Leggende di Roma: l’Oro di Tolosa

Centosettant’anni prima [della battaglia di Arausio, 105 a.C.], i Volci Tettosagi si erano uniti a una migrazione dei Galli capeggiati dal secondo dei due famosi re celtici a nome Brenno. Questo secondo Brenno aveva invaso la Macedonia, dilagando in Tessaglia, travolto i difensori greci al passo delle Termopili, ed era penetrato nella Grecia centrale e in Epiro. Aveva saccheggiato e razziato i tre più ricchi templi del mondo: quelli di Dodona in Epiro, di Zeus a Olimpia e il grande santuario di Apollo e della sua pitonessa a Delfi.
Poi i Greci si erano ripresi, i Galli ritirati verso nord con tutto il bottino, Brenno era morto in seguito a una ferita e il suo piano era fallito. In Macedonia, le sue tribù rimaste senza un capo decisero di attraversare l’Ellesponto e insediarsi in Asia Minore, dove fondarono l’avamposto gallico denominato Galazia. Ma una metà, forse, dei Volci Tettosagi preferì far ritorno a Tolosa anziché attraversare l’Ellesponto; durante un consiglio generale tutte le tribù convennero che a questi Volci Tettosagi con la nostalgia di casa si dovessero affidare i tesori di una cinquantina di templi saccheggiati, ivi compresi i tesori di Dodona, Olimpia e Delfi. Si trattava solo di questo: un affidamento. I Volci Tettosagi che tornavano in patria avrebbero conservato il bottino dell’intera migrazione a Tolosa, in attesa del giorno in cui tutte le tribù fossero rientrate in Gallia a reclamare la propria parte.
Per facilitare il viaggio di rientro, fusero tutto quanto: grandi statue d’oro massiccio, urne d’argento alte un metro e mezzo, coppe e vassoi e boccali, tripodi d’oro, corone d’oro o d’argento, tutto quanto finì nei crogioli, un po’ alla volta, e alla fine mille carri stracolmi procedettero verso occidente lungo le placide valli alpine del Danubio e dopo alcuni anni discesero la Garonna e giunsero a Tolosa.

Cosa facevano i Galli, prima che arrivasse Cesare a farli ballare?

Risposta esatta: scorrazzavano per l’Europa, in particolare per la Grecia, che invasero e da cui furono cacciati più e più volte dopo la morte di Alessandro Magno. Nell’occasione di cui sopra fecero più danni del solito.

La Grande Spedizione

Nel 280 a.C., l’anno in cui Pirro annienta i Romani a Eraclea, dalla Pannonia partono tre gruppi di Galli diretti rispettivamente in Tracia, in Macedonia e in Grecia.
I primi due quasi non incontrano resistenza, giustiziano il re di Macedonia in un baleno e, non trovandoci gusto, si ritirano a nord infischiandosi altamente delle conquiste.
Il terzo contingente, invece, dopo una pesante defezione arriva fino in Tessaglia, passa le Termopili con poco sforzo e assedia il tempio di Apollo a Delfi. Solo un’epidemia e i rigori dell’inverno determinano il successo dei difensori.

Con gravi perdite e il comandante della spedizione, Brenno, moribondo (e poi suicida), l’armata inizia il ripiego e si frammenta. Una parte si unisce agli Scordisci in Illiria, il resto si aggrega al gruppo che aveva fatto defezione.
Dopodiché questi ultimi, un misto di Trocmi, Tolistobrogi e Tettosagi, fanno da mercenari per la Bitinia, combattono in Asia Minore e pensano di restarci. Ovviamente finiscono per fare i predoni nelle ricche poleis costiere e continuano a fornire soldati al miglior offerente.
Questa sì che è vita! Senonché dopo un po’ l’esercito cui si sono uniti — per la cronaca, quello di un Mitridate del Ponto — viene sconfitto e loro finiscono in una zona abbastanza schifosa dell’Anatolia. Lì fondano il regno di Galazia, ché i Greci hanno preso a chiamarli Galati anziché Celti, e si danno una capitale: Ancyra, odierna capitale della Turchia.

Così si crea una sorta di exclave della Gallia, che non si lascerà ellenizzare fino al IV secolo (scomparsa del dialetto galato secondo san Girolamo).

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La leggenda

Avrete notato che la realtà storica è diversa da quel che dice la citazione in incipit di articolo. I Galli non saccheggiarono mai Delfi, anche se ci andarono molto vicino.
Ciò dipende dalla manipolazione che i Romani fecero dell’evento per giustificarne un altro: la disfatta di Arausio.

Fu una cosa grossa: diciannove legioni romane contro duecentomila tra Cimbri, Teutoni, Ambroni e Tigurini, gli stessi che poi sbatteranno il muso contro Mario. Eppure non ne abbiamo quasi notizia.
Sappiamo che nel 105 a.C. è successo qualcosa solo da citazioni di fonti indirette in opere frammentarie o, alla meno peggio, da riassunti per gli scolari di libri di storia scritti un secolo dopo l’accaduto.
È il caso delle Periochae della Storia di Roma dalla sua fondazione di Livio, che non dicono più di questo:

Perioca 67 (anni 105-103)

1 – Marco Aurelio Scauro, legato del console, fu catturato dai Cimbri dopo la disfatta dell’esercito e poiché, convocato nel loro consiglio, cercava di scoraggiarli dal valicare le Alpi per attaccare l’Italia, per il fatto che diceva che i Romani erano invincibili, fu assassinato da Boiorix, un giovane di indole fiera. 2 – Sconfitti in battaglia dai medesimi nemici, il console Gneo Manlio e il proconsole Quinto Servilio Cepione furono anche spogliati ognuno del suo accampamento; furono uccisi presso Arausio, secondo Anziate, ottantamila soldati e quarantamila attendenti e vivandieri. 3 – Cepione, alla cui temerità era dovuta la sconfitta subita, fu condannato, i suoi beni furono confiscati per la prima volta dopo il regno di Tarquinio e gli fu revocato il comando militare.

In cui figurano Boiorix, futuro capo dei Teutoni giusto in tempo per essere battuto da Mario, e Cepione, idiota del terzo tipo.
Così idiota da avere credibilità pari a zero nel momento in cui a Roma qualcuno iniziò a parlare dell’Oro di Tolosa, di come Cepione avesse approfittato del suo incarico sul posto per trovarlo, requisirlo, simularne il furto da parte dei briganti e tenerlo per sé senza passare uno spicciolo a Roma.

Finì che il nostro si beccò un’accusa di malversazione, la requisizione dei beni e la pena capitale, probabilmente revocata in favore di un più convenzionale esilio a Smirne.
Strabone aggiunge che le figlie dovettero darsi all’arte più antica del mondo (come mi hanno suggerito di dire a scuola in luogo di un termine più preciso) e morirono in disgrazia.
Mica tanto, visto che invece il figlio di Cepione passò al suo erede una fortuna che non poteva aver accumulato da solo…

Giusto per mettere al suo posto un tassello, tale erede, il figlio della figlia del Cepione di Tolosa è Bruto, cesaricida. Quindi probabilmente quell’immensa fortuna finì comunque nelle casse dell’erario. Happy ending.

Appendice I

Il 280 è un anno bellissimo, perché porta in rilievo quella sensazione di complessità che è raro trarre dalle poche fonti dell’Evo Antico. Sembra sempre che gli eventi accadano in posti diversi in momenti diversi, in una linea noiosissima in cui succede qualcosa d’importante una volta ogni cent’anni. Qui è diverso. Mentre in Italia le legioni si facevano battere vergognosamente da Pirro re d’Epiro, la Grecia e l’Epiro stesso facevano fronte a un’invasione di decine di migliaia di barbari, riuscendo in qualche modo a liberarsene.

La cosa è particolare anche in un’ottica di concetto.
I Greci erano il popolo disunito per antonomasia, a maggior ragione dopo il crollo dell’impero macedone, ma isolatamente, ognuno con piccole armate, riuscì a risputare indietro un’orda più o meno compatta, nonostante le varie etnie che comprendeva.
D’altro canto, una potenza nascente dai tratti già monolitici come Roma, tenuta insieme da organi politici ben radicati nella tradizione e un patriottismo senza precedenti, perse contro un re un po’ cialtrone per un misero litigio tra consoli.

Morale della favola: l’unione non fa la forza, perché l’unione non esiste. 😀

Appendice II

La Perioca che ho citato parla di un Aurelio Scauro catturato dopo la disfatta dell’esercito, ma prima della battaglia di Arausio. Non è un’incongruenza: in realtà quella fase della guerra fu persa perché, proprio come a Eraclea nel 280, il console patrizio — Cepione l’idiota — e il console plebeo — Manlio Massimo — non erano d’accordo sulla strategia da impiegare. Divisero l’esercito e furono sconfitti separatamente.
La vicenda del legato Scauro è avvolta nel mistero. Ecco come la McCullough ci ricama sopra:

[…] Marco Aurelio Scauro fu fatto prigioniero prima che potesse gettarsi sulla sua spada.
Tradotto al cospetto di Boiorix, di Teutobod e del resto dei cinquanta capi¹ che erano venuti a parlamentare, Aurelio si comportò in modo splendido. Il suo portamento era fiero, i suoi modi intollerabilmente altezzosi; non ci fu oltraggio o sofferenza che potessero infliggergli capace di fargli chinare il capo o strappargli un lamento. Lo rinchiusero in una gabbia di vimini appena grande abbastanza da contenerlo, e  lo costrinsero a guardare mentre erigevano una pira con legname stagionato, vi appiccavano il fuoco e la lascisvano ardere. Aurelio guardò, a gambe salde, neanche un tremito alle mani, nessuna traccia di paura sul viso, senza neppure aggrapparsi alle sbarre della sua angusta prigione. Poiché non rientrava nei loro piani che un romano morisse asfissiato dal fumo o di morte troppo rapida tra grandi lingue di fiamma, attesero che la pira si fosse ridotta a un cumulo di braci ardenti, poi issarono la gabbia di vimini proprio al centro del rogo e lo arrostirono vivo.
Ma vinse lui, anche se la sua fu una vittoria solitaria. Non permise a se stesso, infatti, di contorcersi in preda alle atroci sofferenze, né di urlare o lasciare che le sue gambe si piegassero. Morì da vero nobile romano, risoluto a dimostrar loro con la sua condotta il reale valore di Roma, a renderli edotti di un luogo che sapeva produrre uomini come lui, romano di Roma.

