Leggende di Roma: l’Oro di Tolosa

Centosettant’anni prima [della battaglia di Arausio, 105 a.C.], i Volci Tettosagi si erano uniti a una migrazione dei Galli capeggiati dal secondo dei due famosi re celtici a nome Brenno. Questo secondo Brenno aveva invaso la Macedonia, dilagando in Tessaglia, travolto i difensori greci al passo delle Termopili, ed era penetrato nella Grecia centrale e in Epiro. Aveva saccheggiato e razziato i tre più ricchi templi del mondo: quelli di Dodona in Epiro, di Zeus a Olimpia e il grande santuario di Apollo e della sua pitonessa a Delfi.
Poi i Greci si erano ripresi, i Galli ritirati verso nord con tutto il bottino, Brenno era morto in seguito a una ferita e il suo piano era fallito. In Macedonia, le sue tribù rimaste senza un capo decisero di attraversare l’Ellesponto e insediarsi in Asia Minore, dove fondarono l’avamposto gallico denominato Galazia. Ma una metà, forse, dei Volci Tettosagi preferì far ritorno a Tolosa anziché attraversare l’Ellesponto; durante un consiglio generale tutte le tribù convennero che a questi Volci Tettosagi con la nostalgia di casa si dovessero affidare i tesori di una cinquantina di templi saccheggiati, ivi compresi i tesori di Dodona, Olimpia e Delfi. Si trattava solo di questo: un affidamento. I Volci Tettosagi che tornavano in patria avrebbero conservato il bottino dell’intera migrazione a Tolosa, in attesa del giorno in cui tutte le tribù fossero rientrate in Gallia a reclamare la propria parte.
Per facilitare il viaggio di rientro, fusero tutto quanto: grandi statue d’oro massiccio, urne d’argento alte un metro e mezzo, coppe e vassoi e boccali, tripodi d’oro, corone d’oro o d’argento, tutto quanto finì nei crogioli, un po’ alla volta, e alla fine mille carri stracolmi procedettero verso occidente lungo le placide valli alpine del Danubio e dopo alcuni anni discesero la Garonna e giunsero a Tolosa.

Cosa facevano i Galli, prima che arrivasse Cesare a farli ballare?

Risposta esatta: scorrazzavano per l’Europa, in particolare per la Grecia, che invasero e da cui furono cacciati più e più volte dopo la morte di Alessandro Magno. Nell’occasione di cui sopra fecero più danni del solito.

La Grande Spedizione

Nel 280 a.C., l’anno in cui Pirro annienta i Romani a Eraclea, dalla Pannonia partono tre gruppi di Galli diretti rispettivamente in Tracia, in Macedonia e in Grecia.
I primi due quasi non incontrano resistenza, giustiziano il re di Macedonia in un baleno e, non trovandoci gusto, si ritirano a nord infischiandosi altamente delle conquiste.
Il terzo contingente, invece, dopo una pesante defezione arriva fino in Tessaglia, passa le Termopili con poco sforzo e assedia il tempio di Apollo a Delfi. Solo un’epidemia e i rigori dell’inverno determinano il successo dei difensori.

Con gravi perdite e il comandante della spedizione, Brenno, moribondo (e poi suicida), l’armata inizia il ripiego e si frammenta. Una parte si unisce agli Scordisci in Illiria, il resto si aggrega al gruppo che aveva fatto defezione.
Dopodiché questi ultimi, un misto di Trocmi, Tolistobrogi e Tettosagi, fanno da mercenari per la Bitinia, combattono in Asia Minore e pensano di restarci. Ovviamente finiscono per fare i predoni nelle ricche poleis costiere e continuano a fornire soldati al miglior offerente.
Questa sì che è vita! Senonché dopo un po’ l’esercito cui si sono uniti — per la cronaca, quello di un Mitridate del Ponto — viene sconfitto e loro finiscono in una zona abbastanza schifosa dell’Anatolia. Lì fondano il regno di Galazia, ché i Greci hanno preso a chiamarli Galati anziché Celti, e si danno una capitale: Ancyra, odierna capitale della Turchia.

