ma che di certo contribuisce a far rimanere in mente il personaggio!

Veniamo a noi. Cesare parte per Lucca, dove riconferma il triumvirato: ottiene il proconsolato delle stesse Province per altri cinque anni, mentre Pompeo e Crasso saranno consoli l’anno prossimo. La Gallia Transalpina viene ufficialmente dichiarata Provincia Romana. Il legato Servio Galba viene mandato ad aprire il valico del Gran San Bernardo, ufficialmente per aprire le vie ai mercanti. Con sé ha la Legio XII “Victrix”, ancora sotto organico dopo la battaglia coi Nervi (un’intera coorte, la IV, spazzata via, centurioni decimati, il primipilo Baculo gravemente ferito) e parte della cavalleria. La prima considerazione che mi viene da fare è: a cosa potrà mai servire la cavalleria in mezzo alle Alpi? Ad affamare i soldati con le esigenze dei cavalli? La risposta è che i cavalieri, proprio perché sono così costosi da mantenere, sono stati divisi per non gravare tutti sulle stesse popolazioni. In effetti, le volte in cui il cibo sarà un’incognita nei piani di Cesare sono moltissime. Fra poco ce ne sarà una di più.

Galba pacifica l’area fra le terre degli Allobrogi, il Lemano e il Rodano, lascia due coorti a presidiarla e col resto dei militari occupa Octoduro, un borgo situato in una stretta valle chiusa dai monti e diviso in due da un fiume. Una metà viene assegnata alla popolazione gallica, l’altra metà viene requisita per il castra stativa insieme alle scarse derrate di grano che i Veragri, il popolo della zona, hanno raccolto.

Tutto tranquillo, finché Galba viene a sapere che all’improvviso la zona “residenziale” di Octoduro è stata evacuata dai civili e che le creste dei monti circostanti sono gremite di soldati Veragri e Seduni, loro confinanti. Questo, per la mentalità gallica, è cogliere di sorpresa il nemico. Sarà. Cesare riferisce che i Galli considerano le forze romane trascurabili, decurtate come sono di due coorti e degli uomini in cerca di cibo. Di vero c’è che il castra è in posizione nettamente svantaggiata, e che la valle è troppo angusta per muoversi agilmente: dentro o fuori campo che siano, i Romani non subiranno che perdite. I Galli esagerano e si convincono che già il primo assalto sarà fatale.

Tutto questo quando il castra non è ancora fortificato a dovere, né è completo l’approvvigionamento di grano: d’altra parte, non si era pensato fosse urgente. Galba convoca il consiglio di guerra – anche se ricordiamo che, in assenza di Cesare, il legato è la massima autorità e può agire di testa sua. Sa che non riceverà aiuto né viveri, poiché le strade sono tutte bloccate all’altezza dei valichi. Una parte degli ufficiali suggerisce di abbandonare i bagagli, fare una sortita e mettersi in salvo. In perfetto stile gallico, non vi pare? La maggior parte del consiglio decide di riservare quest’opzione come ultima spiaggia, e intanto di tentare la fortuna tenendo la posizione.

I Galli, telepaticamente, non attendono un secondo di più. Si scagliano giù da tutti i lati lanciando pietre e giavellotti.

I nostri dapprincipio resistettero con tutte le forze; trovandosi in posizione più elevata, non lanciavano nessun dardo a vuoto e ogni volta che un punto dell’accampamento, sguarnito di difensori, sembrava cedere, correvano a difenderlo.

Sì, Cesare, ma il punto è che i legionari non sono in numero sufficiente nemmeno per coprire tutto il perimetro del campo, per cui sono costretti a correre qua e là senza cedere, anche se stanchi o feriti. Mentre i nemici possono sempre mandare avanti forze fresche – per quanto fresche possano essere dopo aver sceso di corsa i monti ed aver attraversato di corsa una vallata, dico io.

Dopo sei ore di lotta, in cui ai Romani iniziano a mancare anche le armi e i nemici li incalzano distruggendo la palizzata e riempiendo il fossato del castra, i centurioni Baculo (il solito Rambo che viene sempre ferito e non muore mai) e Voluseno dicono a Galba che è ora di ricorrere al piano B. Detto fatto, il legato dà ordine che i soldati si riposino un po’ limitandosi ad intercettare i dardi e poi di irrompere fuori contando ognuno su di sé. I soldati (poco più di 4.500) eseguono e, fortuna delle fortune, circondano da ogni parte i nemici, ne uccidono un terzo (10.000 su 30.000) e mettono in fuga gli altri. Questi ultimi sono così terrorizzati che non si fermano a riposare nemmeno sulle montagne.

