«Toc toc»

Ehilà! Credo sia arrivato il momento di spiegare qualcosa, eh? Tipo dove sono sparita e cosa ne sarà di questo postaccio.
Direi che vi devo una storia completa; se non vi interessa, saltate pure all’ultimo paragrafo.

Bene, da dove comincio?
Tutto è iniziato quando sono diventata povera. Sempre stata, eh, ma a un certo punto non mi sono più potuta permettere una connessione internet, con conseguente isolamento forzato dal mondo. Poi è iniziata la lotta per la sopravvivenza – il cibo costa molto più dell’ADSL, e così le bollette e altre volgarità – e per il diritto allo studio, a pochi mesi dall’inizio di una carriera universitaria disastrosa.
Il resto è una conseguenza: non ti puoi permettere i libri su cui studiare, cosa che ti fa perdere la borsa di studio per mancanza di crediti; non ti puoi permettere di pagare le tasse universitarie, quindi continui a dare esami che poi non ti possono essere verbalizzati; senza esami non puoi chiedere altre borse di studio; ripeti. Condisci con disastri random in famiglia e tanta, tanta apatia e avrai il piatto di cenere desiderato.

In tutto questo non ti viene voglia da mandare avanti un blog che ti ricorda la tua vita mancata, quella in cui anzichè ingegneria studi storia romana e hai tempo di leggere anche libri veri e parlare con persone vere, non sagome di cartone che dormono col manuale di termofluidodinamica sotto il cuscino.
Ed ecco spiegato perché non ho più voluto vedere questo posto, nemmeno per revisionare e pubblicare le bozze di articoli già pronti. Ah, e poi c’è il fatto che sono passati anni dall’ultimo buon libro letto e non ti senti esattamente un letterato – dove con letterato intendo uno in grado di coniugare i verbi.

L’ultima secchiata di fatti miei riguarda il fatto che mi sono innamorata, e dunque sono feli-trist-feli-trist-ma sì, diciamo pure felice. Compatibilmente col mio ottimismo.
Per cui nel complesso va tutto bene e dovrei essere in grado di riprendere a scrivere. Solo che, ehm…

Il succo del discorso

L’ordine del giorno è che sì, riprenderò a scrivere, ma non qui. L’idea è: mi trasferisco nonsapretemaidove (spero) e riparto da zero. Questo blog smetterà ufficialmente di essere aggiornato; se vi eravate iscritti, annullate tutto senza tema. Anche la pagina di Facebook verrà chiusa.
Credetemi se dico che per me è una staffilata – in questo buco ci sono cresciuta – ma va fatto. Quindi arrivederci o addio a voi che avete letto fin qui e grazie del vostro tempo.

Sayōnara! ^_^

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Quei casinisti dei Greci

Qualche mese fa ho scoperto che i miei anni di elucubrazioni un tantino pesanti per la mia giuovane età sono andati sprecati, perché Nietzsche aveva già pensato a tutto. E quindi bravo Friedrich, mi hai mandato a monte la carriera di baby-filosofa. Mi dici cosa faccio adesso del mio pessimismo, se non posso nemmeno fondarci sopra un sistema metafisico? Eh? Eh?

Sogni di gloria sfumati a parte, quello che scrive Nietzsche (quando si capisce: no Fried, gli aforismi per favore lasciali a Moccia, okay?) della Storia è molto bello.

*** Nietzsche? Il gatto della Merkel? ***

Semplificherò molto, scusate. Nietzsche crede che ci siano due tendenze nel mondo: apollineo e dionisiaco, che grossomodo sono il logos, l’ordine, e il caos. C’era equilibrio finché quel pisquano di Socrate, con la sua mania di catalogare tutto sottoforma di concetti, non ha portato in vantaggio l’apollineo. Poi il suo degno compare, Platone, ha peggiorato la situazione mettendo le idee in un mondo (l’iperuranio) di cui il nostro è solo la bruttacopia. Da lì al dualismo Terra-Paradiso del cristianesimo e all’odio per questo mondo il passo è stato breve.

Questa cosa ha fatto abbastanza schifo, visto che il caos c’è e se lo ignori è peggio. Il dionisiaco in teoria serviva per accettare questo disordine e non vivere nell’ansia di razionalizzare ogni minima cosa. E invece le religioni ci dicono che c’è un motivo per tutto e che, se facciamo i bravi bambini, nell’aldilà ci aspettano settanta vergini.

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Poi Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!¹, e che si fa? Si fugge dalla realtà, si trova un surrogato di Dio, tipo la scienza o il marxismo. Oppure ci si rassegna a questo benedetto caos e s’impara a trovare da soli il senso della vita.

In ogni caso, prima o poi il dionisiaco riconquisterà lo spazio che il logos gli ha tolto.

*** Fine ***

C’è molto di e contro Nietzsche in Storia della filosofia occidentale e dei suoi rapporti con le vicende politiche e sociali dall’antichità a oggi di Betrand Russell, cui quest’estate dedicherò alcuni articoli (a cominciare dal prossimo). Costui dedica qualche centinaio di pagine al ritratto della cultura greca.

Per Russell i Greci avevano molto poco di razionale.

