Quei casinisti dei Greci

Qualche mese fa ho scoperto che i miei anni di elucubrazioni un tantino pesanti per la mia giuovane età sono andati sprecati, perché Nietzsche aveva già pensato a tutto. E quindi bravo Friedrich, mi hai mandato a monte la carriera di baby-filosofa. Mi dici cosa faccio adesso del mio pessimismo, se non posso nemmeno fondarci sopra un sistema metafisico? Eh? Eh?

Sogni di gloria sfumati a parte, quello che scrive Nietzsche (quando si capisce: no Fried, gli aforismi per favore lasciali a Moccia, okay?) della Storia è molto bello.

*** Nietzsche? Il gatto della Merkel? ***

Semplificherò molto, scusate. Nietzsche crede che ci siano due tendenze nel mondo: apollineo e dionisiaco, che grossomodo sono il logos, l’ordine, e il caos. C’era equilibrio finché quel pisquano di Socrate, con la sua mania di catalogare tutto sottoforma di concetti, non ha portato in vantaggio l’apollineo. Poi il suo degno compare, Platone, ha peggiorato la situazione mettendo le idee in un mondo (l’iperuranio) di cui il nostro è solo la bruttacopia. Da lì al dualismo Terra-Paradiso del cristianesimo e all’odio per questo mondo il passo è stato breve.

Questa cosa ha fatto abbastanza schifo, visto che il caos c’è e se lo ignori è peggio. Il dionisiaco in teoria serviva per accettare questo disordine e non vivere nell’ansia di razionalizzare ogni minima cosa. E invece le religioni ci dicono che c’è un motivo per tutto e che, se facciamo i bravi bambini, nell’aldilà ci aspettano settanta vergini.

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Poi Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!¹, e che si fa? Si fugge dalla realtà, si trova un surrogato di Dio, tipo la scienza o il marxismo. Oppure ci si rassegna a questo benedetto caos e s’impara a trovare da soli il senso della vita.

In ogni caso, prima o poi il dionisiaco riconquisterà lo spazio che il logos gli ha tolto.

*** Fine ***

C’è molto di e contro Nietzsche in Storia della filosofia occidentale e dei suoi rapporti con le vicende politiche e sociali dall’antichità a oggi di Betrand Russell, cui quest’estate dedicherò alcuni articoli (a cominciare dal prossimo). Costui dedica qualche centinaio di pagine al ritratto della cultura greca.

Per Russell i Greci avevano molto poco di razionale.

Il successo di Dioniso in Grecia non sorprende. Come tutte le comunità civilizzatesi rapidamente, i Greci, o almeno una certa parte di loro, conservavano l’amore per il primitivo e il desiderio per un genere di vita più istintivo e passionale di quello sanzionato dalla morale corrente. All’uomo o alla donna che, per costrizione, sono più civilizzati nel comportamento esteriore che nel sentimento, la razionalità è fastidiosa e la virtù è da loro sopportata come un peso e una schiavitù.
[…]
Nel campo del pensiero, la sobria civiltà è approssimativamente sinonimo di scienza.
Ma la scienza pura non ci soddisfa; gli uomini hanno anche bisogno della passione, dell’arte, della religione [parla per te, N. d. A.]. La scienza può porre limiti alla conoscenza, ma non dovrebbe porre limiti alla fantasia. Tra i filosofi greci, come anche tra quelli dei tempi posteriori, ce n’erano alcuni che erano in primo luogo degli scienziati e altri che erano in primo luogo dei religiosi; questi ultimi dovevano molto, direttamente o indirettamente, alla religione di Bacco. Ciò si applica particolarmente a Platone e, con lui, a quegli sviluppi ulteriori del pensiero che infine si sono fissati nella teologia cristiana. Il culto di Dioniso, nella sua forma originaria, era selvaggio e, sotto molti punti di vista, ributtante. Non è sotto questo aspetto che influenzò i filosofi, ma nella forma spirituale attribuita a Orfeo, forma ascetica che sostituiva l’ebbrezza mentale a quella fisica.

In pratica, Russell sta smontando le basi di Nietzsche.
Mettendo nero su bianco, Nietzsche: razionalità (apollineo) → Socrate → Platone → Cristianesimo. L’apollineo ha trionfato sul dionisiaco e la religione è nata per proteggerci dal caos imperante.
Russell, invece: Bacco (dionisiaco) → Orfeo → Pitagora → Platone. Il dionisiaco l’ha fatta da padrone finora e la religione è un suo sottoprodotto.

Ho tirato in mezzo Pitagora perché la sua filosofia ha molto della religione, o meglio del misticismo. Una delle prove più simpatiche che Russell propone è l’etimo della parola teoria: in origine indicava l’estasi provocata dalla contemplazione del divino, che poi i pitagorici hanno associato all’esperienza della matematica.
Russell dice: sai quando stai facendo un problema e ti viene l’illuminazione? Ecco, quella per Pitagora era identificazione con Dio.