Galba non osa sfidare di più la Fortuna, quindi distrugge Octoduno e il giorno dopo parte per la Provincia in cerca di cibo, accampandosi sano e salvo fra gli Allobrogi: non ha incontrato la minima resistenza sul suo cammino…

Come abbiamo visto alla fine dello scorso libro, Cesare ha riferito in Senato che la Gallia è stata pacificata, e per questo ha anche ottenuto quindici giorni di ringraziamento, ma ora ci pare ovvio che non sia così. Le notizie dei fatti di Octoduro lo raggiungono in Illirico, all’inizio dell’inverno, dove si trova “perché voleva recarsi anche presso quei popoli e conoscere quelle regioni” (dBG, III, VII). Sì, come no. In contemporanea scoppia un’altra guerra in Gallia. Dunque lasciamo Cesare per andare a vedere che succede là. Si tratta dei Veneti.

Ripropongo la cara vecchia cartina delle popolazioni, cosicché possiate raccapezzarvi di quanto dirò fra poco:

I principali popoli e città galliche. Concentratevi sulla parte occidentale.

 La zona sull’Oceano, in particolare quella degli Andi, è occupata da Publio Crasso (distintosi con Ariovisto, molto ammirato da Cesare per la sua clemenza) e la Settima. Ci troviamo in Armorica; cito non testualmente da wikipedia: “Armoar in celta gallico significa ‘terre sul mare’, in contrapposizione con l’argoat, l’interno della penisola.” Anche qui c’è carestia, per cui prefetti e tribuni vengono mandati in giro per le città vicine a fare rifornimenti. I due che capitano tra i Veneti, tali Velanio e Sillio, vengono trattenuti con la speranza di ottenere la restituzione degli ostaggi da Crasso (e non saremo informati della loro fine).

Ora, Cesare sa tutto, ma è troppo lontano, quindi ordina di costruire delle navi da guerra, o naves longae, sulla Loira (che sfocia nell’Oceano) e di arruolare rematori e timonieri dalla Provincia. Appena le condizioni atmosferiche lo permettono, parte alla volta dell’esercito.

I Veneti si preparano alla guerra alleandosi con tanti nomi buffi: Osismi, Lexovi, Namneti, Ambiliati, Diablinti (un tipo di Aulerci), Morini e Menapi, questi ultimi provenienti dalla Belgica: non è bastata loro la lezione dell’anno scorso?

Naturalmente Cesare tiene molto a ricordarci che non agisce tanto perché si annoia, ma per “timore che, se egli avesse trascurato di dare un esempio, le altre genti si sarebbero convinte di poter agire nello stesso modo” (dBG, III, X). Il che è vero, ma suona falso lo stesso! Poi dà ordine che tutto l’esercito si sparpagli per il territorio, per evitare che i Galli, “desiderosi di novità, mutevoli e impulsivi”, si accodino alla rivolta veneta.

Labieno viene spedito con la cavalleria tra i Treveri, affinché tenga a bada Remi, Belgi e Germani – che non venga loro in mente di arrivare a centinaia di migliaia proprio ora! In Aquitania va il venticinquenne Crasso con dodici coorti legionarie e una scorta di cavalieri, per bloccare gli aiuti gallici. Titurio Sabino va con tre legioni a tenere occupati Venelli (o Vnelli o Unelli, a seconda di quanto siete bravi a pronunciare le parole strane), Coriosoliti e Lexovi. Infine “il giovane Decimo Bruto” viene messo a capo della flotta costruita da Cesare e integrata dai rinforzi di Pictoni, Sàntoni e altri. Cesare prende le truppe terrestri e lo segue dalla costa.

Come sapete, o come dovreste sapere, la costa nord della Francia è una gran schifezza: i fondali sono bassi, le maree cambiano ogni dodici ore e l’Oceano di per sé fa i capricci. In più le città venete sorgono su promontori a strapiombo sul mare, all’estremità di lingue di terra che farebbero incagliare le navi mediterranee con la bassa marea e proibirebbero l’accesso alle truppe terrestri con l’alta marea. Un disastro. Come Cesare riesce ad espugnare una città, la popolazione viene caricata sulle navi venete e portata altrove senza alcun danno, e così avanti potenzialmente all’infinito. Di certo, per tutta l’estate.