Il successo di Dioniso in Grecia non sorprende. Come tutte le comunità civilizzatesi rapidamente, i Greci, o almeno una certa parte di loro, conservavano l’amore per il primitivo e il desiderio per un genere di vita più istintivo e passionale di quello sanzionato dalla morale corrente. All’uomo o alla donna che, per costrizione, sono più civilizzati nel comportamento esteriore che nel sentimento, la razionalità è fastidiosa e la virtù è da loro sopportata come un peso e una schiavitù.
[…]
Nel campo del pensiero, la sobria civiltà è approssimativamente sinonimo di scienza.
Ma la scienza pura non ci soddisfa; gli uomini hanno anche bisogno della passione, dell’arte, della religione [parla per te, N. d. A.]. La scienza può porre limiti alla conoscenza, ma non dovrebbe porre limiti alla fantasia. Tra i filosofi greci, come anche tra quelli dei tempi posteriori, ce n’erano alcuni che erano in primo luogo degli scienziati e altri che erano in primo luogo dei religiosi; questi ultimi dovevano molto, direttamente o indirettamente, alla religione di Bacco. Ciò si applica particolarmente a Platone e, con lui, a quegli sviluppi ulteriori del pensiero che infine si sono fissati nella teologia cristiana. Il culto di Dioniso, nella sua forma originaria, era selvaggio e, sotto molti punti di vista, ributtante. Non è sotto questo aspetto che influenzò i filosofi, ma nella forma spirituale attribuita a Orfeo, forma ascetica che sostituiva l’ebbrezza mentale a quella fisica.

In pratica, Russell sta smontando le basi di Nietzsche.
Mettendo nero su bianco, Nietzsche: razionalità (apollineo) → Socrate → Platone → Cristianesimo. L’apollineo ha trionfato sul dionisiaco e la religione è nata per proteggerci dal caos imperante.
Russell, invece: Bacco (dionisiaco) → Orfeo → Pitagora → Platone. Il dionisiaco l’ha fatta da padrone finora e la religione è un suo sottoprodotto.

Ho tirato in mezzo Pitagora perché la sua filosofia ha molto della religione, o meglio del misticismo. Una delle prove più simpatiche che Russell propone è l’etimo della parola teoria: in origine indicava l’estasi provocata dalla contemplazione del divino, che poi i pitagorici hanno associato all’esperienza della matematica.
Russell dice: sai quando stai facendo un problema e ti viene l’illuminazione? Ecco, quella per Pitagora era identificazione con Dio.

Lì ho capito che i problemi che ho risolto io non erano abbastanza difficili.


Una cosa che Rinascimento e Romanticismo ci hanno fatto dimenticare è che anche i Greci erano superstiziosi. Alcuni dei precetti che i pitagorici dovevano rispettare, per esempio, erano ‘non spezzare il pane’, ‘non attraversare travi’, ‘non toccare galli bianchi’.² E il culmine dell’entusiasmo Empedocle lo raggiungeva nel blaterare

«Miserabili, abietti miserabili, tenetevi lontani dalle fave!»

anigif_enhanced-buzz-22246-1387223770-7Quel che ne penso io

Né Nietzsche né Russell guardavano alla Storia con obiettività. È dell’inglese per esempio questa dichiarazione:

Penso che un uomo privo di pregiudizi non possa scrivere di storia in modo interessante — ammesso che un uomo simile esista.

che approvo. E no, Alberto Angela NON scrive di storia!

Ciò detto, il mio tema della maturità non so perché è finito col sostenere la tesi che l’entropia, cioè il disordine, col tempo stia aumentando anche nella società. È il secondo principio della termodinamica, vale in fisica e, se si è abbastanza disone furb sofisti, si può banalizzare in questo modo: per i pagani la Storia si ripeteva sostanzialmente invariata in un ciclo simile a quello delle stagioni; per i monoteisti la Storia è una linea in cui nulla si ripete e gli uomini non hanno o hanno scarso controllo sul loro destino; per Nietzsche è una sfera. Cerchio, linea, sfera: il disordine è andato aumentando.

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Questo discorso è molto impreciso in molti modi diversi. Il principale è proprio che il mondo degli antichi era meno tranquillo di come lo pensiamo. C’erano Dioniso e Pan, il Fato, il Caso (Empedocle credeva in quello e nella Necessità) e più tardi la Sorte, la Fortuna e i culti misterici come quello della Bona Dea e di Angerona, dea del silenzio. Altroché in medio stat virtus.

Il fatto che gli dèi dell’Olimpo dettassero anche le leggi morali, cioè che “mettessero ordine”, ha un motivo antropologico: gli dèi che dovevano garantire un buon raccolto vennero associati al benessere dello Stato, e al benessere dello Stato venne associata la figura del re. La sua parola diventava così divina, ed ecco che infrangere la legge era un sacrilegio. Da qui il legame tra religione e moralità.

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Un’etica come tutte le altre.

Quello che chiamiamo ordine dunque c’entra poco nella battaglia tra apollineo e dionisiaco.
Inoltre anche il Cristianesimo non è che sia proprio il massimo della linearità. Ha la sua mitologia basata sui santi, le cui gesta fino a sessant’anni fa erano più popolari di quelle di Gesù Cristo; ha i suoi riti d’iniziazione e la sua intolleranza verso specifiche fette di popolazione, come qualunque setta.

Questo senza contare per niente l’influenza delle scienze sulla nostra percezione del tempo, della giustizia e della verità.

Insomma, il mondo è un disastro e non mi pare che sia mai stato più ordinato di così. Quindi tanto vale, come diciamo sempre io e il cugino Fried, accettare la Dura Verità e andare avanti.
Che poi è dura il giusto. A me non pare che non poterti appigliare a niente tranne che a te stesso sia poi così terribile. 😀


¹Dal famoso Frammento 125 della Gaia scienza.
²Un altro è non sedersi sui boccali. Be’, questo è buonsenso più che superstizione…

Un’ora d’amore

Oho, un titolo scandalistico quest’oggi!