***

¹La traduzione italiana dice thane, ma è un anacronismo: nella definizione dell’Encyclopædia Britannica i thane erano dei feudatari dell’Alto Medioevo, e in ogni caso tale lemma è attestato in un solo scritto antecedente il decimo secolo d.C.

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Alesia, 52 a.C.

Generali: Cesare e Vercingetorige. Eh be’.

Forze schierate: dieci legioni contro 80.000 difensori intorno all’oppidum e, nella fase finale, 240.000 di rinforzo dall’esterno; una quantità imprecisata di cavalieri ausiliari romani, forse intorno ai 15.000, contro 8.000 cavalieri galli¹.

Esito: i Galli vengono sbaragliati, distrutti, annientati. Pare che ancora non l’abbiano superata, visto che per eroe nazionale hanno scelto il responsabile della sconfitta. 😀

Motivo del conflitto: perchessì difensivo! Vuoi che nel giro di qualche secolo ‘sti celti vagabondi non decidano di farsi un viaggio a sud?

Effetti: la Gallia diventerà il più docile cagnolino di Roma.

Prego, un'ultima occhiata ai Galli finché sono ancora interessanti.

Cavalieri d’Oltralpe. Oggi non solo saranno inutili, ma anche d’impiccio.

Cesare e Labieno di nuovo assieme, dicevamo. Chissà come ne è contento il giovane Marco Antonio, che le sue esperienze in Gallia le ha fatte sotto l’ala protettiva del generale! Adesso dovrà spartirsi le sue attenzioni con un gallo venuto dal nulla — o meglio, dallo stesso posto da cui viene Pompeo, il Piceno, che è anche peggio.

Illazioni a parte, Vercingetorige è costretto a ripiegare su Alesia, il che, per una volta, non è la scelta peggiore possibile — a sbagliare ci penserà tra poco.

Se Gergovia sorgeva su un colle circondato da colli, Alesia occupa un altopiano a forma di losanga in mezzo a una pianura circondata da colli. Su due lati scorrono altrettanti fiumi.
Come sempre finché non lo mettono in rotta, l’esercito gallo deve accontentarsi di un campo fuori dalle mura, per non gravare sulla popolazione.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Ora, la domanda è: Vercingetorige ha capito o no che, se perde qui, è finita?
Secondo me no. Altrimenti si proteggerebbe con qualcosa di più di una stupidissima muraglia alta due metri e un fossato che, per sopperire all’inutilità del vallo, dovrebbe essere profondo almeno fino al nucleo terrestre.

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Allora cos’è, scemo?
No, semplicemente conta sui rinforzi in arrivo da tutta la Gallia. Immagina una manovra a tenaglia (che sembra sempre intelligentissima e in realtà da sola non serve mai a niente).

I legionari, per parte loro, in questo assedio smuoveranno due milioni di metri cubi di terra, a partire da due fossati interni e un terrapieno alto quattro metri addossato alla collina.

Ora, ogni epoca ha avuto i suoi metodi per assediare una città in santa pace, ovvero senza che il nemico le ammazzasse gli sterratori e senza usare l’intero esercito come vedetta.
I Romani fanno sempre i furbi e tendono trappole via via più crudeli fantasiose. Cesare ne inventa tre:

  • i cippi, rami collegati alla base per non essere divelti;
  • i gigli, pali spessi quanto una gamba, ben appuntiti e nascosti da rami, per i dieci centimetri scarsi di cui fuoriescono dal terreno;
  • gli stimoli o triboli, pioli (in latino talĕae, curiosamente²) con uncini di ferro conficcati a terra.

Da sinistra: triboli, gigli e cippi.

Vedendo questo gran daffare, i Galli sferrano subito il loro solito attacco di cavalleria, e come al solito vengono ricacciati indietro dagli ausiliari germani. Iniziamo bene: già adesso le linee galliche si spaventano tanto che Vercingetorige deve far chiudere le porte del campo, o i suoi se la svignerebbero in città.

I lavori durano un mese.
In questo periodo Vercingetorige fa alcune ottime cose, come liberarsi della cavalleria, ormai inservibile con quei trabocchetti, e realizzare di avere viveri solo per un mese — lui non lo sa, ma i Romani sono nella stessa situazione.
I suoi alleati invece non hanno idee particolarmente felici: parlano di mangiare i vecchi. Segue frettolosa decisione di evacuare la cittadinanza tutta, che invano si raduna da Cesare offrendosi in schiavitù per un po’ di cibo.

Ma tutto è bene quel che finisce bene! I rinforzi arrivano sulle colline attorno alla pianura e non sono niente male: duecentoquarantamila fanti e ottomila cavalieri.
Sì, altri cavalieri. Sono come dio, direbbe un mio professore: li cacci dalla porta e rientrano dalla finestra.

Nel frattempo le opere d’assedio romane sono concluse.
Il primo vallo, quello intorno ad Alesia, è ora dotato di palizzate, torrette e spuntoni simili a corna di cervo.
A difendere le spalle dei legionari dai rinforzi di tale Vercassivellauno è comparso un secondo vallo, come il primo dotato di otto fortini principali e ventitrè secondari.
I tranelli di Cesare concludono entrambe le linee. Interessante notare come il generale abbia mentito sul numero di file in cui ha organizzato i cippi: quindici invece di cinque, come rivelano gli scavi archeologici.

 La battaglia inizia a mezzogiorno del giorno dopo l’avvistamento di Vercassivellauno.

Come ormai abbiamo imparato, i Galli sentono il bisogno di farsi sconfiggere dai cavalieri germani prima di attaccare in massa. Al tramonto, soddisfatti di aver perso tutti gli arcieri e i fanti leggeri che in teoria avrebbero dovuto coprire la cavalleria, si concedono il meritato riposo. Salvo tornare a mezzanotte con fionde, frecce e sassi.

Vercingetorige ne approfitta per uscire dalla città.

Col buio le cose sono più difficili per i Romani che per i Galli: se i secondi, mirando sugli spalti, hanno ottime probabilità di beccare qualcuno, i legionari vanno a tentoni. Lo stesso gli ufficiali che, per la difficoltà dei collegamenti tra gli otto castra, possono solo fare congetture su quale zona abbia bisogno di rinforzi e quale no.

All’alba si raggiunge lo stallo; le perdite sono ingenti da entrambe le parti. I Galli decidono di ritirarsi, lasciando i fossati mezzi pieni. E qui Cesare ci stupisce riferendo che Vercingetorige aveva sfoderato delle macchine da assedio. Non sappiamo nient’altro, in proposito.

Ah sì? E da dove spuntano fuori? Come sono fatte? Parla, Cesare!

Ah sì? Be’, potevi parlarne un po’ di più, Caio Giulio.

Incredibile a dirsi, si tratta di una ritirata strategica: a preoccupare i difensori è uno dei castra romani, appollaiato com’è su un’altura, e non in pianura come gli altri.
Per risolvere la questione, la notte parte dell’esercito di rinforzo si nasconde dietro una collina più alta. Vercingetorige, che non comunica affatto con l’esterno, intuisce la mossa e riesce ad attaccare in simultanea.

Il risultato è che Cesare, a sua volta appostato su un’altura, deve far correre i suoi di qua e di là per allentare la pressione. Alla fine anche Labieno viene scomodato per portare sei coorti in quel povero castraminacciato da tutte le falci murali, da tutti i graticci e dalla terra per colmarne i fossati e da tutte le scale disponibili.

Cesare dà il colpo di grazia, ripulendo il vallo in pianura e soccorrendo Labieno.
Il quale, udite udite, era così in difficoltà da dover tentare un’azione disperata — per non dire suicida, accidenti — come radunare trentanove coorti (cioè quasi quattro legioni) e buttarsi a capofitto nello scontro.

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Questo è il bello dello stile di Cesare: i movimenti di Labieno in realtà erano premeditati. Era il Piano B!
Infatti, nell’ultima manifestazione di sovrumana efficienza del Libro Settimo, il Divo è pronto a venirgli incontro con quattro coorti e qualche cavaliere, mentre altri cavalieri prendono i Galli alle spalle.

Il peggio è fatto. Anche in questo caso, il fatto che i Galli non siano morti tutti e trecentomila ad Alesia è dovuto solo alla stanchezza dei legionari.

Il giorno seguente, forse il 26 settembre, Vercingetorige si consegna a Cesare. Accetta le condizioni di resa, pur durissime, senza fiatare.
Leggenda vuole che sia uscito dal campo nella sua corazza migliore, sul miglior cavallo, e che abbia fatto un giro attorno alla sella curule del Divo per poi smontare, gettargli l’armatura e sederglisi ai piedi, tranquillo.