Lì ho capito che i problemi che ho risolto io non erano abbastanza difficili.


Una cosa che Rinascimento e Romanticismo ci hanno fatto dimenticare è che anche i Greci erano superstiziosi. Alcuni dei precetti che i pitagorici dovevano rispettare, per esempio, erano ‘non spezzare il pane’, ‘non attraversare travi’, ‘non toccare galli bianchi’.² E il culmine dell’entusiasmo Empedocle lo raggiungeva nel blaterare

«Miserabili, abietti miserabili, tenetevi lontani dalle fave!»

anigif_enhanced-buzz-22246-1387223770-7Quel che ne penso io

Né Nietzsche né Russell guardavano alla Storia con obiettività. È dell’inglese per esempio questa dichiarazione:

Penso che un uomo privo di pregiudizi non possa scrivere di storia in modo interessante — ammesso che un uomo simile esista.

che approvo. E no, Alberto Angela NON scrive di storia!

Ciò detto, il mio tema della maturità non so perché è finito col sostenere la tesi che l’entropia, cioè il disordine, col tempo stia aumentando anche nella società. È il secondo principio della termodinamica, vale in fisica e, se si è abbastanza disone furb sofisti, si può banalizzare in questo modo: per i pagani la Storia si ripeteva sostanzialmente invariata in un ciclo simile a quello delle stagioni; per i monoteisti la Storia è una linea in cui nulla si ripete e gli uomini non hanno o hanno scarso controllo sul loro destino; per Nietzsche è una sfera. Cerchio, linea, sfera: il disordine è andato aumentando.

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Questo discorso è molto impreciso in molti modi diversi. Il principale è proprio che il mondo degli antichi era meno tranquillo di come lo pensiamo. C’erano Dioniso e Pan, il Fato, il Caso (Empedocle credeva in quello e nella Necessità) e più tardi la Sorte, la Fortuna e i culti misterici come quello della Bona Dea e di Angerona, dea del silenzio. Altroché in medio stat virtus.

Il fatto che gli dèi dell’Olimpo dettassero anche le leggi morali, cioè che “mettessero ordine”, ha un motivo antropologico: gli dèi che dovevano garantire un buon raccolto vennero associati al benessere dello Stato, e al benessere dello Stato venne associata la figura del re. La sua parola diventava così divina, ed ecco che infrangere la legge era un sacrilegio. Da qui il legame tra religione e moralità.

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Un’etica come tutte le altre.

Quello che chiamiamo ordine dunque c’entra poco nella battaglia tra apollineo e dionisiaco.
Inoltre anche il Cristianesimo non è che sia proprio il massimo della linearità. Ha la sua mitologia basata sui santi, le cui gesta fino a sessant’anni fa erano più popolari di quelle di Gesù Cristo; ha i suoi riti d’iniziazione e la sua intolleranza verso specifiche fette di popolazione, come qualunque setta.

Questo senza contare per niente l’influenza delle scienze sulla nostra percezione del tempo, della giustizia e della verità.

Insomma, il mondo è un disastro e non mi pare che sia mai stato più ordinato di così. Quindi tanto vale, come diciamo sempre io e il cugino Fried, accettare la Dura Verità e andare avanti.
Che poi è dura il giusto. A me non pare che non poterti appigliare a niente tranne che a te stesso sia poi così terribile. 😀


¹Dal famoso Frammento 125 della Gaia scienza.
²Un altro è non sedersi sui boccali. Be’, questo è buonsenso più che superstizione…

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Letture perdute di fine estate

L’estate per me è un’era geologica che va grossomodo da aprile a novembre.
Per cui salve, sono or ora riemersa dalle vacanze estive. Pensavo che stavolta avrei fatto il ponte con quelle natalizie, dico la verità. E invece! 😀

Ma ciancio alle bande! Vi racconto qualcuno dei libri che ho letto negli ultimi mesi.

Coralinda, “favola nera e fantascientifica per adulti e bimbi disobbedienti” di Massimo Citi.
In fase di pubblicazione l’autore ne riportò uno stralcio, tratto da pagina 42 della versione dell’epoca.

Finora Somma Zero si è mantenuta fedele alla sua politica. Ma non essendo un’ingenua ha dato ordine a gruppi scelti dei suoi di tenere d’occhio le civiltà umane, lasciando credere ai grandisuole che l’unico interesse delle blatte stesse nell’immondizia e nella sporcizia che gli umani erano così abili a produrre in grandi quantità.

Da qualche tempo, tuttavia, Somma Zero comincia a sospettare di aver sbagliato tutto e che, tirate le somme, avesse ragione la precedente regina-madre.
“Gente così grossa, così troppamente grossa pensa di essere importantemente importante.”
“Sporco, sporco, sanno produrre soltantemente sporco. Per fare una minimamente cosa ne sciupano altre dieci.”
“Stupidi, sono propriamente stupidi, sono capaci di portare in giro soltantemente i loro grossamente piedi e le loro teste vuotamente vuote.”