In realtà no. Un’ora d’amore è il nome di un’iniziativa che circola da un po’ su Change.org.

Angolo “che?!”

Change.org è un sito su cui chiunque può proporre una petizione per cambiare qualcosa che non gli va e raccogliere firme digitali dagli interessati. Ogni tanto funziona, ma più che altro dà l’idea delle formiche che allineano pezzetti di foglie pensando di riprodurre la Transiberiana.

Le premesse

In attesa di trasformarmi in un’universitaria fricchettona che “lotta” per i diritti altrui nelle piazze, sono iscritta a questa piattaforma e ricevo periodicamente consigli su cosa firmare. La mail di oggi parte dalle seguenti Domande Fondamentali™:

Perché se una bambina picchia è un “maschiaccio”? E se un bambino piange è una “femminuccia”?
Perché le ragazze possono camminare mano nella mano e i ragazzi no?
Perché si studia Gabriele D’Annunzio e non Sibilla Aleramo?
Perché se mamma non lavora è normale ma se non lavora papà è una vergogna?

Queste parole mi ricordano Marx.

Marx credette (dai Manoscritti economico-filosofici, 1844, alla Critica del programma di Gotha, 1875) che il comunismo si sarebbe affermato in due fasi dopo la rivoluzione proletaria.
Dapprima la nuova società avrebbe voluto cancellare dalla faccia della Terra ogni eco del capitalismo. Da qui si sarebbero originati eccessi o ingenuità come la proprietà collettiva, i lavoratori trasformati in operai con pari stipendio, la donna «preda e serva del piacere della comunità» (chiamasi «prostituzione generale», in opposizione all’idea di possesso legata al matrimonio), eccetera.
In una fase più matura si sarebbe ottenuta quella che Marx riteneva la vera parità: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni. L’idea era quella di tenere in conto le differenze tra gli uomini, poiché anche per Marx era evidente che alcuni fossero migliori di altri, fisicamente e/o moralmente.

Qui è uguale. Si parla di giustizia e uguaglianza e si cerca di affermarle con la forza, o meglio imponendo regole cieche e superficiali del tipo “non associare il rosa alle bambine e l’azzurro ai bambini” o “fa’ studiare tante poetesse quanti poeti”.

Torniamo alla proposta in sé. Dalla mail leggo:

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Il concetto è un tantino fumoso, così decido di consultare il testo completo della petizione e da lì arrivo alla proposta di legge vera e propria. Eccone le parti salienti:

ART.2
1. A partire dall’anno scolastico 2014/2015, l’orario settimanale di insegnamenti e attività delle scuole del primo e del secondo ciclo, ad eccezione della scuola di primo grado, è aumentato di un’ora dedicata all’educazione sentimentale. L’orario annuale obbligatorio delle lezioni è conseguentemente modificato.
2. I piani di studio delle scuole e i programmi degli insegnamenti del primo e del secondo ciclo, in coerenza con gli obiettivi generali del processo formativo di ciascun ciclo e nel rispetto dell’autonomia scolastica, sono modificati e integrati al fine di garantire in ogni materia l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze relative all’educazione sentimentale.
3. Nel rispetto della legislazione vigente in materia, sono ridefiniti in aumento gli organici del personale docente delle scuole del primo e del secondo ciclo al fine di garantire l’insegnamento «educazione sentimentale».

ART.3
Le università provvedono ad inserire nella propria offerta formativa corsi di studi di genere o a potenziare i corsi di studi di genere già esistenti, anche al fine di formare le competenze per l’insegnamento di «educazione sentimentale».

Cosa ne penso

Per quanto riguarda l’articolo 3, non vedo l’ora di vedere questa targa affissa su un edificio

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e ne approfitto per condividere con voi un ricordo che tuttora mi ferisce: una sera ho visto una che all’università studia Storia della Minigonna.

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Per l’articolo 2, sulla modifica e integrazione dei programmi scolastici, la questione è più seria.

Avendo questi pochi dati, è difficile dedurre cosa si dovrebbe fare nella pratica. Tuttavia mi pare evidente una cosa: a scuola si riesce a malapena a dare un’infarinatura di cos’è stato il mondo, quindi tocca scegliere le nozioni con cura.
Esempio.
Non sforziamoci troppo e prendiamo la letteratura del Novecento prima del Ventennio fascista.

Chi c’era in quegli anni?

Due posti sono occupati da D’Annunzio e Marinetti, ché hanno un ruolo storico.
Poi c’è la letteratura dura e pura: La Coscienza di Zeno esce nel 1923 e Ossi di Seppia nel 1925, ma Grazia Deledda vince il Nobel nel 1926 e Sibilla Aleramo è tanta roba — parte attiva della lotta per il diritto di voto femminile, socialista, futurista, amica di Turati e della Kuliscioff, in rapporti col pittore Boccioni e Quasimodo.

In pratica dobbiamo scegliere tra l’etica dell’inettitudine, che influenza qualunque forma di letteratura anche oggi, Montale, che è importante quanto Foscolo e Leopardi, e… la descrizione della gente che la Deledda vedeva in Sardegna e un romanzo femminista perfettamente ignorato dalla storia successiva.
Chi di loro mettiamo in programma? Aspettate un attimo a ripondere.

Ora vorrei proporvi un breve elenco delle cose che già ora non si studiano alle superiori.