Cesare fornisce qualche dettaglio agli appassionati di marina, di cui io certamente non faccio parte: le navi venete hanno carene (la parte sotto la linea di galleggiamento) piatte per affrontare i fondali bassi e sabbiosi, prue e poppe molto rialzate per sopportare le tempeste oceaniche e ancore legate con catene di ferro al posto delle solite cime. La nave è costruita in legno di quercia, con travi spesse trenta centimetri confitte con chiodi larghi due centimetri, e si sposta non grazie a vele di lino, che non è conosciuto e comunque non resisterebbe a lungo, ma con pelli e cuoio pieghevoli e sottili. In sostanza, le navi venete sono pesantissime e non hanno remi, mentre quelle romane sono più veloci ed hanno degli ottimi rematori – a volte schiavi, a volte legionari annoiati – , ma non possono danneggiare quelle venete nemmeno con i celebri rostra, né frecce o arpioni le raggiungono: sono navi d’alto bordo, come si dice.

Ebbene, alla fine dell’estate Cesare capisce che sta perdendo tempo e si siede ad aspettare la flotta. Quando questa arriva, i Veneti mandano fuori dalle città la loro. Sono cento navi romane, tra quinqueremi, triremi e liburne, contro duecentoventi nemiche. Una battaglia, finalmente!

Battaglia coi Veneti – Golfo di Quiberon, autunno 56 a.C.

Beh, nulla di più semplice. Dapprima Decimo Bruto e il suo stato maggiore non sanno che fare: i rostri no, le frecce no, gli arpioni no… come si fa ad agganciare queste navi? Perché l’obiettivo, fin dai tempi di delenda Carthago (e non protestate, so bene che Carthago si può scrivere con la ‘K’ e non l’ho fatto: è arcaico. E sì, so anche che è più diffuso Carthago delenda est, ma per Cesare sarebbe ridondante!), fin dalle Guerre Puniche, è abbordare le navi per trasformare il tutto in una battaglia di terra, in cui i Romani sono imbattibili. A fare la differenza è la tecnologia.

Ma vi era un’arma di grande utilità preparata dai nostri: delle falci taglientissime conficcate e inchiodate a lunghe pertiche, di forma non dissimile da quella delle falci murali.

Questa è la parte più bella: ora vi parlo di queste falci murali – spiegazione che, se dovessimo dipendere da Cesare, otterremmo solo nel Libro Quinto, con l’assedio di Avarico. All’anagrafe italiana “ganci d’assedio”, le falces murales sono, come descritto, degli affilati uncini di ferro infissi su pertiche, che vengono mosse con l’aiuto di funi ruotandole sia in senso longitudinale che trasversale. Cioè, quando l’ho spiegato ad una mia amica lei ha detto «Sì, diritte o di sbieco», e così credo si capisca meglio. L’uso tradizionale è volto a danneggiare le palizzate degli accampamenti o a “scrostare” le pietre delle mura raschiando la calce, mentre Bruto le usa per troncare le funi che legano vele e pennoni. Dunque le vele cadono e, complice la bonaccia, le navi venete non si possono muovere di un metro (vedete cosa succede a non avere schiavi?) mentre quelle romane le catturano e uccidono l’equipaggio. Tutto questo dura dalle dieci del mattino sino al tramonto, ma la vittoria è schiacciante.

Con questa battaglia si concluse la guerra contro i Veneti e i popoli della costa.

Infatti essi avevano puntato tutto su quella battaglia, e sia giovani che anziani vi sono morti. Cesare decide di insegnare ai superstiti il rispetto per l’inviolabilità degli ambasciatori uccidendo gli uomini più autorevoli e vendendo gli altri. Da questo deduco con ragionevole sicurezza che Velanio e Sillio riposano in pace!

Intanto, Sabino ha raggiunto la postazione assegnatagli da Cesare fra i Venelli, capeggiati da Viridovice. In pochi giorni anche Aulerci, Eburovici e Lexovi, ucciso chi si opponeva tra loro, si mettono sotto il suo comando. A questo punto il Cesare antropologo fa timidamente capolino per la prima volta tra tutti i tipi di Cesare, sentenziando:

Inoltre una grande quantità di disperati e di avventurieri era accorsa là da ogni parte della Gallia, in quanto la speranza di predare e il desiderio di combattere li distoglieva dal quotidiano lavoro dei campi.