Le frasi della precedente regina-madre, compresi gli avverbi che sostituivano imparzialmente aggettivi e congiunzioni, le tornano spesso in mente, soprattutto all’inizio della giornata. Da quando, poi, il lago Sognamacchia è diventato una pozzangherona puzzolente dalla quale escono senza sosta mostriciattoli di ogni tipo, Somma Zero si sta chiedendo se non sia il caso di impiegare il resto della sua vita (altri ventiquattromila anni circa) a sterminare l’umanità schiacciandola sotto i piedi dei suoi Bekamuti.

Interessante, anche solo dal punto di vista linguistico.
Lo trovate gratis su Lulu.

***

L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, di Arthur Schopenhauer.
Il giudizio immediato fu che l’autore avrebbe potuto riversare la ridondanza del titolo nel testo. Gli stratagemmi sono spesso ovvi o intuitivi, ma proprio per questo sarebbe stato meglio fare qualche esempio pratico. Dopotutto l’abilità nel rigirare la frittata a proprio favore dipende dall’allenamento.
È una lettura divertente (per essere Schopenhauer, certo…), se non altro per accorgerci del numero di trappole verbali in cui incappiamo ventiquattr’ore su ventiquattro.

E poi anche lui odia Cicerone.

I Topici di Cicerone sono un’imitazione a memoria di quelli aristotelici, assai superficiale e povera: Cicerone non ha proprio alcun concetto di che cosa sia e a che cosa miri un topus, e così raccatta alla rinfusa ex ingenio ogni sorta di discorso e lo adorna riccamente con esempi giuridici. Uno dei suoi scritti peggiori.

Ed Hegel.

[…] il discorso cadde su Hegel, e io affermai che la maggior parte delle cose da lui scritte è insensata o, almeno, che molti passi dei suoi scritti sono tali che l’autore butta lì le parole e il senso deve mettercelo il lettore.

E propone un mucchio di modi incredibili in cui spuntarla:

Il più bell’esempio a questo proposito è offerto dal francese Curè, il quale, per non pavimentare la strada davanti alla sua casa, come erano obbligati a fare gli altri cittadini, citò un detto biblico: paveant illi, ego non pavebo (“tremino pure quelli, io non tremerò”). Ciò convinse gli amministratori comunali.

***

E poi mi sono regalata i miei primi fumetti, giusto per vedere come sono fatti quelli di carta.

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Ho letto troppo poco di questo genere, quindi non mi pronuncerò. Personalmente sono contenta di aver speso i miei soldi proprio per Zerocalcare.

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La conquista della felicità, di Bertrand Russell.
In un tema di scuola l’ho definito, esagerando, ‘imbarazzante’. In realtà è una buona lettura, mai pesante e con alcuni spunti originali.
Il problema è che Russell è la classica mente brillante, quindi leggendo un trattato dal titolo così ambizioso non ti aspetti i consigli della nonna formulati in base alla mera esperienza e al sentire comune. È banale, per i suoi standard.
Non mancano anche considerazioni ingenue:

Tutti i migliori romanzi contengono brani noiosi. Un romanzo tutto brio dalla prima pagina all’ultima è quasi certamente un romanzo mediocre.

Ehm, no.

Di Kant si dice che non si sia mai allontanato più di dieci miglia da Königsberg in tutta la sua vita. Darwin, dopo aver girato il mondo, trascorse a casa tutto il resto della sua vita. Marx, dopo aver suscitato qualche rivoluzione, decise di passare il resto dei suoi giorni al British Museum.
Tutto sommato, si nota che per lo più i grandi uomini hanno avuto una vita tranquilla e che i loro piaceri non erano di quelli che possono apparire eccitanti a chi osservi dal di fuori.

Ma chi è che se parli di “grandi uomini” ti tira fuori Kant? Mah!
Però c’è del buono:

La capacità di sopportare una vita più o meno monotona dovrebbe essere acquisita nell’infanzia.
I genitori moderni sono molto da biasimare a questo riguardo; essi offrono ai loro figli troppi divertimenti passivi, come gli spettacoli e i dolciumi, senza rendersi conto dell’importanza che ha per un bambino il trascorrere un giorno uguale all’altro, a eccezione, naturalmente, di qualche rara occasione.
[…]
Non voglio dire che la monotonia abbia dei meriti in sé; voglio dire soltanto che certe cose buone sono possibili soltanto là dove vi è un certo grado di monotonia.

Oddio, non condivido una parola, ma almeno è un punto di vista alternativo.
Per mia fortuna La conquista della felicità non si occupa quasi mai di quel che promette, finendo per raccogliere molte buone osservazioni di etica. Ne riparleremo più avanti.