Così si crea una sorta di exclave della Gallia, che non si lascerà ellenizzare fino al IV secolo (scomparsa del dialetto galato secondo san Girolamo).

excited

La leggenda

Avrete notato che la realtà storica è diversa da quel che dice la citazione in incipit di articolo. I Galli non saccheggiarono mai Delfi, anche se ci andarono molto vicino.
Ciò dipende dalla manipolazione che i Romani fecero dell’evento per giustificarne un altro: la disfatta di Arausio.

Fu una cosa grossa: diciannove legioni romane contro duecentomila tra Cimbri, Teutoni, Ambroni e Tigurini, gli stessi che poi sbatteranno il muso contro Mario. Eppure non ne abbiamo quasi notizia.
Sappiamo che nel 105 a.C. è successo qualcosa solo da citazioni di fonti indirette in opere frammentarie o, alla meno peggio, da riassunti per gli scolari di libri di storia scritti un secolo dopo l’accaduto.
È il caso delle Periochae della Storia di Roma dalla sua fondazione di Livio, che non dicono più di questo:

Perioca 67 (anni 105-103)

1 – Marco Aurelio Scauro, legato del console, fu catturato dai Cimbri dopo la disfatta dell’esercito e poiché, convocato nel loro consiglio, cercava di scoraggiarli dal valicare le Alpi per attaccare l’Italia, per il fatto che diceva che i Romani erano invincibili, fu assassinato da Boiorix, un giovane di indole fiera. 2 – Sconfitti in battaglia dai medesimi nemici, il console Gneo Manlio e il proconsole Quinto Servilio Cepione furono anche spogliati ognuno del suo accampamento; furono uccisi presso Arausio, secondo Anziate, ottantamila soldati e quarantamila attendenti e vivandieri. 3 – Cepione, alla cui temerità era dovuta la sconfitta subita, fu condannato, i suoi beni furono confiscati per la prima volta dopo il regno di Tarquinio e gli fu revocato il comando militare.

In cui figurano Boiorix, futuro capo dei Teutoni giusto in tempo per essere battuto da Mario, e Cepione, idiota del terzo tipo.
Così idiota da avere credibilità pari a zero nel momento in cui a Roma qualcuno iniziò a parlare dell’Oro di Tolosa, di come Cepione avesse approfittato del suo incarico sul posto per trovarlo, requisirlo, simularne il furto da parte dei briganti e tenerlo per sé senza passare uno spicciolo a Roma.

Finì che il nostro si beccò un’accusa di malversazione, la requisizione dei beni e la pena capitale, probabilmente revocata in favore di un più convenzionale esilio a Smirne.
Strabone aggiunge che le figlie dovettero darsi all’arte più antica del mondo (come mi hanno suggerito di dire a scuola in luogo di un termine più preciso) e morirono in disgrazia.
Mica tanto, visto che invece il figlio di Cepione passò al suo erede una fortuna che non poteva aver accumulato da solo…

Giusto per mettere al suo posto un tassello, tale erede, il figlio della figlia del Cepione di Tolosa è Bruto, cesaricida. Quindi probabilmente quell’immensa fortuna finì comunque nelle casse dell’erario. Happy ending.

Appendice I

Il 280 è un anno bellissimo, perché porta in rilievo quella sensazione di complessità che è raro trarre dalle poche fonti dell’Evo Antico. Sembra sempre che gli eventi accadano in posti diversi in momenti diversi, in una linea noiosissima in cui succede qualcosa d’importante una volta ogni cent’anni. Qui è diverso. Mentre in Italia le legioni si facevano battere vergognosamente da Pirro re d’Epiro, la Grecia e l’Epiro stesso facevano fronte a un’invasione di decine di migliaia di barbari, riuscendo in qualche modo a liberarsene.