Lo attendono sei anni di carcere, una sfilata in un trionfo decisamente sottotono e una morte squallida.

Vercingetorige himself. Particolare della statua di sette metri voluta da Napoleone III nel 1865.

Appendice I

Come avevo anticipato, per Alesia Cesare ha in testa l’assedio di Numanzia di ottant’anni prima.

Anche lì c’erano state due linee di fortificazioni (in quel caso fossati, non valli) separate da duecento metri. Solo che i terrapieni costruiti a parità di tempo da Cesare sono lunghi due volte e mezzo quelli dell’Emiliano… Questo dà un’idea dell’aura di fretta che doveva portarsi appresso quell’uomo.

Appendice II

Un momento di apprezzamento per il Divo Giulio. Non è da tutti pensare a presidiare una zona non in difficoltà quando si hanno trecentomila galli concentrati su un unico bersaglio.
Il fatto è che, come nota lo stesso Cesare, era fondamentale scongiurare anche la minima possibilità di sfondamento del vallo in pianura, perché da lì i Galli avrebbero avuto accesso all’intera rete di trincee, ovvero a una vittoria schiacciante — questione di pressione, ancora una volta.
Ancora, è sempre commovente come gli basti un pugno di uomini — duemila o poco più, nel caso di Labieno — per rigirare la frittata.

***

¹Dati forniti dallo stesso Cesare, quindi verosimili, confermati dai ritrovamenti archeologici, ma prendeteli con le pinze eccetera eccetera.
Come al solito, dare una cifra è un azzardo e non mi allontano di molto dal vero se dico che anche gli storici si producono in voli pindarici, o meglio con un margine d’errore del 10-20%. Non ha senso.
Per darvi un’idea, la legione modello di Cesare conta 6.000 uomini divisi in dieci coorti. Cesare si serve più di queste ultime che della legione come unità tattica — abbiamo visto per esempio che lascia 22 coorti al cugino Lucio, cioè due legioni e un quinto — e per questo è difficile capire cosa intenda per “dieci legioni”: con tutti gli spostamenti che ha fatto, ci saranno legioni da venti coorti come da otto.
Uno dice: vabbè, il totale è lo stesso, l’intero esercito è radunato ad Alesia. E invece no, perché nemmeno le coorti hanno sempre 600 uomini l’una. Anzi, dopo quattro anni di guerra ininterrotta e due senza rinforzi, è probabile che siano quasi tutte a ranghi ridotti.

È un pasticcio, regà.

²Dico “curiosamente” perché le talee già per i latini indicavano le parti di pianta usate per farla riprodurre altrove.
Insomma, casomai voleste anche voi un certo fiore o albero da frutto che avete visto in giro, potreste provare a staccargli un rametto (meglio se ha una gemma). Poi mettetelo in acqua: se gli sbucano le radici, è fatta.
Comunque, l’attinenza tra talee e pioli rimane per me un mistero.

De Bello Gallico (VIII) – Libro Settimo, pt. 2

Dunque siamo arrivati sani e salvi sotto le mura di Gergovia.

La fortezza occupa un bel monticello circondato da colline scoscese. È ben protetta, tanto che Cesare preferisce fermarsi a distanza di sicurezza e studiare la situazione, anche a costo di perdere il vantaggio su Vercingetorige.
In effetti, espugnare Gergovia non è roba da un assalto e via. Bisognerà andarci cauti.

Il primo passo è occupare un colle dal quale badare che in città non arrivino né acqua né cibo. Il secondo collegare questo avamposto al castra di partenza con un doppio camminamento — o fossa, che alla fine è una trincea. Il terzo ricondurre gli Edui alla causa romana (per la vicenda del loro tradimento e relativo rant c’è l’Appendice). Il quarto, rimediare al terzo.

Infatti per punire gli Edui, ribellatisi sull’onda del Perchessìnianesimo, Cesare si allontana di quasi quaranta chilometri con quattro legioni e tutta la cavalleria; nel castra principale le due legioni rimanenti si trovano a dover difendere un’area pensata per contenerne sei.

Siore e siori, il 3D.

Siore e siori, il 3D. Vercingetorige è lungo le linee azzurre.

Il tribuno Fabio ha fatto tutto il possibile: ha ostruito tutte le porte inagibili, sfruttato al massimo le macchine da assedio e protetto per ore quell’impedimento di campo, per giunta continuando a fortificarlo.

Quando Cesare torna indietro capisce che non c’è verso e cerca un modo per trarsi d’impiccio prima di essere circondato dai nemici.

Il risultato delle sue elucubrazioni è un altro di quegli specchietti per le allodole in cui i Galli cascano sempre. Stavolta il diversivo è un gruppo di pastori travestiti da cavalieri, che viene mandato a farsi un giretto nel modo più chiassoso possibile.
I difensori, che da lontano vedono poco, vanno a curiosare. Uno dei loro accampamenti resta incustodito, i legionari sgusciano dal campo maggiore a quello minore e colgono di sorpresa il nemico.
Pare che la cosa sia riuscita tanto improvvisa che un capo gallo, colto nel sonno, perde il cavallo e fugge “superiore corporis parte nudata”.

Spettacoli disdicevoli a parte, è il momento di ordinare la ritirata. Cesare lo fa, ma nessuno lo sente né dà retta agli ufficiali.
Intanto i difensori più lontani dagli scontri pensano che i Romani siano arrivati in città e se la danno a gambe. Le loro donne, memori di Avarico, prendono a gettare vestiti e preziosi dalle mura, supplicando pietà.

Parecchie, aiutandosi a forza di braccia, si calavano dalle mura e si consegnavano ai soldati.

Vergogna! Sintonizzatevi su Radio Utica tra qualche anno e ve lo insegnerà Catone cosa si fa in questi casi!

Poi, a loro maggior gloria, vedono che gli uomini stanno risolvendo il problema e diventano più spavalde: si sciolgono i capelli (la dissolutezza ha radici millenarie!), mostrano i figli ai legionari.

È un disastro, per i Romani. In pochi, su terreno sfavorevole, sfiancati dalla corsa, non perdono la posizione sulle mura solo grazie alla copertura delle coorti lasciate in riserva al campo minore.
Cesare non può che aspettare un’occasione. Solo la Decima, la legione più vicina, gli è rimasta accanto secondo gli ordini.

E poi arrivano gli Edui.

In quanto cavalieri, erano stati mandati a fare un lungo giro insieme al diversivo, giusto per non avere degli alleati infidi nel mezzo dello scontro. Adesso accorrono al fianco dei Romani ma, per quanto le loro spalle destre nude simboleggino la loro sottomissione a Roma, i legionari pensano all’ennesimo tradimento e iniziano a cedere terreno. La follia generale raggiunge livelli tali che i soldati in posizione più avanzata si sacrificano per coprire la ritirata.

In tutto ciò muoiono quarantasei centurioni e settecento soldati semplici. Non di più solo perché le Decima e le coorti di prima intralciano l’inseguimento finale.

Il giorno dopo tocca a Cesare fare una lavata di capo ai suoi.

Egli ammirava il coraggio che avevano dimostrato nel non lasciarsi fermare né dalle fortificazioni, né dall’asprezza del monte, né dal muro della città, ma altrettanto biasimava il presuntuoso arbitrio per cui avevano creduto di poter giudicare meglio del loro comandante sulla vittoria e sull’esito delle operazioni; egli pretendeva dai suoi soldati obbedienza e disciplina non meno che coraggio e sprezzo del pericolo.

Poi, per risollevare il morale, si schiera a battaglia in un punto favorevole, consapevole del fatto che Vercingetorige non si lascerà provocare a uno scontro campale. Non gli conviene, adesso che ha scoperto quanto sia duro per il nemico questo assedio.
Infatti dopo qualche giorno i Romani levano le tende e si mettono in marcia verso Novioduno, nelle terre degli Edui. Lì abbiamo lasciato armi e bagagli, ostaggi, viveri, danaro, cavalli.

Uno dei capi della ribellione, Litavicco, è ancora a piede libero con un contingente di cavalleria. Due suoi complici, Eporedorige e Viridomaro, rubano le salmerie e lo raggiungono a Bibracte.

Di male in peggio, ora bisogna anche preoccuparsi di non restare a secco. Che si fa?
Di tornare in Provincia non se ne parla — sarebbe disonorevole e non si può lasciare Labieno da solo con quattro legioni. Quindi tanto vale andargli incontro.

Sono passati anni dall’ultima volta che abbiamo visto Cesare e Labieno insieme, con l’esercito al gran completo. Per me è il momento più epico dei Commentari.

Adesso tutto si può fare. Questione di un attimo è attirare in trappola Vercingetorige, molto preoccupato da questi movimenti, con uno scontro di cavalleria.
I Germani compiono la loro missione di vita e fanno una strage — tremila morti, a fine giornata. Vercingetorige capisce di doversi ritirare e, proprio come ad Avarico, sceglie male.

Alesia.

L’assedio merita un articolo a sé, perché è un piccolo capolavoro. Anche i Galli si riscattano un pochino, per dire.

Un lieto fine, narrato da un Cesare così orgoglioso che il suo stile è spoglio come mai prima d’ora: i Romani che vincono e potrebbero annientare del tutto il nemico, ma sono così stremati che nemmeno sette anni di marce forzate attraverso metri di neve, col rancio non sempre garantito e migliaia di compagni morti li spingono all’inseguimento; i prigionieri dati in schiavitù ai soldati stessi, uno ciascuno; l’organizzazione per passare un inverno confortevole a Bibracte.