***

Lolita, di Vladimir Nabokov.
Pessimo! Ah, mi prudono le mani per quanto mi brucia il ricordo!
Voglio dire, Nabokov si era trovato un argomento interessantissimo, praticamente impossibile da rendere noioso sia scrivendo male che bene, e tutto quel che ne ha cavato è stato un Humbert?
Blasfemia.
Con le storie che giocano col senso della moralità bisogna avere polso e descriverle a trecentosessanta gradi, altroché sprecare cento pagine in digressioni sul paesaggio!
Certo, c’è da considerare il realismo. È il pedofilo a parlare ed effettivamente è verosimile che veda tutto in una prospettiva così distaccata.
Rimane il fatto che non annoiare è più importante dell’essere verosimili.

***

Il tribuno Clodio, di Luca Fezzi.
Di Clodio parlerò in un articolo a sé. Parliamo dei miei problemi con l’autore.
Fezzi mi ha fatto capire due cose: che non leggerò mai più un suo libro e che, se lui è il prototipo di storico di successo, io non voglio diventare una storica.
Un passo indietro.
Al momento devo capire cosa fare di me stessa. Le opzioni sono due: Facoltà d’Ingegneria o Facoltà di Storia? L’ingegnere è concretamente utile al mondo, progetta e calcola e costruisce; e lo storico?

Lo storico legge, ricostruisce e divulga in forma più chiara. Il problema è come si trasmette la conoscenza.
Leggendo Clodio, mi è parso che fosse solo questione di mettere insieme due fonti e riportare le interpretazioni dei critici. Leggi e ripeti, leggi e riscrivi. Metti una bibliografia chilometrica in appendice — perché mille altri hanno scritto le stessissime cose prima di te — e sei a posto.
Sotto quest’aspetto, persino i miei post sono infinitamente migliori. Il lavoro che tento di fare è più complicato: si tratta di svecchiare, attualizzare e, quando rischio di diventare illeggibile, semplificare gli eventi. In ogni caso, l’obiettivo è dare un senso a un cumulo di dati noiosi anche per me.
Quindi il mestiere dello storico non è quello che tento di fare io, al diavolo! Addio, sogni di gloria!
A proposito, manca poco al prossimo post di storia.

***

Ma più che dei libri questa è stata la stagione dei manga e relativi anime, più di settanta.
Per citare quelli di cui ho un buon ricordo: Bleach (no, il fanservice non mi disturba affatto), Shingeki no Kyojin, Mirai Nikki, Durarara!!, Sword Art Online, Psycho-Pass fra quelli per il pubblico maschile; ClannadHachimitsu to Clover fra quelli da ragazze.

Infine, menzione d’onore per Bakuman, che mi ha passato chili di voglia di fare — con risultati spesso disastrosi, ma quella è colpa mia! Merito della segnalazione di Hendioke. 😀

Rapporto: la Scuola di Educazione alla Pace

Lezioni per insegnarti che l’alcool fa male, che le droghe stanno decimando la tua generazione, che il sesso è pericoloso, che il bullismo è diventato un’emergenza a livello mondiale, che le donne si fanno ancora strumentalizzare, che viviamo in una società maschilista, che alla fine l’Occidente non è che sia poi così avanti, che stiamo perdendo la battaglia culturale.
Lezioni per scaricarti sulle spalle la responsabilità di tutto il male cui dovrai rimediare perché il giovane sei tu e del bene che dovrai per forza fare, altrimenti il mondo ti si sgretolerà sotto i piedi. Eppure vedi che calchi questo suolo per pochi anni, vieni dopo una generazione d’irresponsabili e anche tu non è che sia cresciuto con tutte le rotelle a posto, non ti montare la testa.

Lo scopo sarebbe formare cittadini di buon carattere, eppure penso che tutto ciò possa sfociare solo in individui mentalmente chiusi (spesso al limite della psicopatia, come le femministe moderne), indifferenti o ribelli.

Questo è il resoconto di tre giornate di lezioni sulla gestione non violenta dei conflitti. Alla tastiera, una ribelle con un buon autocontrollo. (Se vi chiedete perché mi sia abbassata a partecipare, la risposta non è in alcun modo “tsundere”.)

***

Pensavo di morire. Probabilmente se non fossi stata in compagnia di un’amica mi sarei appostata in un angolo buio a esaminare ogni partecipante. Poi avrei concluso che non c’era nessuno di notevole e me ne sarei tornata a casa — tecnica testata personalmente, la consiglio.
E invece ho dovuto comportarmi da persona perbene fino all’ultimo. Dopotutto mi ero trascinata fino a scuola inseguendo le parole “Cibo gratis”, che sempre si accompagnano alle iniziative dedicate agli adolescenti. Sì, tipo Hänsel e Gretel.