La cosa è particolare anche in un’ottica di concetto.
I Greci erano il popolo disunito per antonomasia, a maggior ragione dopo il crollo dell’impero macedone, ma isolatamente, ognuno con piccole armate, riuscì a risputare indietro un’orda più o meno compatta, nonostante le varie etnie che comprendeva.
D’altro canto, una potenza nascente dai tratti già monolitici come Roma, tenuta insieme da organi politici ben radicati nella tradizione e un patriottismo senza precedenti, perse contro un re un po’ cialtrone per un misero litigio tra consoli.

Morale della favola: l’unione non fa la forza, perché l’unione non esiste. 😀

Appendice II

La Perioca che ho citato parla di un Aurelio Scauro catturato dopo la disfatta dell’esercito, ma prima della battaglia di Arausio. Non è un’incongruenza: in realtà quella fase della guerra fu persa perché, proprio come a Eraclea nel 280, il console patrizio — Cepione l’idiota — e il console plebeo — Manlio Massimo — non erano d’accordo sulla strategia da impiegare. Divisero l’esercito e furono sconfitti separatamente.
La vicenda del legato Scauro è avvolta nel mistero. Ecco come la McCullough ci ricama sopra:

[…] Marco Aurelio Scauro fu fatto prigioniero prima che potesse gettarsi sulla sua spada.
Tradotto al cospetto di Boiorix, di Teutobod e del resto dei cinquanta capi¹ che erano venuti a parlamentare, Aurelio si comportò in modo splendido. Il suo portamento era fiero, i suoi modi intollerabilmente altezzosi; non ci fu oltraggio o sofferenza che potessero infliggergli capace di fargli chinare il capo o strappargli un lamento. Lo rinchiusero in una gabbia di vimini appena grande abbastanza da contenerlo, e  lo costrinsero a guardare mentre erigevano una pira con legname stagionato, vi appiccavano il fuoco e la lascisvano ardere. Aurelio guardò, a gambe salde, neanche un tremito alle mani, nessuna traccia di paura sul viso, senza neppure aggrapparsi alle sbarre della sua angusta prigione. Poiché non rientrava nei loro piani che un romano morisse asfissiato dal fumo o di morte troppo rapida tra grandi lingue di fiamma, attesero che la pira si fosse ridotta a un cumulo di braci ardenti, poi issarono la gabbia di vimini proprio al centro del rogo e lo arrostirono vivo.
Ma vinse lui, anche se la sua fu una vittoria solitaria. Non permise a se stesso, infatti, di contorcersi in preda alle atroci sofferenze, né di urlare o lasciare che le sue gambe si piegassero. Morì da vero nobile romano, risoluto a dimostrar loro con la sua condotta il reale valore di Roma, a renderli edotti di un luogo che sapeva produrre uomini come lui, romano di Roma.

***

¹La traduzione italiana dice thane, ma è un anacronismo: nella definizione dell’Encyclopædia Britannica i thane erano dei feudatari dell’Alto Medioevo, e in ogni caso tale lemma è attestato in un solo scritto antecedente il decimo secolo d.C.

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Leggende di Roma: Caio Popilio Lenate

Oggi un racconto famoso, che giustifica lo snobbismo romano più di molte guerre. E siccome sono convinta che le leggende vadano lette in tono favolistico, ecco la versione di Colleen McCullough.

[Da una lettera di Publio Rutilio Rufo all’amico Caio Mario]

   Siccome sei un povero zotico italico che non sa di greco, ti racconterò una storiella.
    C’era una volta un re di Siria, molto cattivo e antipatico, a nome Antioco. Ora, poiché non era il primo re di Siria che si chiamasse Antioco, e neppure il più grande (suo padre si era attribuito l’appellativo di Antioco il Grande), si distingueva dagli altri con un numero. Era Antioco IV, il quarto re Antioco di Siria. Sebbene la Siria fosse un regno ricco, re Antioco IV concupiva il vicino regno d’Egitto, dove i suoi cugini Tolomeo Filometore, Tolomeo Evergete, ossia il Pancione, e Cleopatra (che, essendo la seconda Cleopatra, si fregiava a sua volta di un numero, ed era nota come Cleopatra II) regnavano assieme. Vorrei poter dire che regnavano in perfetta armonia, ma così non era. Fratelli e sorella, e anche mariti e moglie (sì, nei regni orientali l’incesto è permesso), erano in conflitto tra loro da anni, ed erano quasi riusciti a mandare in rovina la bella, fertile terra del gran fiume Nilo. Così, quando re Antioco IV di Siria ha deciso di conquistare l’Egitto, ha creduto che avrebbe avuto vita facile grazie ai bisticci fra i suoi cugini, i due Tolomei e Cleopatra II.