Ah, e la restituzione di tutti gli ostaggi accumulati dal 58. Indovinate quanti sono? Ventimila! C’è da chiedersi come li abbiano sfamati.

Ad ogni modo, la guerra è finita così, con la cattura di Vercingetorige. Per il 51 resta solo da fare un po’ di pulizia etnica.
Il De Bello Gallico, dal canto suo, continuerà a comparire un po’ ovunque, su questi lidi. Quindi niente titoli di coda.

Appendice I – Deprecazione degli Edui

Perché gli Edui dovevano chiedere a Cesare di essere giudice della loro costituzione e delle loro leggi, e non i Romani agli Edui?

Perché la Terra gira attorno al Sole?

Teorie eretiche a parte, mentre Cesare fa la corte a Gergovia Convictolitave, re fresco di nomina, decide che il favore di Roma non gli serve più.
Ha una sola idea per portare il popolo dalla sua…

A cinquanta chilometri da Gergovia, Litavicco, capo dei rinforzi richiesti, inizia una scenata: piange, racconta ai suoi di come i Romani gli abbiano ammazzato fratelli e parenti e presenta dei falsi testimoni. Questi a loro volta annunciano che i Romani, per ritorsione contro il recente tradimento, hanno fatto strage di ogni eduo a tiro.

Panico. I soldati acconsentono a passare dalla parte dei difensori e passano a fil di spada i cittadini romani – perché ci sono sempre dei cittadini pronti da ammazzare per dichiarare guerra! – che confidavano nella loro protezione per arrivare non si sa dove e, soprattutto, a far che. C’è la guerra, ragazzi.

In realtà i fratelli di Litavicco stanno benissimo, sono a Gergovia e pregano Cesare di non lasciare che il loro popolo segua la via della perdizione.
Lieto fine anche qui: basta mostrare che non è morto nessuno per ottenere la resa dei rinforzi e la fuga di Litavicco.

Ora, gli Edui sono forse il peggior popolo che mi sia capitato d’incontrare. Tradiscono chiunque in qualunque momento, meglio se ciò comporta danni solo per loro. E sì che da quando Cesare è in Gallia si espandono a danno dei vinti, i fetenti.
Deboli, volubili e stupidi, non ne combinano una buona nemmeno per sbaglio.

Appendice II — Le prodezze di Labieno

Io finora l’ho del tutto ignorato, ma Tito Labieno è un fior di comandante. In tutti questi anni ha condotto una guerra a parte, gestendo mezzo esercito senza l’aiuto di Cesare. In effetti, è l’unico legato che non abbia mai mandato un SOS alla mamma e l’abbia spuntata.
Per esempio, quando il piccolo Cicerone era alle strette coi Germani e il Divo ha dovuto mobilitare altri tre legati per raggiungerlo in tempo, anche Labieno era assediato da forze preponderanti, ma ha stretto i denti.

Anche nel Libro Settimo dimostra il suo valore, sospetto con disappunto di Cesare — alla fine, non è curioso che un legato di tali qualità sia stato impiegato solo per tenere sotto controllo qualche popolo focoso, invece che per dare manforte al generale?

Prima del ricongiungimento col resto dell’esercito, il nostro si trovava ad Agedinco con quattro legioni.

Campagna del 52. Agedinco è a due passi da Alesia e Cenabo.

Campagna del 52. Agedinco è a due passi da Alesia e Cenabo.

Il suo stile, di base, è la ‘toccata e fuga’: azioni di piccola portata a breve raggio e ritorno al campo.
Nel momento in cui Cesare attraversa la Loira con l’acqua fino alle ascelle per trovare un po’ di grano e raggiungerlo, lui si concede un assedio a Lutetia, “città dei Parisii situata su un’isola della Senna”.

La futura capitale francese è protetta da un esercito raccogliticcio. Il vecchio capo, Camulogeno, lo dispone nella palude che blocca l’accesso all’intera regione.

In puro stile cesariano, il primo tentativo di Labieno implica le macchine da assedio e le opere del genio per rendere agibile la palude. Solo che queste cose vanno sempre per le lunghe, e non c’è tempo da perdere.

fhaaaaaaaaa

Labieno è vulnerabile: con sé ha solo reclute e sempre più popoli stanno prendendo le armi.
Senza contare che tutta la Gallia ha gli occhi su di lui, ora che Cesare gli sta venendo incontro: non sarebbe male addentarlo mentre è isolato.

La notte stessa il legato attraversa la Senna in corrispondenza di un’altra isola, disabitata perché gli uomini sono in guerra altrove, e arriva a Lutetia dalla sponda opposta.
I difensori le danno fuoco e vedono di mettere l’intero fiume tra sé e i Romani.

A questo punto giunge la notizia del tradimento dei Bellovaci, finora amici buoni quanto gli Edui.
Bisogna darci un taglio e tornare ad Agedinco prima possibile.

Divide l’esercito in tre: mezza legione resta all’accampamento, mezza avanza di qualche chilometro via nave, le restanti tre ammazzano gli esploratori nemici e attraversano il fiume.
All’alba, i Galli sentono chiasso in tre direzioni distinte, pensano che Labieno abbia dichiarato il si salvi chi può e si dividono a loro volta in tre parti.

E così Labieno riesce a ingurgitarle una alla volta: prima quella destinata specificamente a lui, poi quella rimasta a difendere il campo e accorsa in ritardo, infine quella che seguiva gli spostamenti della mezza legione nel fiume.
Non ne scappa uno, dalle vedette a Camulogeno.

E poi via ad Agedinco, come se non ne fosse mai uscito.

 

Appendice III – Angolo  “Chi l’ha visto?”

Vi ricordate Ambiorige, quello che mentre Cesare se la spassa in Britannia ammazza le legioni di Sabino e Cotta? Quello cui Cesare dà la caccia per tutta Gallia, invano?
Be’, resta non pervenuto. Eccone un altro che, come Annibale, dopo aver sparato le cartucce migliori precipita in un buco nero.

***

Fine seconda parte del Libro Settimo: assedio di Gergovia, premesse all’assedio di Alesia e fallimento di Vercingetorige.

De Bello Gallico (VII) – Libro Settimo, pt. 1

I libri Quinto e Sesto descrivono la seconda invasione della Britannia e della Germania (anni 54-53). Certamente per un letterato hanno un grande valore e consegnano il Divo alla Storia come un antropologo ante litteram, ricchi come sono di notizie sulle società barbare. D’altra parte sanciscono una Grande Verità: Cesare se ne infischia della rischiosità delle sue imprese. Non ragiona mai in termini di quanti vantaggi gli porterà la tale spedizione — voleva vedere cosa c’è oltre il Reno, si è progettato il ponte da solo e c’è andato; voleva farsi un’idea della Britannia, s’è disegnato le navi adatte ed è partito; una volta arrivato gli rompeva di aspettare le navi con le macchine da guerra ed è sbarcato sotto i proiettili nemici (ricordate i legionari che saltano nella melma con l’acqua alla cintola, giavellotto e gladio in pugno, bagaglio in spalla); un’altra volta ancora aveva fretta di attaccar battaglia, non ha tirato in secco le navi e se l’è fatte distruggere da una tempesta. Perché lui vale.

E troppe volte ha consapevolmente sfiorato il disastro. Ironia della sorte, lo ricordiamo come un tipo prudente. Bella pensata, Giulio.

Dov’eravamo rimasti

Essenzialmente a quando lui ha allegramente abbandonato i suoi ufficiali, perso una legione e mezza, rischiato le tre di Labieno e dovuto personalmente salvare il piccolo Cicerone, assediato da sessantamila germani. Quanto a questi ultimi, li ha invasi solo per constatare che in confronto a loro i Romani sono anemici e se n’è tornato da questa parte del Reno dopo pochi giorni. Figuraccia.

Normalmente, Roma avrebbe riso di queste “imprese”, volte a riacquistare la dignitas del generale e portate a termine per miracolo. Invece la stella di Cesare è in continua ascesa e il Senato è costretto a dedicargli decine di giornate festive, nonostante la strenua opposizione di Marco Porzio Catone e compari.

!

Sempre fra i piedi, ‘sti conservatori tutti fichi¹ e mos!
Catone combatte sempre contro i mulini a vento, ma ha ragione. È assurdo che un generale se ne vada a zonzo per l’Europa con un esercito enorme quando Roma è in piena crisi politica e finanziaria!

In città però si parla di tutt’altro. Il tribuno Clodio, idolo delle masse, è appena stato massacrato dal rivale Milone e lasciato letteralmente a morire per strada. Il popolo lo cremerà mandando in cenere la Curia Hostilia, sede delle riunioni del Senato per seicento anni. Ovviamente Cicerone difenderà l’assassino con un’orazione vergognosa.

***

La Gallia è una polveriera. Gli indigeni sono pronti a ribellarsi al primo passo falso di Cesare. I Romani hanno perso la loro aura d’invincibilità e sanno che non riceveranno aiuti dalla penisola né possono permettersi di farsi rubare le salmerie, perché il cibo scarseggia.

Copy of !!!

Momento: perché non dovrebbero arrivare rinforzi dall’Italia?
E su proposta di chi? Pompeo l’ha già rifornito di soldi e soldati, e in più il decreto originario del Senato prevedeva che Cesare si facesse bastare due legioni. Se la dovrà cavare da solo.