Alcuni istituti hanno bandito Carducci e Saba.
Ungaretti è sulla stessa strada.
Nella maggior parte dei licei, di D’Annunzio non si legge una riga.
Porta e Belli, poeti dialettali, non sono mai esistiti al di fuori della loro biografia.
Negli anni precedenti al quinto non si leggono Goldoni, Alfieri né Manzoni (di cui sopravvive misteriosamente la lettura dei Promessi Sposi).
Il Seicento è un buco nero, escluso Galileo.
Il Cinquecento ha solo Tasso, il Quattrocento solo Ariosto e Lorenzo de’ Medici, e via via a scalare.
Per il Medioevo può andare bene, forse, visto che solo Dante continua a essere il prezzemolo di ogni minestra, ma… ma… ma no, non va bene per niente.

Fare posto alle pecore sarde e alle suffragette significa eliminare due a scelta degli autori di cui sopra. FACCIAMOLO!

A questo punto mi pare che Marx, col suo pallino di unire teoria e prassi, avesse torto: quando si vuole applicare un sistema d’idee, sia esso il comunismo o la reazione al maschilismo, non si può essere approssimativi, nemmeno se si progetta una seconda fase più coerente. Leggere un brano della Aleramo a scuola e parlare un’ora a settimana di quanto sia ingiusto il mondo non eliminerà le disparità più di quanto la nazionalizzazione delle terre abbia fatto in Russia.


Bonus: la bacchettona che è in me

Qui l’articolo vero e proprio finisce e iniziano le chiacchiere da bar, quindi non prendetemi sul serio.

Citavo la premessa:

Perché se una bambina picchia è un “maschiaccio”? E se un bambino piange è una “femminuccia”?

Ormai anche i muri conoscono la mia tiritera preferita: le differenze tra uomo e donna sono puramente fisiche. Se pensassimo a noi stessi come a liberi individui prima che a maschi e femmine, abomini come maschilismo e femminismo non esisterebbero.

Allora forse ci si accorgerebbe che parole come maschiaccio e femminuccia sono nate per condannare comportamenti sbagliati, a prescindere da chi li assume.
Le basi della buona convivenza in una società, infatti, sono banalità come non alzare le mani sugli altri e non piangere in pubblico. Nulla che non si possa insegnare a qualunque bambino e bambina.

La bacchettona che è in me #2

In realtà in un mondo buono la Aleramo verrebbe studiata, perché ogni italiano conoscerebbe il XIX e il XX secolo come le sue tasche. Studierebbe la letteratura europea — perché come diavolo fai a non conoscere Tolstoj e Goethe e Dumas? Che accattoni che siamo… — e la storia delle idee, tra cui anche il femminismo.
Senza contare che, se Dante è importante più che altro per la lingua (la cui evoluzione non si studia prima dell’università), Petrarca e Boccaccio lo superano per modernità, e sarebbero quindi da preferire in un programma che mira alla cultura generale.

Come si trova il tempo per questa follia? Io terrei gli studenti un po’ più di tempo a scuola, invece di riempirli di liste della spesa da imparare a memoria a casa.
E poi, ma questo mi condannerà al rogo, eliminerei gli sprechi: tre anni per leggere un canto della Divina Commedia a settimana, due per i Promessi Sposi (che tra l’altro si fanno prima d’iniziare a studiare la letteratura!) sono il colmo.

Certo, questo presuppone che a scuola ci vada gente che vuole studiare. Altrimenti sorge il dubbio: la cultura è per tutti?

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Perché tutto questo chiasso per una stupida petizione?

Perché a pensarla non è stato il primo signor Nessuno proveniente dal raccordo anulare di Timbuctù, bensì un politico fatto e finito: Celeste Costantino, di Sinistra, Ecologia e Libertà.

Sfortunatamente, Timbuctù non dispone ancora di un raccordo anulare. Vi terremo informati.

Leggende di Roma: l’Oro di Tolosa

Centosettant’anni prima [della battaglia di Arausio, 105 a.C.], i Volci Tettosagi si erano uniti a una migrazione dei Galli capeggiati dal secondo dei due famosi re celtici a nome Brenno. Questo secondo Brenno aveva invaso la Macedonia, dilagando in Tessaglia, travolto i difensori greci al passo delle Termopili, ed era penetrato nella Grecia centrale e in Epiro. Aveva saccheggiato e razziato i tre più ricchi templi del mondo: quelli di Dodona in Epiro, di Zeus a Olimpia e il grande santuario di Apollo e della sua pitonessa a Delfi.
Poi i Greci si erano ripresi, i Galli ritirati verso nord con tutto il bottino, Brenno era morto in seguito a una ferita e il suo piano era fallito. In Macedonia, le sue tribù rimaste senza un capo decisero di attraversare l’Ellesponto e insediarsi in Asia Minore, dove fondarono l’avamposto gallico denominato Galazia. Ma una metà, forse, dei Volci Tettosagi preferì far ritorno a Tolosa anziché attraversare l’Ellesponto; durante un consiglio generale tutte le tribù convennero che a questi Volci Tettosagi con la nostalgia di casa si dovessero affidare i tesori di una cinquantina di templi saccheggiati, ivi compresi i tesori di Dodona, Olimpia e Delfi. Si trattava solo di questo: un affidamento. I Volci Tettosagi che tornavano in patria avrebbero conservato il bottino dell’intera migrazione a Tolosa, in attesa del giorno in cui tutte le tribù fossero rientrate in Gallia a reclamare la propria parte.
Per facilitare il viaggio di rientro, fusero tutto quanto: grandi statue d’oro massiccio, urne d’argento alte un metro e mezzo, coppe e vassoi e boccali, tripodi d’oro, corone d’oro o d’argento, tutto quanto finì nei crogioli, un po’ alla volta, e alla fine mille carri stracolmi procedettero verso occidente lungo le placide valli alpine del Danubio e dopo alcuni anni discesero la Garonna e giunsero a Tolosa.