Sembra solo a me che ci sia una nota di biasimo? No, certo che no. Eppure è esattamente quel che ha fatto Cesare stesso, fomentando una guerra invece di badare al suo tipo di ovile a Roma!

Sabino è pronto a tutto, ma non vuole combattere subito. Galli e Romani la prendono per codardìa, ed è proprio questo il fine. Infatti, quando i nemici sono cotti a puntino nel loro brodo di giuggiole, Sabino sceglie un gallo sveglio e lo manda da Viridovice come spia. Questi si presenta come disertore e gli riferisce che in effetti i Romani sono terrorizzati, anche perché Cesare è in difficoltà coi Veneti. Sabino ha in animo di togliere il campo di nascosto la prossima notte e accorrere in aiuto dell’imperator.

Abboccato. Il princeps gallo, costretto dalla penuria di viveri (di cui, nell’entusiasmo generale, hanno dimenticato di curarsi!), vuole crederci. Qui c’è la citazione molto simile alla Prima Regola del Mago, cui avevo già accennato:

Molte considerazioni spingevano i Galli ad effettuare questo piano: l’esitazione che Sabino aveva dimostrato  nei giorni precedenti, la conferma ricevuta dal disertore, la mancanza di viveri di cui essi avevano trascurato di far provvista, la speranza che riponevano nella guerra dei Veneti e il fatto che generalmente gli uomini prestano volentieri fede a ciò che desiderano.

I Galli dunque raccolgono “ramaglia e fascine” (dBG, III, XVIII) per colmare il fossato e saltellando beati si affrettano al castra.

Il quale castra, però, sta su un’altura di quasi millecinquecento metri: i Galli corrono per cogliere di sorpresa i Romani e, com’è ovvio, arrivano in cima con la lingua di fuori. Ora Sabino, trionfante, dà il segnale d’attacco. I legionari compiono una violenta irruzione dalle due porte interessate e sfondano lo “schieramento” al primo assalto; i Galli, barbari, inesperti, stremati e appesantiti dai bagagli, fanno quello che fanno sempre: fuggono. Anche i nostri, freschi freschi, fanno il solito: li inseguono e trucidano. La cavalleria fa il resto. Infine Sabino e Cesare vengono a sapere delle vittorie l’uno dell’altro, e Cesare conclude facendoci la morale:

Come infatti l’animo dei Galli è pronto e audace quando si tratta di iniziare una guerra, altrettanto fiacca e nient’affatto resistente è la loro indole di fronte alla sconfitta.

E meno male.

Manca Crasso, giunto in Aquitania, luogo di pesanti sconfitte nella storia romana (tra cui quella di Arausio del 6 ottobre 105, con quello scemo di Cepione: 105.000 effettivi all’andata, 5.000 al ritorno, tra cui Marco Livio Druso). Le cose qui vanno decisamente meglio, perché riesce a fare scorta di grano e a richiamare veterani da Tolosa e Narbona, per poi marciare sui Soziati. Fra attacchi e inseguimenti, Crasso giunge alla loro città – non altrimenti identificata – e, trovando resistenza, tira fuori macchine d’assedio e torri. I Soziati, grandi minatori, introducono un nuovo elemento: si mettono a scavare fosse fino al terrapieno romano, ma la vigilanza delle sentinelle vanifica la fatica e li costringe alla resa.

Non è l’unico motivo per cui i Soziati mi hanno colpita: il loro princeps, Adiatuano, ha una guardia molto simile agli Immortali persiani: seicento valorosi pronti a morire per e con lui, chiamati solduri. Sono uomini liberi che si vincolano con una semplice amicizia – niente giuramenti formali o cose simili – e che io assimilo ad Athos, Porthos, Aramis e d’Artagnan. Fatto sta che Adiatuano e i suoi fanno una sortita dall’interno della città, vengono sconfitti ma ottengono che le condizioni di resa rimangano invariate. Poi, immagino che si uccidano tutti, ma Cesare non li menzionerà mai più.

Considerazione personale: se fossi con Cesare gli consiglierei di non fidarsi di un uomo così compassionevole come Crasso, potrebbe causargli dei fastidi. Così non sarà, perché morirà suicida a Carre e la sua testa sarà mostrata al padre Marco prima che sia ucciso a sua volta, dopo la celeberrima disfatta.