Tale situazione ha qualcosa in comune con quella greca alla vigilia delle Guerre Persiane: la potenza livellatrice che invade tutto quel che vede, l’estrema divisione politica che convive con uno spiccato senso di appartenenza, la volontà comune di sacrificare tutto per resistere, le scarsissime possibilità di successo. Inoltre, sia Greci che Galli le tentano un po’ tutte per vincere: i primi combinando battaglie terrestri e navali, gli ultimi azzardando assalti diretti, guerriglia, assedi. Ed è proprio con questi ultimi che i Galli si condanneranno, fra poco.

Start!

Il Settimo Libro inizia con Cesare che, tornato in Italia, si mette a reclutare come non ci fosse un domani. Per la trentordicesima volta, i Galli tentano di separarlo definitivamente dall’esercito, che come al solito è rintanato un po’ qui e un po’ là oltre le Alpi. Il popolo più motivato sono i Carnuti, gente mai sentita prima, che pensa bene di ammazzare tutti i cittadini romani di Cenabo. Tra cui, per la cronaca, anche un fornitore di grano di Cesare.

Solita cartina OGM. In rosso l'ubicazione dei Carnuti e della loro capitale, Carnuto.

Solita cartina OGM. In rosso l’ubicazione dei Carnuti e di Cenabo, la loro città principale.

In quindici ore la notizia si diffonde fino alla nazione arverna. E fra gli Arverni c’è un certo Vercingetorige.

fhaaaaaaaaaLa distanza percorsa è pari a quasi 260 km, la stessa che separa in linea d’aria Firenze e Roma. Sapendo anche il tempo impiegato, possiamo ricavare la velocità media: fra i 15 e i 20 chilometri orari. Credibilissimo, eh? 😀

Il giovane principe incita immediatamente i propri clienti alla sommossa, prima dalla capitale e poi, quando ne viene cacciato, dalle campagne. In questo modo forma un esercito di sbandati, con cui accelera i tempi: in men che non si dica prende possesso di Gergovia, si fa re degli Arverni, riunisce tutti i popoli dall’oceano all’odierna Parigi e si pone al comando della fazione gallica.

L’idea è quella di reclutare a forza anche i Galli fedeli a Roma. Per questo divide l’esercito in due: la parte scelta da Vercingetorige si dirige a nord, l’altra a sud, invadendo la Gallia Transalpina², Provincia romana, e minacciando Narbona.

Altra cartina OGM. In realtà Cesare non dice se Lucterio, capo della spedizione a sud, abbia fatto quel viaggio tutto curve. Certo è che sia stato presso tutti quei popoli.

Altra cartina OGM. In realtà Cesare non dice se Lucterio, capo della spedizione a sud, abbia fatto quel viaggio tutto curve. Certo è che sia stato presso tutti quei popoli.

L’obiettivo del re sono i Biturigi. Essi vanno a lamentarsi dai padroni edui i quali, dietro consiglio dei legati di Cesare, inviano i rinforzi. E che gran bei rinforzi! Arrivati sulla Loira, confine coi Biturigi, si siedono lì per qualche giorno e poi se ne tornano a casa senza aver fatto niente. A detta loro, se avessero passato il fiume sarebbero stati accerchiati da un enorme esercito nemico. Come Cesare si premura di specificare, non c’è da credere a queste pappemolli. L’unica cosa è sospirare e lasciar correre.

A proposito del Divo. Quando viene a sapere delle prime manovre di Vercingetorige è ancora in Italia, ma si muove così in fretta che, all’arrivo di Lucterio, la Narbonense e le nazioni che si frappongono tra essa e i nemici pullulano di legionari.

Respinto Lucterio, siamo nelle condizioni di infierire sugli Arverni in tutta calma. Certo, sono un tantino fuori mano — attraversare le Cevenne con due metri di neve non dev’essere stato il massimo — ma il vantaggio è grande: Vercingetorige, che abbiamo lasciato in un punto imprecisato “a nord”, è ora privo di alleati e con un popolo sofferente. È dunque costretto a tornare in picchiata verso la patria. Cesare gli taglia la strada presso i Lingoni (intorno all’attuale Champagne) con tutte le legioni a portata di mano, costringendolo a deviare attraverso i Biturigi e ad assediare Gorgobina, unico oppidum dei Boi.

fhaaaaaaaaa

I Boi sono gli ebrei della situazione, ogni tanto vengono cacciati in un angolo dimenticato dagli dèi e resi vassalli di qualche popolo più utile. Cesare per esempio li ha recentemente deportati fra gli Edui, dove si trovano tuttora.

A questo punto il valoroso Cesare condivide con noi i suoi dubbi amletici: attaccare o non attaccare? Naturalmente, spostarsi è una seccatura: è inverno, c’è la neve e c’è il solito problema degli approvvigionamenti.
Però…
Però…
Okay, si parte. Destinazione: i Biturigi.

Copy of !!!Perché non azzannare direttamente Vercingetorige?
Perché qui conviene davvero essere prudenti e staccare una a una le membra del corpo gallico: lo scopo è pacificare una futura Provincia, prima ancora che sconfiggere il capo di turno. Infatti il Settimo è il libro degli assedi.

Nella marcia, già che c’è, il nostro assedia tutte le città a tiro. Vallaunoduno, oppidum senone, si arrende in due giorni. Cenabo, dei Carnuti, viene saccheggiata e distrutta.

A questo punto Vercingetorige inizia a mostrare di che pasta è fatto. Lascia perdere l’assedio a Gorgobina, tanto ormai si è capito che a Cesare non importa niente di soccorrere i propri alleati, e gli corre dietro. Con un tempismo tale da far sanguinare il naso a un otaku della storia, lo raggiunge proprio mentre Novioduno gli sta consegnando ostaggi.

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I cittadini, Biturigi, si fanno forza e chiudono le porte della città, non intrappolando per un soffio i centurioni già entrati. Nonostante uno scontro di cavalleria abbastanza preoccupante da richiedere l’impiego di quattrocento Germani, i Romani se la cavano con poco (e alla fine Novioduno si arrende davvero).

Basta schiacciare un ultimo oppidum affinché i Biturigi cadano in ginocchio: Avarico.

Per Vercingetorige è il momento di cambiare tattica. Ha visto che è stato facile spaventare i nemici con la cavalleria che si ritrova, quindi avrebbe senso usarla per farli morire di fame: incendiare campi, sgraffignare bagagli alle colonne in marcia e altre cose da teppisti. Uhm, dov’è che ho già sentito questa storia? Ah, forse in praticamente tutti gli altri Libri del De Bello Gallico. Be’, tu impegnati, Cingy caro.

E se il giovane gallo ha dimostrato di non essere un idiota, adesso vedremo quanto grezzo sia il suo genio.

Supponendo che Cesare sia attratto dai grandi centri abitati — che di solito sono i meno fortificati — convince il consiglio di guerra a radere al suolo le città diventate rifugio di chi non può o non vuole combattere. Giustissimo! Se l’avesse fatto prima i Romani avrebbero avuto vita dura. E così in un solo giorno vanno a fuoco venti villaggi biturigi e molti altri in tutta la Gallia. Tranne uno…

Già, proprio Avarico. Dopo molto tentennare, Vercingetorige la risparmia in quanto “città più bella di Gallia”.

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O almeno Cesare la racconta così. In realtà la prossima mossa del condottiero gallo fa pensare che avesse previsto il comportamento del Divo. Infatti le legioni puntano proprio su Avarico, e Vercingetorige le segue con calma. Sotto le mura della città le due armate si accampano l’una a ventiquattro chilometri dall’altra.

Il terreno è inadatto a un vallo, così il castra romano viene protetto solo con un terrapieno, delle tettoie e un paio di torri. Inoltre gli Edui e i Boi, vuoi per la generale povertà al settimo anno di guerra, vuoi per la scarsa lealtà alla causa, portano ben poco cibo in dono.

In queste condizioni, come sempre nella carriera di Cesare, l’esercito è di ottimo umore. Il generale può anche permettersi di assicurare la ritirata, se i soldati lo vogliono: tanto quelli gli rispondono che non hanno mai lasciato un’impresa a metà né vogliono iniziare ora. Anzi, fosse per loro si scaglierebbero a corpo morto contro Vercingetorige, or ora piazzatosi in un’ottima posizione, e Cesare deve calmarli: Avarico verrà presa solo e soltanto per assedio.

Nel frattempo Vercingetorige passa i suoi guai con gli alleati, costretto a difendersi dall’accusa di tradimento. Lo lasciano parlare un po’ e la conclusione è

Vercingetorige era il loro capo supremo, non si doveva dubitare della sua fedeltà, nessuno avrebbe potuto condurre la guerra con senno maggiore.

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Inizia ora una parte un po’ sconnessa, in cui Cesare si concede qualche intervento personale in più e che mi diverte immensamente. Quindi la spezzetterò in tre episodi, anche se potrei tranquillamente saltarla. ^_^

Prima digressione: i Galli imparano dagli avversari

È nell’interesse di Cesare esaltare l’ingegnosità del nemico sconfitto, ma d’altra parte è dovuto: finora i Galli ci sono sembrati dei bambini che giocano alla guerra. Certo, io stessa ho contribuito a rendere grottesche le loro azioni — ricordate i Germani che vanno col bob? O che pensano di bloccare la corrente di un fiume coi propri corpi?

Fatto sta che

i Galli, popolo di grande vivacità, capacissimo di imitare e rifare qualunque cosa da qualunque persona gli venga insegnata

stendono dei lacci perché le falci non trovino l’appiglio sulle mura, se ne impadroniscono, scavano sotto il vallo per farlo crollare, erigono torri tanto più alte quanto più il detto vallo cresce (proteggendole tra l’altro con delle pelli), fanno sortite notte e giorno, ostruiscono le gallerie scavate dai legionari con pali appuntiti, pece bollente e massi e in generale danno un gran fastidio. Si rendono così inattaccabili dal terreno.