Cosa facevano i Galli, prima che arrivasse Cesare a farli ballare?

Risposta esatta: scorrazzavano per l’Europa, in particolare per la Grecia, che invasero e da cui furono cacciati più e più volte dopo la morte di Alessandro Magno. Nell’occasione di cui sopra fecero più danni del solito.

La Grande Spedizione

Nel 280 a.C., l’anno in cui Pirro annienta i Romani a Eraclea, dalla Pannonia partono tre gruppi di Galli diretti rispettivamente in Tracia, in Macedonia e in Grecia.
I primi due quasi non incontrano resistenza, giustiziano il re di Macedonia in un baleno e, non trovandoci gusto, si ritirano a nord infischiandosi altamente delle conquiste.
Il terzo contingente, invece, dopo una pesante defezione arriva fino in Tessaglia, passa le Termopili con poco sforzo e assedia il tempio di Apollo a Delfi. Solo un’epidemia e i rigori dell’inverno determinano il successo dei difensori.

Con gravi perdite e il comandante della spedizione, Brenno, moribondo (e poi suicida), l’armata inizia il ripiego e si frammenta. Una parte si unisce agli Scordisci in Illiria, il resto si aggrega al gruppo che aveva fatto defezione.
Dopodiché questi ultimi, un misto di Trocmi, Tolistobrogi e Tettosagi, fanno da mercenari per la Bitinia, combattono in Asia Minore e pensano di restarci. Ovviamente finiscono per fare i predoni nelle ricche poleis costiere e continuano a fornire soldati al miglior offerente.
Questa sì che è vita! Senonché dopo un po’ l’esercito cui si sono uniti — per la cronaca, quello di un Mitridate del Ponto — viene sconfitto e loro finiscono in una zona abbastanza schifosa dell’Anatolia. Lì fondano il regno di Galazia, ché i Greci hanno preso a chiamarli Galati anziché Celti, e si danno una capitale: Ancyra, odierna capitale della Turchia.

Così si crea una sorta di exclave della Gallia, che non si lascerà ellenizzare fino al IV secolo (scomparsa del dialetto galato secondo san Girolamo).

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La leggenda

Avrete notato che la realtà storica è diversa da quel che dice la citazione in incipit di articolo. I Galli non saccheggiarono mai Delfi, anche se ci andarono molto vicino.
Ciò dipende dalla manipolazione che i Romani fecero dell’evento per giustificarne un altro: la disfatta di Arausio.

Fu una cosa grossa: diciannove legioni romane contro duecentomila tra Cimbri, Teutoni, Ambroni e Tigurini, gli stessi che poi sbatteranno il muso contro Mario. Eppure non ne abbiamo quasi notizia.
Sappiamo che nel 105 a.C. è successo qualcosa solo da citazioni di fonti indirette in opere frammentarie o, alla meno peggio, da riassunti per gli scolari di libri di storia scritti un secolo dopo l’accaduto.
È il caso delle Periochae della Storia di Roma dalla sua fondazione di Livio, che non dicono più di questo:

Perioca 67 (anni 105-103)

1 – Marco Aurelio Scauro, legato del console, fu catturato dai Cimbri dopo la disfatta dell’esercito e poiché, convocato nel loro consiglio, cercava di scoraggiarli dal valicare le Alpi per attaccare l’Italia, per il fatto che diceva che i Romani erano invincibili, fu assassinato da Boiorix, un giovane di indole fiera. 2 – Sconfitti in battaglia dai medesimi nemici, il console Gneo Manlio e il proconsole Quinto Servilio Cepione furono anche spogliati ognuno del suo accampamento; furono uccisi presso Arausio, secondo Anziate, ottantamila soldati e quarantamila attendenti e vivandieri. 3 – Cepione, alla cui temerità era dovuta la sconfitta subita, fu condannato, i suoi beni furono confiscati per la prima volta dopo il regno di Tarquinio e gli fu revocato il comando militare.

In cui figurano Boiorix, futuro capo dei Teutoni giusto in tempo per essere battuto da Mario, e Cepione, idiota del terzo tipo.
Così idiota da avere credibilità pari a zero nel momento in cui a Roma qualcuno iniziò a parlare dell’Oro di Tolosa, di come Cepione avesse approfittato del suo incarico sul posto per trovarlo, requisirlo, simularne il furto da parte dei briganti e tenerlo per sé senza passare uno spicciolo a Roma.

Finì che il nostro si beccò un’accusa di malversazione, la requisizione dei beni e la pena capitale, probabilmente revocata in favore di un più convenzionale esilio a Smirne.
Strabone aggiunge che le figlie dovettero darsi all’arte più antica del mondo (come mi hanno suggerito di dire a scuola in luogo di un termine più preciso) e morirono in disgrazia.
Mica tanto, visto che invece il figlio di Cepione passò al suo erede una fortuna che non poteva aver accumulato da solo…

Giusto per mettere al suo posto un tassello, tale erede, il figlio della figlia del Cepione di Tolosa è Bruto, cesaricida. Quindi probabilmente quell’immensa fortuna finì comunque nelle casse dell’erario. Happy ending.

Appendice I

Il 280 è un anno bellissimo, perché porta in rilievo quella sensazione di complessità che è raro trarre dalle poche fonti dell’Evo Antico. Sembra sempre che gli eventi accadano in posti diversi in momenti diversi, in una linea noiosissima in cui succede qualcosa d’importante una volta ogni cent’anni. Qui è diverso. Mentre in Italia le legioni si facevano battere vergognosamente da Pirro re d’Epiro, la Grecia e l’Epiro stesso facevano fronte a un’invasione di decine di migliaia di barbari, riuscendo in qualche modo a liberarsene.