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Capo d’accusa 1: D’intolleranza a cose necessarie alla vita sulla Terra

La cosa che ricordo con più (cinico) affetto è un esercizio volto a capire che percezione i partecipanti avevano di sé. Ci è stato chiesto di compilare un foglio coi seguenti dati:

  • Nome
  • Cosa mi piace
  • Cosa non mi piace
  • I miei pregi
  • I miei difetti
  • Negli altri apprezzo…
  • Negli altri non apprezzo…
  • Da questa esperienza mi aspetto…

La platea era composta in larga parte da donne, di cui quasi tutte sopra i quarant’anni e le rimanenti sotto i sedici, tranne me e la mia amica. C’era poi un residuo, dimostratosi superfluo, di uomini sulla quarantina e quattro ragazzi di seconda superiore chiaramente incastrati da una professoressa.

Tale varia umanità si è divisa nettamente per sesso ed età. Tutti i giovani hanno listato tra le attività preferite la compagnia degli amici e fra quelle sgradevoli la lettura. Tutti gli uomini hanno millantato di apprezzare valori come lealtà e coraggio e di odiare il contrario (davvero, si sono accontentati di dire “slealtà”).

Ma cos’avrà detto la componente femminile, lì riunita per sfatare una volta per tutte l’idea della “donna-oggetto”, una smorfiosa che parla solo per dare aria alle gengive e che si sente continuamente definire debole? Ah, quale meraviglia si presentò ai miei occhi misogini!
Il tutto è riassumibile nell’identikit della donna-tipo.

Fra i pregi la casa offre tanta sincerità, empatia, bontà, compassione, pazienza, sensibilità, le solite cose. Qualcuna si è anche definita intelligente e acuta. Nessuna bellissima, il che mi ha profondamente delusa.
Nei difetti abbiamo la troppa sincerità, la troppa bontà, la troppa sensibilità – a volte abbinata a una scarsa capacità di ascolto, uhm! – , l’indole da crocerossina, la fragilità, l’influenzabilità, l’ostinazione, la troppa modestia (e qui a momenti rigettavo la colazione ancora impacchettata nello stomaco).*
Ovviamente negli altri apprezziamo noi stesse, poiché viviamo per guardarci allo specchio; dunque pretendiamo sincerità e tatto.

A questo punto mi sono chiesta cosa sarebbe successo coi tratti che disapproviamo.
Per simmetria dovremmo ripudiare i nostri difetti come negli altri ricerchiamo i nostri pregi. Ma davvero sarebbe stato possibile dire “Io non sopporto troppa sincerità”? Certo che no! Sembrerebbe ipocrita!

Soluzione?

“Io non sopporto l’ipocrisia”!

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Questa è stata la risposta comune. Tutte le donne adulte – una dozzina – hanno sentito la necessità di metterlo in chiaro.

Ora lasciate che m’impunti, finché sono troppo giovane per essere definita una zitella frustrata.

L’affermazione “Uno dei miei difetti è la sincerità” implica logicamente un pensiero del tipo “Ah, se solo potessi essere una bugiarda, che gran persona diventerei!” e magari un proposito come “M’impegnerò a mentire almeno sei volte prima di fare colazione finché non avrò risolto”.

Ci vuole un sondaggio.

Perché dall’affermazione A non vediamo conseguire il pensiero B né tantomeno il proposito C? Votate:

1) Le donne sono più sceme degli uomini, pertanto non riescono a finire il ragionamento;
2) Le donne non percepiscono la sincerità come un difetto.

Bene, la 2). Ma allora com’è che il 100% dei soggetti adulti si è sentito sia di fare l’ipocrita che di condannare l’ipocrisia?

1) Le donne sono più sceme degli uomini, pertanto non riescono a notare la contraddizione;
2) Le donne non percepiscono la contraddittorietà come un difetto.

Ancora la 2). E la colpa di chi sarà mai?

1) Delle donne, che proprio non ce la fanno a capire che ormai sta a loro provvedere a se stesse, alla propria educazione e alla propria immagine pubblica;
2) Della società maschilista, violenta e repressiva che lascia i più deboli nell’ignoranza e nella volgarità senza che nemmeno se ne accorgano.

Io non ne ho idea, posso solo parlare per me.
Il mondo occidentale avrà anche dei residui di discriminazione in base al sesso, ma non sono tali da impedire a chicchessia, uomo o donna, di costruirsi una reputazione rispettabile.
Il fatto che su Internet, in televisione e sui giornali ci siano molte ragazze seminude e che questo sia legale non mi rende una poco di buono. Non mi danneggia in alcun modo, tutt’altro.
Sapendo questo, non ho bisogno d’indignarmi né di pensar male di queste ragazze seminude: come si diceva, viviamo in un mondo in cui il successo è considerato un diritto, anche per chi non lo merita.