Diorama di Avarico

La reazione romana, come sempre per niente esagerata.

Fa freddo e piove, si lamenta con noi Cesare. Nonostante ciò, in venticinque giorni appare dal nulla un terrapieno lungo cento metri e altro ventiquattro, che i difensori si affrettano a incendiare. Segue una massa di Galli che erutta dalle porte della città e lancia fiaccole dalle torri.

Era quindi difficile, in tale situazione, decidere dove accorrere e portare aiuto.

Così difficile che le due legioni lasciate appositamente a riposo con l’unico scopo di proteggere il castra riescono sia a respingere i difensori che a spegnere gli incendi. L’hanno proprio colto di sorpresa, povero Cesare!

Seconda digressione: Cesare intellettuale

Nel solito momento in stile “Tutto è perduto, non v’è speranza alcuna!” che precede la rimonta dei legionari,

accadde, davanti ai nostri occhi, un fatto che ci sembra veramente degno di ricordo e che perciò non tralasceremo di narrare.

Uno scorpio.

C’è infatti un punto, sulle mura di Avarico, che gli scorpiones raggiungono particolarmente bene. Nonostante il gallo che occupa quella posizione venga puntualmente abbattuto dai proiettili, c’è sempre qualcuno a prendere il suo posto, all’infinito. Non gli importa un fico secco di andare incontro a morte immediata (e inutile)! Bah.

Pillola di LOL: si salvi chi può!

I galli misero in opera ogni espediente, ma visto che non riuscivano a ottenere alcun vantaggio, il giorno dopo decisero di fuggire dalla città, per consiglio e ordine di Vercingetorige.

Ora, lasciatemelo dire: ma a che diavolo sta pensando Vercingetorige? Prima risparmia Avarico in quanto “bella”, poi si apposta a distanza di sicurezza sia dalla città che dai Romani, inviando rinforzi insufficienti (10.000 armati, e i legionari sono tre volte tanto). Adesso ordina di abbandonare il posto senza nemmeno tentare un attacco congiunto? Chiamasi spreco di risorse.

Ad ogni modo le donne non ci stanno. Che fanno i mariti, se la svignano lasciando indietro i bambini? Visto che le lacrime non li smuovono di un millimetro

— per lo più, infatti, al momento del supremo pericolo la paura non lascia posto alla pietà —

(Cesare, meno osservazioni geGnali, per favore) le mogli fanno la spia agli assedianti e il tentativo di fuga non parte nemmeno. Complimenti ai Biturigi. Se fossero sopravvissuti sarebbero certo stati il primo popolo barbarico ad approvare una legge sul divorzio.

L'agger romano e le file di vinea per proteggere i lavori in un'illustrazione di Adam Hook.

L’agger e le file di vineae, gallerie mobili di tettoie coperte di pelli, in un’illustrazione di Adam Hook.

I difensori, non sapendo come destreggiarsi tra madri/mogli/suocere e Cesare, hanno il morale a pezzi. È il momento di attaccarli!

Ventiquattr’ore dopo la tentata fuga questi Prodi Guerrieri hanno abbandonato il muro in favore di un più virile schieramento a cuneo negli spiazzi della città, decisi ad affrontare i Romani in regolare battaglia. Questi però salgono sulle mura e li accerchiano. Sono così incattiviti da anteporre l’inseguimento al saccheggio. Così, da 40.000 che erano, al campo di Vercingetorige arrivano in 800 – il 2%, “quelli che erano fuggiti alle prime grida”.

Al capo della coalizione gallica tocca accoglierli con parole d’incoraggiamento e smistarli nell’accampamento, ma di nascosto — la disciplina è tale che, se si venisse a sapere del loro arrivo, si solleverebbe un gran chiasso. E non c’è bisogno di chiamarsi addosso un’orda di legionari assetati di sangue!

Comunque, ben lungi dall’ammettere il suo errore, Vercingetorige rimprovera i rifugiati. Eh sì, lui gliel’aveva detto di abbandonare la nave, ma hanno voluto essere indulgenti e adesso guarda com’è finita. Ma fa niente, aggiunge, ci pensa lui a risolvere tutto!

Avrebbe stretto in un solo fascio tutta la Gallia e di fronte a questa unità neppure il mondo intero avrebbe potuto resistere.

*Inserire qui risata malvagia*

Per la prima volta, allora, i Galli cominciarono a fortificare il campo, ed erano così sconcertati che essi, uomini insofferenti a ogni fatica, erano decisi a ubbidire a ogni ordine.

Persino difendersi? Roba da matti.

Ma torniamo ad Avarico. Cesare la trova così piena di scorte che decide di fermarsi fino alla primavera. Nel frattempo fa anche visita agli Edui, che sinceramente in questo libro sono dei gran rompiscatole.

Testa e Collo di Cesare - Copia 2Cesare baby-sitter
Come tutte le mamme premurose, il Divo si fa in quattro per risolvere i problemi dei suoi bambini. Adesso il dramma è che devono cambiare re, ma hanno due candidati! Sono persino arrivati sull’orlo della guerra civile e c’è il rischio che uno dei contendenti si allei con Vercingetorige. In più i magistrati edui non possono viaggiare, quindi Cesare deve assentarsi nel bel mezzo della guerra.

A fine inverno l’esercito si divide. Labieno marcerà su Senoni e Parisii con quattro legioni (perciò lo perderemo di vista a lungo), Cesare sugli Arverni e Gergovia con sei. Vercingetorige, ovviamente, seguirà il secondo gruppo.

Dapprima i due eserciti viaggiano di pari passo, separati dal fiume Elaver (Allier) — Cesare sulla sponda sbagliata. Tocca attraversare, ma non ci sono ponti né si riesce a guadare. Il trucco che escogita fa molto Looney Tunes e consiste nel nascondersi in un bosco con due legioni, mandando avanti le altre. Vercingetorige l’Astuto passa oltre senza accorgersene, le due legioni ricostruiscono indisturbate un ponte distrutto, attraversano e proteggono il passaggio del grosso dell’armata, che nel frattempo è tornata indietro. Trollato, il nostro Vercingetorige se ne scappa più avanti “per non essere costretto a combattere contro la sua volontà”.

Così si giunge a Gergovia, un posto interessante di cui parleremo nella seconda parte.

Fine prima parte del Libro Settimo: guerra contro i Biturigi.

***

¹Ops, quello era un altro Catone

²Ci sono un sacco di sinonimi per distinguere la Gallia meridionale da quella italica, rispettivamente: comata/bracata e togata, ulteriore e citeriore, transalpina e cisalpina. Per semplicità d’ora in poi userò il termine Narbonense, visto che la città di Narbonne esiste tutt’oggi.

Antioco vs. Perseo

Non sono molto fiera di aver pensato questo post. Vista l’intelligenza dei contendenti, mi sa tanto di combattimento tra babbuini… Fa niente.

Antioco III di Siria vs. Perseo “il Senza Numero” di Macedonia: Chi il più imbecille valido?

Partiamo dalla fine.
La Siria con Magnesia ha perso un mucchio di territori — tutta la penisola anatolica e la Tracia, che le davano accesso all’Europa — e la libertà di dichiarare guerra senza il consenso di Roma.
La Macedonia con Pidna ha perso città e influenza in Grecia, la dinastia regnante, la casta aristocratica, l’unità e l’indipendenza.
Se la validità di un capo si misura dalla sua capacità di attutire il colpo dopo una caduta, vince Antioco.

Di contro, Perseo ha avuto molto meno tempo per preparare la sua guerra, mentre Antioco l’ha pianificata a tavolino con mesi o forse anni di anticipo, a giudicare dal numero di alleati cui è riuscito a spillare uomini. Vero è che con Antioco c’era Annibale e che le cose hanno cominciato ad andar male quando lo si è snobbato troppo…

C’è poi da dire che in entrambi gli eserciti figura ed è determinante la falange, in un caso (probabilmente) di tipo greco e nell’altro macedone.
Semplificando, si può dire che, man mano che essa si è evoluta, l’agilità è stata sacrificata in nome della maggior protezione possibile: in questo senso i falangiti macedoni precorrono i corazzatissimi romani, anche se l’idea di usare delle lance* lunghe tre volte il soldato non è un’idea buona come si dice. Basti pensare che uno scudo greco, legno rivestito da mezzo millimetro di bronzo, lascia passare anche le frecce — figurarsi un giavellotto.
Ne deriva che, quanto ad armamento, gli opliti siriani non hanno mai avuto speranze coi legionari, mentre i falangiti macedoni sì.

Dunque la Macedonia potrebbe fare molto meglio dell’Impero Seleucida, perché parte da basi migliori. Tuttavia la Siria fa quasi tutto quel che può per vincere, mentre i macedoni non si sprecano nemmeno sul piano diplomatico, facendosi portare via dozzine di potenziali alleati.

Non che Perseo non abbia tentato di farsi degli amici, in Grecia e magari proprio in Siria. Solo che ha fatto fallito tutte le trattative per spilorceria. Addirittura, riferisce Tito Livio, avrebbe potuto allearsi con tale Clodico, un gallo che gli avrebbe fornito diecimila cavalieri e altrettanti fanti. Lasciando stare i secondi, non è che una falange si possa permettere di rifiutare un tale aiuto, come mi facevano notare nei commenti a Pidna. La cavalleria gallica fa sempre un sacco di danni!