La cosa è particolare anche in un’ottica di concetto.
I Greci erano il popolo disunito per antonomasia, a maggior ragione dopo il crollo dell’impero macedone, ma isolatamente, ognuno con piccole armate, riuscì a risputare indietro un’orda più o meno compatta, nonostante le varie etnie che comprendeva.
D’altro canto, una potenza nascente dai tratti già monolitici come Roma, tenuta insieme da organi politici ben radicati nella tradizione e un patriottismo senza precedenti, perse contro un re un po’ cialtrone per un misero litigio tra consoli.

Morale della favola: l’unione non fa la forza, perché l’unione non esiste. 😀

Appendice II

La Perioca che ho citato parla di un Aurelio Scauro catturato dopo la disfatta dell’esercito, ma prima della battaglia di Arausio. Non è un’incongruenza: in realtà quella fase della guerra fu persa perché, proprio come a Eraclea nel 280, il console patrizio — Cepione l’idiota — e il console plebeo — Manlio Massimo — non erano d’accordo sulla strategia da impiegare. Divisero l’esercito e furono sconfitti separatamente.
La vicenda del legato Scauro è avvolta nel mistero. Ecco come la McCullough ci ricama sopra:

[…] Marco Aurelio Scauro fu fatto prigioniero prima che potesse gettarsi sulla sua spada.
Tradotto al cospetto di Boiorix, di Teutobod e del resto dei cinquanta capi¹ che erano venuti a parlamentare, Aurelio si comportò in modo splendido. Il suo portamento era fiero, i suoi modi intollerabilmente altezzosi; non ci fu oltraggio o sofferenza che potessero infliggergli capace di fargli chinare il capo o strappargli un lamento. Lo rinchiusero in una gabbia di vimini appena grande abbastanza da contenerlo, e  lo costrinsero a guardare mentre erigevano una pira con legname stagionato, vi appiccavano il fuoco e la lascisvano ardere. Aurelio guardò, a gambe salde, neanche un tremito alle mani, nessuna traccia di paura sul viso, senza neppure aggrapparsi alle sbarre della sua angusta prigione. Poiché non rientrava nei loro piani che un romano morisse asfissiato dal fumo o di morte troppo rapida tra grandi lingue di fiamma, attesero che la pira si fosse ridotta a un cumulo di braci ardenti, poi issarono la gabbia di vimini proprio al centro del rogo e lo arrostirono vivo.
Ma vinse lui, anche se la sua fu una vittoria solitaria. Non permise a se stesso, infatti, di contorcersi in preda alle atroci sofferenze, né di urlare o lasciare che le sue gambe si piegassero. Morì da vero nobile romano, risoluto a dimostrar loro con la sua condotta il reale valore di Roma, a renderli edotti di un luogo che sapeva produrre uomini come lui, romano di Roma.

***

¹La traduzione italiana dice thane, ma è un anacronismo: nella definizione dell’Encyclopædia Britannica i thane erano dei feudatari dell’Alto Medioevo, e in ogni caso tale lemma è attestato in un solo scritto antecedente il decimo secolo d.C.

Alesia, 52 a.C.

Generali: Cesare e Vercingetorige. Eh be’.

Forze schierate: dieci legioni contro 80.000 difensori intorno all’oppidum e, nella fase finale, 240.000 di rinforzo dall’esterno; una quantità imprecisata di cavalieri ausiliari romani, forse intorno ai 15.000, contro 8.000 cavalieri galli¹.

Esito: i Galli vengono sbaragliati, distrutti, annientati. Pare che ancora non l’abbiano superata, visto che per eroe nazionale hanno scelto il responsabile della sconfitta. 😀

Motivo del conflitto: perchessì difensivo! Vuoi che nel giro di qualche secolo ‘sti celti vagabondi non decidano di farsi un viaggio a sud?

Effetti: la Gallia diventerà il più docile cagnolino di Roma.

Prego, un'ultima occhiata ai Galli finché sono ancora interessanti.

Cavalieri d’Oltralpe. Oggi non solo saranno inutili, ma anche d’impiccio.

Cesare e Labieno di nuovo assieme, dicevamo. Chissà come ne è contento il giovane Marco Antonio, che le sue esperienze in Gallia le ha fatte sotto l’ala protettiva del generale! Adesso dovrà spartirsi le sue attenzioni con un gallo venuto dal nulla — o meglio, dallo stesso posto da cui viene Pompeo, il Piceno, che è anche peggio.

Illazioni a parte, Vercingetorige è costretto a ripiegare su Alesia, il che, per una volta, non è la scelta peggiore possibile — a sbagliare ci penserà tra poco.

Se Gergovia sorgeva su un colle circondato da colli, Alesia occupa un altopiano a forma di losanga in mezzo a una pianura circondata da colli. Su due lati scorrono altrettanti fiumi.
Come sempre finché non lo mettono in rotta, l’esercito gallo deve accontentarsi di un campo fuori dalle mura, per non gravare sulla popolazione.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Ora, la domanda è: Vercingetorige ha capito o no che, se perde qui, è finita?
Secondo me no. Altrimenti si proteggerebbe con qualcosa di più di una stupidissima muraglia alta due metri e un fossato che, per sopperire all’inutilità del vallo, dovrebbe essere profondo almeno fino al nucleo terrestre.

Copy of !!!

Allora cos’è, scemo?
No, semplicemente conta sui rinforzi in arrivo da tutta la Gallia. Immagina una manovra a tenaglia (che sembra sempre intelligentissima e in realtà da sola non serve mai a niente).