Il nostro ex praefectus equitum (comandante della cavalleria) si sposta poi da Vocati e Tarusati che, terrorizzati, imbastiscono leghe e alleanze a destra e a manca, trafficano con gli ostaggi e chiedono aiuto alle città ispaniche sul confine aquitano. Una cosa intelligente la fanno – sorpresa! – : a capo dei diversi contingenti in cui si spezzettano le diverse etnie mettono i veterani romani che erano stati con Sertorio, ribellatosi contro Silla e sconfitto da Pompeo – più o meno. Vi parlerò anche di lui un giorno!

Dunque si combatterà alla romana. Infatti i “rinnegati” ordinano ai Galli di occupare le posizioni migliori, fortificare gli accampamenti, tagliare i rifornimenti a Crasso. Quest’ultimo, d’altra parte, non può dividere le sue forze già esigue per prendere tutti i presidi gallici, mentre i Galli possono permettersi anche di tappare tutte le strade lasciando ben protetti i loro accampamenti. Il numero di nemici aumenta di giorno in giorno: Crasso capisce di dover combattere e schiera le truppe in duplex acies, con al centro gli ausiliari, e aspetta che i Galli attacchino. Ma questi pensano sia meglio vincere con comodità: l’idea è quella di attaccare alle spalle i Romani quando, infiacchiti dalla mancanza di viveri e oberati dai bagagli, dovranno ritirarsi. Ma Crasso non può aspettare, e guida i suoi verso il campo gallico, fa riempire il fossato e scagliare frecce sulle difese, mentre gli inaffidabili ausiliari portano armi di ricambio ai legionari. Durante la battaglia Crasso viene a sapere che il punto debole dell’accampamento è la porta posteriore, dunque manda i suoi praefecti equitum con le coorti rimaste a presidio del castra alle spalle del nemico, non visti. I nemici, accerchiati, neanche a dirlo si danno alla fuga e la cavalleria ne uccide i tre quarti, poi torna al campo. E così è che una legione più una semplice scorta di cavalleria sconfiggono cinquantamila fra Aquitani e Cantabri (gli ispanici). E dire che in quelle terre sono andate perse diciannove aquile cinquant’anni prima di questi fatti…

Questo dimostra anche che, per quanto esperti e geniali possano essere i comandanti, non riusciranno a far combattere i barbari come i Romani: un Celta non sarebbe mai stato in grado di apprendere la disciplina di un legionario a meno di non essere educato per anni.

Dunque, gli Aquitani si arrendono, i Cantabri no, ma fa niente. Ricapitolando, in contemporanea abbiamo Cesare – cioè, Bruto… – che sconfigge i Veneti, Sabino che sconfigge i Venelli e Crasso che sconfigge gli Aquitani, tutto entro l’estate. Ma il nostro imperator non ne ha ancora abbastanza, e così, con virtù antiche per nuove glorie, parte alla volta di Menapi e Morini, i Belgi che si sono ribellati due volte in due anni.

È certo di liquidarli in fretta: sono rimasti i soli in armi in mezzo ad una Gallia bruciacchiata e, si spera, sottomessa. Invece questi si ritirano nelle paludi e nei boschi delle loro terre. Cesare arriva al limitare di essi e si accampa. Segue sempre stessa solfa: i barbari che piombano urlando sui legionari con la pala in mano (che, cavallerescamente, hanno la buona grazia di sembrare stupiti… o no?), i legionari che si armano alla bell’e meglio, li mettono in rotta, li inseguono fin nei boschi e subiscono pure poche perdite.

Nei giorni seguenti Cesare inizia ad abbattere la foresta che protegge i barbari, accatastando il legname via via risultato sui fianchi dei lavoratori, per protezione (geniale, geniale…). Non riuscirà a compiere l’opera, perché proprio nel momento in cui ci si impossesserà delle retrovie dei nemici – bestiame, bagagli, eccetera – inizieranno certi uragani e piogge continue che i soldati non potranno rimanere a lungo sotto le tende. Così Cesare bruciacchia un altro po’ di campi, villaggi e costruzioni isolate e sistema l’esercito tra gli Aulerci, i Lexovi e le popolazioni più instabili. È di nuovo inverno.

Campagna del 56 a.C.: il riassunto dell’intero articolo!

 Fine Libro Terzo: campagna contro Veneti, Venelli, Aquitani, Morini e Menapi.