Invece sarei tentata d’indignarmi per tutti quegli individui, uomini e donne, che ancora trovano qualcosa di mozzafiato in un pezzo di carne in mutande – ma questa è una mia tara mentale, lo riconosco. Sconfitti i puritani, non sarebbe ora di apprezzare qualcosina oltre i corpi?
Diciamo che, quanto a bassezza d’intelletto, vige l’assoluta parità fra i sessi. Ci meritiamo ciò che abbiamo, è il karma.

***

Ricordo altre risposte incredibilmente profonde del genere di “Non sopporto l’ignoranza!” (e allora che si fa, suicidio di massa come gli indiani d’America?) e “Odio la violenza, la prepotenza e l’arroganza!”.
La deduzione altrettanto profonda che ne ho tratto è che le entità senzienti al di fuori del mio organismo devono vivere un’esistenza facile e felice in mezzo a caprette che non scalciano e margherite di campo snobbate dai calabroni/T-Rex che ho in giardino.

Per tutti gli altri mi sento di parlare io, rude guerriero dall’approccio zen: anche respirare è un atto di violenza. Togli l’ossigeno alle generazioni future e invalidi gli sforzi delle foreste amazzoniche.
Odiare qualcosa e soprattutto rendere noto che la odiamo è violenza psicologica nei confronti di chi la ama o la sopporta, se non anche di chi la detesta quanto noi. Insomma, se al tuo amico piacciono i dolci e tu gli vomiti addosso il tuo disprezzo per lo zucchero che ti ha portato via lo zio diabetico, dubito che il poveretto non inizi a meditare sulla malattia e la morte. Violenza!
Allo stesso modo, se trovi un altro crociato anti-dolci, poco ma sicuro che peggiorerete insieme la vostra condizione psichica. Se non ci fossi stato tu a mantenere vivo il suo odio, probabilmente il fondamentalista se ne sarebbe annoiato.
Di contro, non odiare qualcosa è una violenza nei confronti di noi stessi, perché oggettivamente sopportare o incoraggiare un atto richiede molto impegno, una vera costrizione, quando distruggere è tanto facile.

E io non vedo come si possa essere ignari del fatto che senza violenza non si campa, ma a quanto pare sono in molti a basare sulla negazione di ciò un’intera esistenza ostentatamente felice.

La cosa buffa è che nelle tre giornate si è ripetuto un paio di volte che la pace non è un valore negoziabile. Che significa? Che se non la ottieni con le buone fai la guerra? Dio lo vuole!

Capo d’accusa 2: La comunicazione assertiva

Esistono a questo mondo due grandi categorie di persone: i passivi e gli aggressivi.
Dicono che, se si vuole risolvere un conflitto, si debba essere una via di mezzo. Si tratta cioè di trovare l’assertività.

In poche parole, lo scopo è esprimersi con chiarezza e non offendere, creare ansia o mettere a disagio il prossimo.
A parte che mi chiedo chi è che discute (cioè litiga) o fa una guerra col proposito di essere onesto, piuttosto che di vincere. Io no di certo.

Comunque la moderazione nella vita comune non crea grossi problemi. I metodi attualmente in voga per raggiungerla, al contrario, sì.

A me li hanno spiegati così: il primo passo è assicurarsi di aver inteso le argomentazioni dell’altro, perché in effetti la maggior parte delle volte spunta che avevamo capito tutt’altro. Per questo siamo portati ad apprezzare tanto un discorso come il seguente.

Che sciocchezza.

Che sciocchezza.

Quindi sarebbe necessario chiedere frequentemente all’altro se abbiamo capito bene, ripetendo le sue argomentazioni con parole nostre.

In pratica,

“Mi presti la penna?”
”Vuoi in affidamento temporaneo la mia penna?”

o

“Sei un idiota!”
”Mi stai dicendo che ho un quoziente intellettivo sensibilmente inferiore alla media?”

Sembrano esagerazioni, eppure lo schema è quello.
La cosa si può fare ancor più grottesca, perché il secondo passo è non insultare, bensì esporre il problema in termini neutri, descrivendo e non giudicando.
Così il “sei un idiota” di prima si trasforma in:

“Dal fatto che tu abbia acceso un falò davanti a me dopo aver imbevuto le mani nella benzina [fatto concreto, specifico e testimoniabile] deduco che le sinapsi all’interno della tua scatola cranica siano in quantità inferiore alla media nazionale [opinione scientifica prima di connotati emotivi] come da indagini ISTAT del 2007 [prova oggettiva facilmente verificabile].”

Adesso ho esagerato.

Fatto sta che l’aggressività è importante quanto l’assertività e che alternare un po’ di sana prepotenza a critiche costruttive risparmia molti guai. Però lascerei perdere la debolezza! Una volta che ci si è scomodati a pronunciare il proprio parere, tanto vale tenerselo ben stretto.

Epilogo: un episodio traumatico

Ho parlato di come spesso s’intenda dire una cosa e ne venga recepita un’altra. Ebbene, anch’io sono stata vittima innocente della sindrome del genio incompreso.