I legionari, per parte loro, in questo assedio smuoveranno due milioni di metri cubi di terra, a partire da due fossati interni e un terrapieno alto quattro metri addossato alla collina.

Ora, ogni epoca ha avuto i suoi metodi per assediare una città in santa pace, ovvero senza che il nemico le ammazzasse gli sterratori e senza usare l’intero esercito come vedetta.
I Romani fanno sempre i furbi e tendono trappole via via più crudeli fantasiose. Cesare ne inventa tre:

  • i cippi, rami collegati alla base per non essere divelti;
  • i gigli, pali spessi quanto una gamba, ben appuntiti e nascosti da rami, per i dieci centimetri scarsi di cui fuoriescono dal terreno;
  • gli stimoli o triboli, pioli (in latino talĕae, curiosamente²) con uncini di ferro conficcati a terra.

Da sinistra: triboli, gigli e cippi.

Vedendo questo gran daffare, i Galli sferrano subito il loro solito attacco di cavalleria, e come al solito vengono ricacciati indietro dagli ausiliari germani. Iniziamo bene: già adesso le linee galliche si spaventano tanto che Vercingetorige deve far chiudere le porte del campo, o i suoi se la svignerebbero in città.

I lavori durano un mese.
In questo periodo Vercingetorige fa alcune ottime cose, come liberarsi della cavalleria, ormai inservibile con quei trabocchetti, e realizzare di avere viveri solo per un mese — lui non lo sa, ma i Romani sono nella stessa situazione.
I suoi alleati invece non hanno idee particolarmente felici: parlano di mangiare i vecchi. Segue frettolosa decisione di evacuare la cittadinanza tutta, che invano si raduna da Cesare offrendosi in schiavitù per un po’ di cibo.

Ma tutto è bene quel che finisce bene! I rinforzi arrivano sulle colline attorno alla pianura e non sono niente male: duecentoquarantamila fanti e ottomila cavalieri.
Sì, altri cavalieri. Sono come dio, direbbe un mio professore: li cacci dalla porta e rientrano dalla finestra.

Nel frattempo le opere d’assedio romane sono concluse.
Il primo vallo, quello intorno ad Alesia, è ora dotato di palizzate, torrette e spuntoni simili a corna di cervo.
A difendere le spalle dei legionari dai rinforzi di tale Vercassivellauno è comparso un secondo vallo, come il primo dotato di otto fortini principali e ventitrè secondari.
I tranelli di Cesare concludono entrambe le linee. Interessante notare come il generale abbia mentito sul numero di file in cui ha organizzato i cippi: quindici invece di cinque, come rivelano gli scavi archeologici.

 La battaglia inizia a mezzogiorno del giorno dopo l’avvistamento di Vercassivellauno.

Come ormai abbiamo imparato, i Galli sentono il bisogno di farsi sconfiggere dai cavalieri germani prima di attaccare in massa. Al tramonto, soddisfatti di aver perso tutti gli arcieri e i fanti leggeri che in teoria avrebbero dovuto coprire la cavalleria, si concedono il meritato riposo. Salvo tornare a mezzanotte con fionde, frecce e sassi.

Vercingetorige ne approfitta per uscire dalla città.

Col buio le cose sono più difficili per i Romani che per i Galli: se i secondi, mirando sugli spalti, hanno ottime probabilità di beccare qualcuno, i legionari vanno a tentoni. Lo stesso gli ufficiali che, per la difficoltà dei collegamenti tra gli otto castra, possono solo fare congetture su quale zona abbia bisogno di rinforzi e quale no.

All’alba si raggiunge lo stallo; le perdite sono ingenti da entrambe le parti. I Galli decidono di ritirarsi, lasciando i fossati mezzi pieni. E qui Cesare ci stupisce riferendo che Vercingetorige aveva sfoderato delle macchine da assedio. Non sappiamo nient’altro, in proposito.

Ah sì? E da dove spuntano fuori? Come sono fatte? Parla, Cesare!

Ah sì? Be’, potevi parlarne un po’ di più, Caio Giulio.

Incredibile a dirsi, si tratta di una ritirata strategica: a preoccupare i difensori è uno dei castra romani, appollaiato com’è su un’altura, e non in pianura come gli altri.
Per risolvere la questione, la notte parte dell’esercito di rinforzo si nasconde dietro una collina più alta. Vercingetorige, che non comunica affatto con l’esterno, intuisce la mossa e riesce ad attaccare in simultanea.

Il risultato è che Cesare, a sua volta appostato su un’altura, deve far correre i suoi di qua e di là per allentare la pressione. Alla fine anche Labieno viene scomodato per portare sei coorti in quel povero castraminacciato da tutte le falci murali, da tutti i graticci e dalla terra per colmarne i fossati e da tutte le scale disponibili.

Cesare dà il colpo di grazia, ripulendo il vallo in pianura e soccorrendo Labieno.
Il quale, udite udite, era così in difficoltà da dover tentare un’azione disperata — per non dire suicida, accidenti — come radunare trentanove coorti (cioè quasi quattro legioni) e buttarsi a capofitto nello scontro.

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Questo è il bello dello stile di Cesare: i movimenti di Labieno in realtà erano premeditati. Era il Piano B!
Infatti, nell’ultima manifestazione di sovrumana efficienza del Libro Settimo, il Divo è pronto a venirgli incontro con quattro coorti e qualche cavaliere, mentre altri cavalieri prendono i Galli alle spalle.