Bisogna anche considerare il poco tempismo dei due re.
Antioco se ne va in Grecia con una manciata di soldati e pochi viveri, solo per ritirarsene quando vede che i romani si sono alleati coi macedoni e hanno già un esercito completo. Senza contare che, se avesse coordinato meglio la flotta, avrebbe potuto attraversare l’Ellesponto senza perdite. E senza contare nemmeno gli arzigogoli che fa in Anatolia per trovare la posizione migliore per la falange, invece di attaccare subito, trascinare i romani in un posto desolato e iniziare la guerriglia o al peggio arroccarsi in una fortezza.
Perseo dal canto suo è ancora più insicuro. I suoi movimenti abbastanza randomici per la Macedonia permettono a eserciti affamati e praticamente già sconfitti di togliersi d’impaccio, per anni.

E qui è utile fare una distinzione. Antioco è perfettamente in grado di prevedere le mosse di Roma (anche se la immagina più lenta di quanto non sia); Perseo le cose non le deduce, se le sogna. Vede un esercito che dall’interno si è portato sulla costa e pensa che le sue stesse truppe, incaricate di correre dietro ai romani, non esistano più. Perché non le vede nei paraggi, mica per altro. Mah!

Antioco finisce linciato due anni dopo Magnesia mentre razzia un tempio dell’attuale Lorestan, provincia iraniana.
Su Perseo c’è meno da ridere. Sfila nel corteo trionfale di Emilio Paolo e viene condotto ad Alba Fucenzia. Per una settimana viene lasciato in un cunicolo con una spada e un tratto di corda, ma non ne vuole sapere né dimpiccarsi né di. Poi Paolo lo fa spostare in una prigione più dignitosa, martoriando una volta di più l’orgoglio del poveretto. I suoi nuovi guardiani lo tengono sveglio fino a ucciderlo.
I suoi due figli, Filippo e Alessandro (non ve lo aspettavate, eh?), finiscono uno morto a distanza di due anni e l’altro scrivano per un qualche magistrato romano.
Se un uomo si misura dalla grandiosità della sua fine, vince decisamente Perseo, che porta con sé nella tomba famigliari, corte tutta e nazione.

In conclusione, Antioco è un miglior comandante di Perseo — se non altro perché guida personalmente il proprio esercito! — ma fa molti più danni alla propria nazione, se buttiamo un occhio al futuro.
La Siria diventerà una delle Province romane più affidabili e partorirà imperatori e donne notevoli, come Zenobia di Palmira e le quattro Giulie di Emesa**.
La Macedonia avrà la forza di rialzare la testa già vent’anni dopo la Terza Guerra, ancora a Pidna. Per mezzo millennio richiederà almeno due legioni a pieno regime e possibilmente di veterani che ne sorveglino ogni angolo, e anche così resterà un covo di ribelli. Non si romanizzerà mai né darà significativi contributi all’Impero.
Lode ai macedoni e non al loro ultimo re, insomma.

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*Ah, l’annosa questione lancia-picca! Con l’imbarazzante confusione che vige fra gli storici di ogni età, e volendo specificare che in senso stretto la sarissa macedone le precorre entrambe, mi limito a farne una questione di periodi storici: la picca è tipica di Basso Medioevo e Rinascimento, quindi la sarissa non lo è.

**Cioè Giulia Domna, Giulia Mesa, Giulia Semiamira e Giulia Mamea. Ci ritorneremo quando il blog passerà a date “d.C.” e se si sentirà di parlare di donne.

Pidna, 168 a.C.

Generali: Lucio Emilio Paolo contro Perseo. Anche se definirlo generale è un’esagerazione bella grossa.

Forze schierate: 22.000 fra legionari e fanti dei confederati e 1.400 cavalieri contro 39.000 fanti, di cui 21.000 falangiti, e 4.000 cavalieri.

Esito: vittoria romana.

Motivo del conflitto: e che diamine, è mezzo secolo che i macedoni fanno i capricci, sarà pure ora di sculacciarli.

Effetti: la Macedonia scompare come stato indipendente per… be’, ventuno secoli.

Il Trionfo di Emilio Paolo, di Carle Vernet, ultimato durante la Rivoluzione Francese.

Prima di Emilio Paolo

Filippo V di Macedonia ha due figli. Il maggiore, erede favorito, si chiama Perseo e ha la sua stessa vena combattiva. Il minore, Demetrio, è un tipo tranquillo che ha passato anni a Roma come ostaggio, dando un’ottima impressione di sé.
Succede che quei burloni dei senatori mostrano di vedere meglio il minore sul trono macedone, causandone l’accusa di tradimento (con tanto di finte prove) e l’avvelenamento per ordine dello stesso padre. Si dice che Filippo sia morto di dolore due anni dopo aver scoperto che Perseo gliel’aveva fatta.

Roma si allarma, anche se conferma la pace con la Macedonia.
Poi iniziano a circolare le voci: pare che Perseo vada di città in città fomentando lo scontento dei greci, degli illiri (pacificati nel 219 da un Emilio Paolo), dei traci, persino dei cartaginesi, e pure il re Eumene di Pergamo si spinge al punto di dichiarare i suoi sospetti nella Curia Hostilia.

Una delle accuse contro il nuovo re è di aver attentato alla vita dello stesso Eumene facendo rotolare un masso da una collina mentre era in viaggio.
Oddio, fra un po’ capiremo che Perseo non era esattamente un genio, quindi non si può mai dire!

Ma la prudenza non è mai troppa, per i senatori. Meglio fargli guerra.
In Oriente i Macedoni stanno antipatici a tutti, non è difficile trovare appoggio o almeno assicurarsi che Perseo non riceva aiuti. Persino gran parte dei Greci fa fronte comune.

L'odio unisce i popoli.

L’odio unisce i popoli.

I preparativi richiedono tempo, l’occasione è arrivata all’improvviso, così si proroga il trattato di pace per altri sei mesi.
Pare che i senatori, per una volta, non la stiano prendendo sottogamba. In effetti non sarebbe il caso, per molti motivi:

  • I popoli poco raccomandabili che circondano la Macedonia. Ricordiamo gli Etoli!
  • La tradizione militare macedone. Ci hanno le sarisse e talvolta combattono in quadrato (sintagma) come i Romani;
  • L’improbabile ricchezza di Perseo, che potrebbe mantenere fino a centotrentamila armati*, cioè tre volte quelli che ha.

I Romani rispondono estendendo il periodo di leva fino ai cinquant’anni d’età ed eliminando il sorteggio nell’attribuzione delle cariche militari.
Tranquilli, è stato accertato che la notizia non accorcerà minimamente la vita del povero Catone, dato che camperà per i prossimi vent’anni.

A inizio estate del 171 il console Crasso è in Illiria con l’esercito. Parte minaccia la Macedonia da occidente, parte attraversa i monti della Tessaglia. A cinque chilometri da Larissa Crasso si ritrova davanti Perseo, arroccato sul passo di Tempe.
Crasso perde lo scontro che segue. Le perdite ammontano a duemila fanti e duecento cavalieri — un sesto delle forze iniziali — contro quaranta falangiti e venti cavalieri.

È a questo punto che Perseo dà i primi segni d’incapacità, permettendo che i sopravvissuti si ritirino.
Spera che così i Romani lo lasceranno in pace. E io mi chiedo come faccia, visto che è loro tradizione vendicarsi di ogni minima sconfitta.

Bastava farsi un giro su Wikipedia, eh.

Bastava farsi un giro su Wikipedia per scoprirlo, eh.

Lo storico Frediani individua un’altra ragione per l’errore di Perseo:

Inoltre, l’etichetta di referente principale della fazione antiromana, che gli era stata appiccicata fin dalla sua ascesa al trono, non gliel’avrebbe tolta più nessuno, e questo segnava la sua strada senza possibilità di alternative. Così, quando inviò legati per proporre condizioni di pace tali da farlo sembrare un vinto, ovvero l’abbandono dei territori di cui era entrato in possesso il padre e il pagamento di un’indennità, non fu neanche preso sul serio.

Pure la sindrome del genio incompreso, poveraccio.

D’ora in poi Perseo non attaccherà più.
Deciso a perdere tutte le occasioni che gli si prestano, non tenta nemmeno la guerriglia, l’azione più sensata fra i monti della Tessaglia.

Il punto arancione è Larissa, dove Crasso voleva arrivare. In azzurro Farsalo. Diavolo se è lontana, la Macedonia!

Il punto arancione è Larissa, dove Crasso voleva arrivare. In azzurro Farsalo. Diavolo se è lontana, la Macedonia!

Ciò determina lo stallo del conflitto. Crasso se ne va in giro, occupa città di serie Z e non riesce più ad attaccare battaglia.
Il console  successivo perde addirittura la posizione, per scivolare a Farsalo, sul confine con la Ftiotide.
Quello dopo ancora guadagna le coste macedoni per avere uno scontro campale, ma si ritrova senza rifornimenti dal mare. Ah, l’efficienza logistica romana!

Qui, se Perseo avesse un po’ di presenza di spirito, sarebbe facile mettere il nemico con le spalle al muro. Invece perde la testa, si convince che, se i romani sono arrivati alla costa, significa che il suo esercito è stato sconfitto fra i monti (vedi che succede a non accompagnare personalmente le tue truppe? Ben gli sta!), si ritira dalla Tessaglia, brucia la flotta, butta in mare parte del tesoro reale — quello che avrebbe finanziato altri due eserciti! — e corre verso nord, proprio a Pidna.

Falso allarme, vi ho trollati.
Perseo si accorge dell’errore e torna a sud. È la fine del 169 a.C.