Cleopatra #2.

   Ma, ahimè, non appena ha girato le spalle alla Siria, alcuni sgradevoli episodi di sedizione l’hanno costretto a fare dietro-front e a rientrare in patria per tagliare un po’ di teste, squartare un po’ di corpi, strappare un po’ di denti e, probabilmente, estirpare qualche utero. E ci sono voluti quattro anni prima che un numero sufficiente di teste, braccia, gambe, denti e uteri fosse asportato ai legittimi proprietari, e che re Antioco IV riuscisse ad accingersi per la seconda volta a conquistare l’Egitto. Questa volta, in sua assenza la Siria è rimasta tranquilla e docile, così re Antioco IV ha invaso l’Egitto, conquistato Pelusium, disceso il delta fino a Menfi, conquistato anche questa città e iniziato la risalita dell’altro lato del delta, in direzione di Alessandria.
Avendo mandato in rovina il paese e l’esercito, i fratelli Tolomei e la loro moglie-sorella, Cleopatra II, non hanno avuto altra scelta che chiedere aiuto a Roma contro re Antioco IV, poiché Roma è la più forte e la più grande di tutte le nazioni, nonché l’eroe di tutti.
In soccorso dell’Egitto, il Senato e il Popolo di Roma, che a quei tempi andavano più d’accordo di quanto oggi crederemmo possibile, o almeno così riferiscono le cronache, hanno inviato il loro nobile, prode consolare Caio Popilio Lenate.
   Ora, qualsiasi altro paese avrebbe accordato al suo eroe un intero esercito, e invece il Senato e il Popolo di Roma hanno concesso a Caio Popilio Lenate soltanto dodici littori e due scrivani. Poiché, tuttavia, si trattava di una missione all’estero, ai littori era stato concesso di indossare le tuniche rosse e di inserire le scuri nei fasci di verghe, per cui Caio Popilio Lenate non era del tutto indifeso. Si sono imbarcati su una piccola nave e hanno gettato l’ancora nel porto di Alessandria proprio mentre re Antioco IV risaliva il ramo canopico del Nilo, in direzione della grande città dove si erano rifugiati gli Egiziani.
   Avvolto nella toga bordata di porpora e preceduto dai dodici littori in tunica cremisi, recanti le scuri nei fasci di verghe, Caio Popilio Lenate è uscito da Alessandria per la Porta del Sole e ha continuato a marciare verso oriente. Ora, non era più un giovanotto, così procedeva appoggiandosi a un lungo bastone, il passo placido al pari del volto. Dal momento che solo i prodi ed eroici e nobili Romani costruiscono strade degne di tal nome, ben presto Caio Popilio Lenate si è ritrovato a camminare nella polvere. Ma Caio Popilio Lenate si è forse lasciato scoraggiare? No! Ha continuato ad avanzare, fin quasi all’immenso ippodromo dove gli Alessandrini amavano assistere alle corse dei cavalli, si è imbattuto in una muraglia di soldati siriaci e ha dovuto fermarsi.
Il re Antioco IV di Siria si è fatto avanti, incontro a Caio Popilio Lenate.
«Roma non ha alcun diritto di mettere il naso in Egitto!» ha detto il re, con terribile, funesto cipiglio.