Il peggio è fatto. Anche in questo caso, il fatto che i Galli non siano morti tutti e trecentomila ad Alesia è dovuto solo alla stanchezza dei legionari.

Il giorno seguente, forse il 26 settembre, Vercingetorige si consegna a Cesare. Accetta le condizioni di resa, pur durissime, senza fiatare.
Leggenda vuole che sia uscito dal campo nella sua corazza migliore, sul miglior cavallo, e che abbia fatto un giro attorno alla sella curule del Divo per poi smontare, gettargli l’armatura e sederglisi ai piedi, tranquillo.

Lo attendono sei anni di carcere, una sfilata in un trionfo decisamente sottotono e una morte squallida.

Vercingetorige himself. Particolare della statua di sette metri voluta da Napoleone III nel 1865.

Appendice I

Come avevo anticipato, per Alesia Cesare ha in testa l’assedio di Numanzia di ottant’anni prima.

Anche lì c’erano state due linee di fortificazioni (in quel caso fossati, non valli) separate da duecento metri. Solo che i terrapieni costruiti a parità di tempo da Cesare sono lunghi due volte e mezzo quelli dell’Emiliano… Questo dà un’idea dell’aura di fretta che doveva portarsi appresso quell’uomo.

Appendice II

Un momento di apprezzamento per il Divo Giulio. Non è da tutti pensare a presidiare una zona non in difficoltà quando si hanno trecentomila galli concentrati su un unico bersaglio.
Il fatto è che, come nota lo stesso Cesare, era fondamentale scongiurare anche la minima possibilità di sfondamento del vallo in pianura, perché da lì i Galli avrebbero avuto accesso all’intera rete di trincee, ovvero a una vittoria schiacciante — questione di pressione, ancora una volta.
Ancora, è sempre commovente come gli basti un pugno di uomini — duemila o poco più, nel caso di Labieno — per rigirare la frittata.

***

¹Dati forniti dallo stesso Cesare, quindi verosimili, confermati dai ritrovamenti archeologici, ma prendeteli con le pinze eccetera eccetera.
Come al solito, dare una cifra è un azzardo e non mi allontano di molto dal vero se dico che anche gli storici si producono in voli pindarici, o meglio con un margine d’errore del 10-20%. Non ha senso.
Per darvi un’idea, la legione modello di Cesare conta 6.000 uomini divisi in dieci coorti. Cesare si serve più di queste ultime che della legione come unità tattica — abbiamo visto per esempio che lascia 22 coorti al cugino Lucio, cioè due legioni e un quinto — e per questo è difficile capire cosa intenda per “dieci legioni”: con tutti gli spostamenti che ha fatto, ci saranno legioni da venti coorti come da otto.
Uno dice: vabbè, il totale è lo stesso, l’intero esercito è radunato ad Alesia. E invece no, perché nemmeno le coorti hanno sempre 600 uomini l’una. Anzi, dopo quattro anni di guerra ininterrotta e due senza rinforzi, è probabile che siano quasi tutte a ranghi ridotti.

È un pasticcio, regà.

²Dico “curiosamente” perché le talee già per i latini indicavano le parti di pianta usate per farla riprodurre altrove.
Insomma, casomai voleste anche voi un certo fiore o albero da frutto che avete visto in giro, potreste provare a staccargli un rametto (meglio se ha una gemma). Poi mettetelo in acqua: se gli sbucano le radici, è fatta.
Comunque, l’attinenza tra talee e pioli rimane per me un mistero.

2014!

Poche righe, come di rito, per farvi gli auguri e ringraziarvi.

Il mio 2013 è stato abbastanza impegnativo e le conseguenze si sono ripercosse anche sul blog, concretizzandosi in scarsità di articoli e forse in un tono sempre meno vivace. Tuttavia ho avuto un riscontro migliore dell’anno scorso tanto nel numero di visite quanto, soprattutto, nella qualità dei commenti. Quindi anche questa volta confermo che il blog è in lenta, costante ascesa.

Anche a me piace quello che ne sto tirando fuori, anche se ogni tanto mi devo chiedere che diavolo sto combinando. Ma questo fa parte del mio carattere e non me ne preoccupo!

Ma parliamo del futuro.
La grande, spaventosa domanda che tiene il mondo in bilico tra ansia e panico è: Cosa farà Amnell dopo aver massacrato il De Bello Gallico?

Ammetto che quando me  l’hanno chiesto non ho trovato nulla di meglio da rispondere che “Nulla! Mi darò al croquet!”… ma in fondo penso ancora che parlare dell’Antichità in un certo modo sia utile.
La Storia non piace quasi a nessuno perché è vista come una sterile sequenza di fatti, e quel che più la fa odiare è che la maggior parte degli appassionati ne parla come se fosse una cosa luccicante e felice, ben lontana dallo squallore di oggi.
Be’, quello che serve, secondo me, è inculcare al mondo un concetto molto ragionevole: la Storia è fatta da persone e popoli più che da fatti, e che è piena di sangue e corruzione e disastri colossali più che di dame col cappellino e fidati destrieri, di idioti che decidono le sorti di tutto un continente più che di piccoli eroi, proprio come il mondo che ci appartiene. Che lo squallore c’è adesso e c’era prima, e che è bello così!

Quindi ecco, continuerò a parlare di persone che fanno fatti e di sangue che luccica. 😀
Come col De Bello Gallico, inizierò in estate e procederò per piccole tappe, ma avrete un assaggio del nuovo progetto a breve. Anzi, per la verità già sapete di cosa si tratta…
Fioretto per l’anno nuovo: ridurre la quantità di spoiler.

È tutto, per ora. A presto e buon 2014.