Durante un gioco a coppie per migliorare la capacità di ascolto, avremmo dovuto descriverci abbinando il nostro carattere a un dato animale.
C’era la volpe, che nel conflitto cerca il compromesso; la tartaruga, che fugge o ignora i malintesi; il camaleonte, che si adegua al punto di vista dell’avversario; eccetera.
Come c’era da aspettarsi, io sono stata l’unica ragazza a scegliere il profilo-aquila: “M’impongo sull’altro e lotto per averla vinta”. Sudando freddo, ho argomentato meglio che potevo la mia scelta con la mia compagna, perché poi sarebbe stata lei a dover riferire cos’aveva capito.

Il risultato? Il rapporto è iniziato con una frase sostanzialmente giusta, il fatto che ho delle “convinzioni forti”, per poi chiudersi, attraverso la più sdilinquita descrizione della mia anima, con il giudizio “Non ha valori molto ben radicati”.

Ma allora lo vedi che non lo sanno nemmeno loro cosa sono questi valori, mi son detta.

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* Per carità, anch’io ho avuto dei seri problemi a trovarmi dei difetti, ma alla fine qualcosa che vorresti cambiare di te stesso la trovi. E no, non è l’eccesso di perfezione. 😀

Idee da “La fonte meravigliosa”, di Ayn Rand – Parte 2

Gail Wynand, seduto al suo scrittoio in ufficio, leggeva le bozze di un articolo sul valore morale di avere delle famiglie numerose. Quelle frasi convenzionali e ampollose gli sembrava avessero il sapore della gomma da masticare masticata e rimasticata e ruminata e maciullata e sputata fuori e raccolta di nuovo, passata da bocca a selciato di marciapiede, da selciato a bocca, a suole di scarpe e a denti, di nuovo.

***

Nella prima puntata abbiamo sbirciato la personalità dei due eroi randiani e le loro convinzioni personali. Oggi vediamo degli ideali di portata più ampia.

Il romanzo insiste molto sulla distinzione fra creatori e parassiti.
I creatori sono le persone dotate di genio ed estro che portano l’innovazione e il progresso. Sono caratterizzati da un forte individualismo, che li spinge ad avere occhi solo per sé e la propria arte.
Nelle parole di Roark:

Agli uomini è stato insegnato che è una virtù andar d’accordo con gli altri. Ma il creatore è l’uomo che non va d’accordo. Agli uomini è stato insegnato che è una virtù nuotare con la corrente. Ma il creatore è l’uomo che va contro corrente. Agli uomini è stato insegnato che è una virtù saper stare insieme. Ma il creatore è l’uomo che sta solo. Agli uomini è stato insegnato che l’io è sinonimo di male, e l’altruismo il sinonimo della virtù. Ma il creatore è l’egoista nel senso assoluto e l’altruista è colui che non pensa, non crede, non giudica e non agisce.

Il problema qui è prima di tutto linguistico, quindi lavoriamo di vocabolario.

L’altruismo è “viva inclinazione e amore verso il prossimo, che concretamente si traduce nel dare disinteressatamente il proprio aiuto morale e materiale alla risoluzione di problemi, difficoltà, necessità altrui”.
L’egoismo è “atteggiamento che implica la subordinazione dell’altrui volontà e degli altrui valori alla propria personalità; nel linguaggio comune, amore eccessivo ed esclusivo di se stesso o valutazione esagerata delle proprie prerogative che porta alla ricerca permanente del proprio vantaggio, alla subordinazione delle altrui esigenze alle proprie e alla esclusione del prossimo dal godimento dei beni posseduti”.

Tralasciando il fatto che mi pare impossibile dare senza aspettarsi nulla in cambio, è evidente nella seconda definizione la disparità fra il significato proprio e quello comune.

È da stupidaggini come questa che nascono religioni e correnti di pensiero come l’Oggettivismo, cioè la filosofia di Ayn Rand: basta usare le parole in accezioni che non hanno.
Se il concetto di egoismo, di per sé neutro, non avesse avuto un senso negativo, non sarebbe stato necessario cercare di rivalutarlo in senso positivo, stravolgendolo ulteriormente. Allo stesso modo, è stato il cattivo uso delle parole nel linguaggio comune a permettere alla Rand di forzare nel concetto di altruismo un senso di sacrificio e abnegazione ingiustificato.

Sono fissata su queste cose, scusate.

Ciò chiarito, possiamo stare al gioco. È meglio farsi martirizzare dalla società o mettere in secondo piano le proprie convinzioni per amor di quieto vivere?
Da un punto di vista pratico, si tratta solo di calcolare quanto tempo resisteremmo scegliendo una delle due alternative. È molto nobile sia fare la guardia al proprio onore che lasciar vivere in pace chi ci circonda, ma se non riusciamo ad andare fino in fondo non ha senso. Anche se non è possibile passare un’intera esistenza a testa alta (o bassa), penso sia sufficiente uscirne senza troppi fallimenti.