«Neppure la Siria ha diritto di mettere il naso in Egitto» ha ribattuto Caio Popilio Lenate, con un sorriso dolce e sereno.
«Tornatene a Roma» ha detto il re.
«Tornatene in Siria» ha detto Caio Popilio Lenate.
Ma nessuno dei due si è mosso di un centimetro.
«Stai recando offesa al Senato e al Popolo di Roma» ha aggiunto Caio Popilio Lenate, dopo aver fissato per un po’ il volto fiero del re. «Mi è stato ordinato di costringerti a far ritorno in Siria.»
Il re ha riso a crepapelle, e sembrava che non riuscisse più a smettere. «E come farai a costringermi a tornare in patria?» ha domandato. «Dov’è il tuo esercito?»
«Non mi serve un esercito, re Antioco IV» ha risposto Caio Popilio Lenate. «Tutto ciò che Roma è, è stata e sarà, ti sta di fronte in questo momento. Io sono Roma non meno del più grosso esercito di Roma. E nel nome di Roma, ti ripeto di bel nuovo: tornatene a casa!»
«No» ha detto re Antioco IV.
   Così, Caio Popilio Lenate ha fatto un passo avanti e, con gesti pacati, si è servito della punta del bastone per tracciare un cerchio nella polvere, tutt’attorno alla persona di re Antioco IV, che si è trovato all’interno del cerchio disegnato da Caio Popilio Lenate.
«Prima di uscire da questo cerchio, re Antioco IV, ti consiglio di ripensarci» ha detto Caio Popilio Lenate. «E quando ne uscirai… be’, volgiti verso oriente e tornatene in Siria.»
   Il re non ha aperto bocca. Il re non si è mosso. Caio Popilio Lenate non ha aperto bocca. Caio Popilio Lenate non si è mosso. Dato che Caio Popilio Lenate era un romano e non aveva bisogno di nascondere il viso, la sua espressione dolce e serena era in piena vista. Invece re Antioco IV aveva il viso nascosto dietro una barba finta, riccioluta e dura, e persino così non riusciva a celare il suo furore. Il tempo passava. E poi, ancora all’interno del cerchio, il potente re di Siria si è girato sui talloni, verso oriente, ed è uscito dal circolo procedendo in direzione orientale ed è tornato in Siria assieme a tutti i suoi soldati.
   Ora, mentre puntava sull’Egitto, re Antioco IV aveva invaso e conquistato l’isola di Cipro, che apparteneva all’Egitto. L’Egitto aveva bisogno di Cipro, perché Cipro gli forniva il legname per le navi e le case, e grano e rame. Così, dopo essersi congedato dagli Egiziani plaudenti ad Alessandria, Caio Popilio Lenate ha fatto vela per Cipro, dove ha trovato un esercito di occupazione siriaco.
«Tornatevene a casa» ha detto loro.
E quelli se ne sono tornati a casa.
   Anche Caio Popilio Lenate se n’è tornato a casa, a Roma, dove ha riferito, con grande dolcezza e serenità e semplicità, che aveva rimandato a casa re Antioco IV di Siria e risparmiato all’Egitto e a Cipro un destino crudele. Vorrei poter concludere il mio raccontino assicurandoti che i Tolomei e la loro sorella, Cleopatra II, d’allora in poi sono vissuti e hanno regnato felici e contenti, ma così non è stato. Hanno semplicemente continuato a bisticciare tra loro e ad assassinare alcuni parenti stretti e a mandare in rovina il paese.