Questo episodio, come al solito, dà una svegliata ai senatori, che per il 168 si producono in quel grand’uomo di Lucio Emilio Paolo, classe 229. Un ragazzino! Ha persino partecipato ad Apamea.

La battaglia

Costui, a differenza del caro Perseo, ama informarsi. Tant’è che si fa precedere da tre senatori affinché raccolgano notizie: fra loro, l’Enobarbo vincitore effettivo di Magnesia.

Il quadro che ne risulta è imbarazzante.
Perseo è in posizione forte e non attacca. Filippo, il console in carica, è in posizione sfavorevole e non attacca. In mezzo, un fiumiciattolo. Le truppe lasciate in Illiria all’inizio di questa follia sono troppo poche e lontane per coordinarsi col console. Niente viveri né paga, morale a terra, ozio, diserzioni, malattie. Alleati illiri che passano al nemico, rodii che, maltrattati come non mai, sono sempre propensi a farsi comprare, pergameni che fanno il doppio gioco.

Così i senatori sganciano l’oro e regalano a Paolo due nuove legioni più cinquemila uomini per rimpolpare quella povera flotta.
In primavera è a Delfi per sacrificare agli dèi e poi con le truppe.

Come per l’Emiliano a Numanzia e Mario ad Aquae Sextiae, c’è da rimettere in forma i soldati. Alla fine, scrive Livio, sono tutti pronti a una splendida vittoria o a una morte gloriosa.

Dopodiché il console richiama la flotta a Eraclea e vi manda 8.200 fanti e 200 cavalieri, così Perseo penserà che si stia imbarcando.

wut

Sarebbe un’ipotesi credibile?
No. Voglio dire, dove dovrebbe mai andare Paolo via nave con una flotta che non riesce a portare tutto l’esercito? Scappa? Cambia terreno di gioco? E quale altro sceglierebbe, una pianura (dove la falange è più forte)? E poi si sa che i romani preferiscono spostarsi su terra.
Ma tanto Perseo è un pesce lesso, ci cascherà di brutto.

In realtà quel contingente ha l’ordine di portarsi a Pizio, passando tutt’intorno al monte Olimpo, in tre giorni. Nel frattempo il resto dell’esercito tiene occupati i macedoni.
Poi un disertore cretese sbandiera la strategia romana ai quattro venti, ma il distaccamento mandato a bloccare l’aggiramento viene sconfitto. A Perseo non rimane che arretrare.
La situazione torna identica a prima, tranne che il fiume tra i due campi si chiama Leuco e non Elpeo.
Il fiume è quasi in secca, si potrebbe anche attaccare prima che i macedoni predispongano le loro difese.
Emilio Paolo si rifiuta, prudente. Oltre a temere le macchine da guerra del nemico, vuole a tutti i costi avere un accampamento in cui correre ai ripari. E poi i soldati sono stremati.

Qui c’è il bello del pre-battaglia.
La notte del 22 giugno 168 ci fu un’eclissi di luna. I macedoni la presero come un presagio di sconfitta, i romani se ne infischiarono: Paolo li aveva fatti avvisare tempo prima, tranquillizzandoli.

La mattina dopo nessuno ha voglia di combattere, però tocca prendere l’acqua al fiume.
I rifornimenti sono ben protetti da ambo le parti. A un certo punto, uno dei cavalli romani se ne scappa, scatenando una zuffa tra romani e macedoni che vogliono impossessarsene. Ci scappa il morto, un trace. I rissosi aumentano. Paolo valuta l’entità del chiasso e decide di attaccare battaglia. Perseo acconsente.

Fu così che la Terza Guerra Macedonica finì grazie a un dannatissimo cavallo.

Vedere la falange macedone schierata darà gli incubi a Emilio Paolo per un bel po’, stando alle fonti. I leucaspidi, scelti fra i giovani più valorosi di Macedonia, hanno scudi bianchi, armate dorate e tuniche scarlatte; i calcaspidi, dagli scudi di bronzo, coprono tutta la piana e le pendici delle colline circostanti.
Molto tradizionalmente, costituiscono il centro della formazione, scortati da traci e mercenari. Polibio non manca di sottolineare l’eccessiva altezza dei primi, per dindirindina.

La disposizione dei diversi corpi degli schieramenti è andata perduta. In Polibio manca la battaglia per intero, in Livio per la prima metà.
L’idea più accreditata è che Paolo abbia adottato una formazione classica: legioni al centro, alleati e cavalleria sui fianchi. Se così fosse, Perseo deve per forza aver opposto alle legioni la falange, proteggendola ai lati con traci e mercenari più la cavalleria. In più, i romani hanno gli elefanti, che per forza di cose all’inizio si trovano nelle retrovie. Altrimenti si ripeterebbe Magnesia… dalla parte degli sconfitti, però.

La battaglia inizia con la fanteria leggera romana che stuzzica i traci e viene messa in fuga; a sorpresa, la falange prende a inseguirla, mettendosi su terreno sfavorevole, sempre più sconnesso.
I ranghi perdono compattezza, tanto che interi manipoli di una delle due legioni riescono a inserirsi nei varchi, attaccando di lato o anche alle spalle.

Perseo perde adesso.
La battaglia si spezzetta di nuovo in tanti piccoli scontri, che ognuno combatte per i fatti suoi. I macedoni senza le loro amate sarisse, troppo lunghe. Istrici senza aculei.

Riconosci il macedone perché è un nanetto con un bastone da passeggio lungo due volte e mezza lui.

La seconda a cadere è l’ala sinistra, incalzata da elefanti e cavalleria. Da lì il disordine passa ai leucaspidi, messi in fuga dall’altra legione.

Segue consueto massacro, che copre la ritirata di Perseo e cavalleria verso la capitale.
Questa è una scena che vorrei aver visto: i macedoni, abbandonati dall’erede di Alessandro, che si buttano in mare, vengono pescati dalla flotta romana e trucidati sulle scialuppe proprio quando sperano di scamparla; quelli che se ne accorgono e riescono a uscire dall’acqua, solo per essere spiaccicati sulla spiaggia da quegli stupidissimi elefanti.

Ventimila morti, undicimila prigionieri in un’ora o due. Se non fosse calato il buio, dell’esercito macedone non sarebbe rimasta un’unghia.

Come detto, il figlio del comandante, un certo Scipione Emiliano, si attarda negli inseguimenti per tutta la notte. Che amore di sedicenne!

Un po’ di amarezza

Emilio Paolo ottiene il trionfo e fa lo spilorcio coi suoi soldati, che gli porteranno rancore finché vivranno.
I malocchi che gli fecero ebbero un effetto sproporzionato: dei due figli naturali, il minore muore cinque giorni prima del trionfo, il maggiore tre giorni dopo. Avevano dodici e quattordici anni.
Lui li seguirà fra otto anni e i suoi beni, venduti all’asta, basteranno appena a pagargli il funerale: nemmeno lui si è arricchito col favoloso tesoro di Perseo. Tra i beni che si è riservato figura l’imponente libreria del re.

Intanto la Macedonia viene smembrata in quattro repubbliche e chiunque avesse avuto a che fare con Perseo, anche fra i Greci, viene deportato o ucciso. La Provincia di Macedonia nascerà fra vent’anni, dopo un’altra battaglia a Pidna.
Fra i mille nobili chiamati a sostenere la posizione greca in tribunale (in un processo mai celebrato) c’è lo storico Polibio, che se la caverà in quanto cocco di Paolo.
Ce n’è anche per quel doppiogiochista di Eumene, che vede rimpicciolito il suo già misero regno. Sarebbe dovuto morire sotto quel masso!

Ah, nel frattempo Antioco di Siria c’ha riprovato, ma gli va male: i senatori si girano a guardarlo nel bel mezzo dell’occupazione dell’Egitto.

Beccato!

Appendice: La genialità di Emilio Paolo

Quando diventa console, oltre a reclutare nuove leve — invece di smettere di congedare i cinquantenni — opera una riorganizzazione generale.

Stabilisce che le due legioni consolari debbano avere non più di seimila uomini l’una — altrimenti sono ingestibili — e porta a cinquemiladuecento gli effettivi delle nuove legioni: precisamente il numero ideale adottato da Cesare e Agrippa.

Poiché finora si è insistito a buttare tutti gli uomini disponibili nelle due legioni tradizionali, i soldati che sono diventati di troppo vanno a creare le guarnigioni che proteggono accampamenti e roccaforti conquistate.

Infine, Paolo lavora di testa. Priva le sentinelle delle armi per evitare che segnalino la loro posizione riflettendo la luce, accorcia i turni di guardia per mantenere alto il rendimento (ma allora era un marxista…), fa in modo che gli ordini arrivino chiari anche nelle ultime file dello schieramento, capisce che in montagna i ruscelli scorrono sotto terra e trova l’acqua scavando lungo la costa.

Per tutti questi motivi, a parer mio è decisamente il generale più raffinato prima di Cesare. Riorganizza da cima a fondo l’esercito, quando gli altri si sono limitati a metterlo in condizioni di porre fine alla guerra; riesce ad architettare una strategia che combini le truppe di terra e quelle di mare, cosa mai vista in un romano e che continuerà a vedersi raramente; resiste all’idea di un attacco frontale alla falange, probabilmente guadagnandosi la reputazione di pusillanime — è di famiglia, visto che suo padre prima di Canne è stato istruito da Fabio Massimo “il Temporeggiatore”; raccoglie informazioni sulla situazione greca prima di gettarsi allo sbaraglio.
Il metodo fatto persona, insomma.