***

Polibio scrive che Lenate, dopo aver tracciato la circonferenza, intimò al re di dargli il responso da riferire al Senato e che questi si arrese a fare “qualunque cosa i Romani avessero chiesto”. Solo dopo questo il nostro romano accettò di stringergli il braccio.
Per Livio Roma non mandò Lenate proprio solo soletto, bensì in compagnia di due senatori: fu una commissione d’inchiesta, che partì dall’Italia pressappoco quando vi tornò quella spedita in vista della battaglia di Pidna—ci arriveremo.
Che il nostro Caio Popilio se ne sia andato da solo o quasi in Egitto convinto di far paura quanto un esercito è credibilissimo, visto il numero di episodi simili attestati. Non si dubita nemmeno granché della storia del cerchio nella sabbia — anche l’Encyclopaedia Britannica la riporta. Eppure un po’ di scetticismo ci sta bene — se non per la sceneggiata del vecchio politico, almeno per la reazione del re: possibile che una dichiarazione (anzi, una minaccia!) di guerra facesse tanta paura? Noi di Voyager crediamo di no. Beh, siamo nei primi anni ’60 del secondo secolo, la Terza Guerra Macedonica dura dal 171 e il suo esito è ormai evidente; soprattutto, Antioco ha già infranto la pace di Apamea occupando Cipro: che Roma non gli dichiari guerra a tavolino è già un colpo di fortuna insperato.
Insomma, con tutte queste dimostrazioni di forza la sua decisione non può che sembrare saggia.

Appendice: Alessandria

Alessandro (aprile 331 a.C.) fece edificare una delle circa diciotto città che portavano il suo nome su un villaggio di pescatori preesistente, Rhacotis. Da qui il nome egiziano della metropoli, che significa più o meno “La Ricostruita” o “L’Accresciuta”.
Secondo Machiavelli l’architetto responsabile di cotanto splendore, Dinocrate o Chirocrate o Stasicrate – in ogni caso qualcosa che c’entra con la forza (κράτος) – aveva già immaginato di trasformare il monte Athos in una città, e dato che non ci sarebbe stato spazio per coltivare il grano si accontentò di prevedere dei rifornimenti via mare. Un tipo molto efficiente, insomma…

Progettò anche la pira di Efestione (324 a.C.), impiegando un tipo di pietra introvabile nella zona di Babilonia.

Efestione (più che altro Jared Leto dei Thirty seconds to Mars) nel film Alexander. Qualcuno si ricorda ancora di questo fail?

Vitruvio scrive invece che la proposta fu di scolpire una facciata del monte a forma di Alessandro con una cittadina in una mano e una brocca nell’altra, a versare acqua finta in un fiume finto.

   Per tornare ad Alessandria, in pochi anni essa si sostituì a Tiro nei commerci e divenne la più grande città del mondo. Fino a Roma, naturalmente.
È memorabile per la sua divisione interna, che ricorda i castra romani per la razionalità: essendo stata progettata a tavolino, fu facile separare le diverse etnie, inglobando Rhacotis a sud-ovest, sul lago Mareotide, e trasformandola nel quartiere egizio, piazzando i dignitari macedoni su un altopiano che dominava il porto principale (oggi in parte sommerso e in parte isolato dalla costa) e che fece da acropoli, sbolognando gli ebrei nel quartiere Delta – lontanissimi dal centro e dalla residenza dei re, ma con ampio accesso al mare e spazio per il culto dei loro morti.

In rosso i posti appena nominati. In arancione i più antichi, perché qui c’è roba fino a Diocleziano. Clicca per ingrandire.

In realtà c’era anche una quarta etnia, in città: i greci. Se gli ebrei costituivano una società a sé stante, i macedoni erano l’èlite e gli egiziani la feccia, i greci si collocavano nella fascia media della popolazione; in particolare, erano funzionari di corte con grado variabile a seconda che potessero vantare parentele macedoni o meno.
Questa suddivisione era così rigida che si mantenne invariata per tutta l’epoca ellenistica.

Saltando a piè pari quelle tre cose che conoscono tutti – biblioteca, museo e Faro, collegato alla terraferma dall’Eptastadio – meno noto è che Ottaviano entrò in Alessandria il primo giorno di sestile del 30 a.C., quasi un anno dopo Azio, ed è per questo che il mese corrispondente fu rinominato agosto.

Il resto non è storia classica, non ci servirà in futuro. In futuro c’è l’assedio del 47, con Cesare tappato dentro e tante cose belle.

Minibonus

Alessandria al tempo della Cleopatra famosa.

Se cliccate su quest’immagine finite su National Geographic. Lì quei pallini nascondono molti dettagli.