Io finora mi sono potuta permettere di sfidare tutti e uscirne viva, ma è stato un caso. Prima o poi arriva la fatidica mazzata che ti riporta coi piedi per terra.
È così evidente che mi sto preparando psicologicamente all’università? D:

Eppure un mese fa ero ancora a questo stadio.
Eppure un mese fa ero ancora a questo stadio.

Continuando sulla scorta della dicotomia egoismo-altruismo, la Rand dice un paio di cose che mi piacciono.

Fare di un gesto di carità la più alta prova della virtù significa fare della sofferenza la parte più importante della vita. L’uomo deve desiderare di veder gli altri soffrire, per poter meglio essere virtuoso? Tale è la natura dell’altruismo.

Corollario,

l’altruismo è diventato una forma di egoismo così totale, così assoluto, così dannoso che un uomo veramente egoista non riesce a concepirlo.

A questo proposito ho una storiella fresca fresca che mi pare confermarlo.
Attualmente sto seguendo qualche lezione sulla gestione pacifica dei conflitti. È allucinante, ne riparlerò. In sostanza dovrei credere che, quando abbiamo un problema di natura emotiva con un conoscente, bisogna assolutamente dirgli i sentimenti che ci turbano, perché così ci alleggeriamo di un peso che altrimenti andrebbe ingigantendosi col tempo.
Quindi immaginatevi la scena. Un amico vi fa uno sgarbo, poi un altro e un altro ancora. Voi accumulate nervosismo, rabbia, quello che è. A un certo punto non ne potete più, gli telefonate e gli dite: “Guarda che quando ti comporti così io ne soffro proprio”.

"Tessoro! Con un bacino la bua passa subito!"

“Tessoro! Con un bacino la bua passa subito!”

Il fatto è che un individualista, cioè l’egoista randiano, valuta la possibilità che al prossimo non interessino i suoi sentimenti come a lui stesso non interessano quelli degli altri. Come se potessero fargli del bene! Nella maggior parte dei casi serve solo a estendere il disagio e indebolire i legami. Empatia percepita come egoismo.
Invece la persona diretta, convinta che dire sempre le cose come stanno significhi eliminare le incomprensioni, agisce davvero da egoista. Eppure sembra che sia questa la vera onestà.

Io penso proprio che serva solo a darsi una pacca sulla spalla da soli.

"Ma quanto sono furbo." *pat pat*

“Ma quanto sono furbo.” *pat pat*

Specifico che questo è ciò che credo, ma che non sempre faccio. In realtà sono la prima a non pensare a ciò che prova chi mi ascolta… e a essere etichettata come persona onesta. Non è così che s’inquadrano le persone. ^_^

Okay, passiamo alle cose serie, quelle che non mi fanno dormire la notte.

La questione su cui mi sono dovuta scervellare di più viene da una battuta del cattivo del romanzo, Ellsworth Toohey:

Bisogna stabilire dei tipi di successo accessibili a tutti, ai più insignificanti, ai più inetti e ostacolare l’impeto verso il miglioramento, la perfezione, il sublime.

Lasciate perdere tutto dalla prima virgola in poi, la prevedibile frecciata a comunismo e socialismo.
Il primo pezzo mi pare sensato: non sarebbe giusto dare a tutti la possibilità di realizzare i propri sogni? Anzi, essere felici non è proprio un diritto?

A rispondere di no è la meritocrazia. Se i migliori devono aprirsi la strada, lo faranno per forza camminando sulle teste dei mediocri.
Però è anche vero che la società progredisce solo se i migliori hanno i mezzi per eccellere, al diavolo gli altri. Anche se quell'”al diavolo gli altri” significa miliardi di vite sprecate, o comunque insoddisfacenti.

Quindi ecco il problema: il bene comune – mi si accappona la pelle solo a scriverlo – si fa permettendo a tutti di trovare la felicità o mandando avanti chi è in grado di fare sia la propria che, indirettamente, quella degli altri, pur rendendo infelice un buon numero di persone?

L’esempio più ovvio è quello del ricercatore scientifico o del medico e, parzialmente, dello scrittore.
Ognuna di queste professioni è orientata a far stare bene una comunità, fisicamente o intellettualmente; in ognuna più sali di grado e più gente aiuti, ma sminuisci anche quelli con cui competi.

Il danno arrecato ai mediocri sembra irrilevante, e in effetti il lato meno meschino del vivere in una nazione moribonda è che chi fallisce non viene emarginato.

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Anzi, se siete maschi e possibilmente sotto i trenta, essere un caso perso vi rende affascinanti: approfittatene per farvi tatuaggi e piercing vari, finché il modello asiatico non vi fa rigare dritto.

Mi chiedo cosa succederebbe se l’ansia di primeggiare si diffondesse anche qui. Persino la crisi sta dando una mano, in questo senso, coi tagli all’istruzione e al lavoro.
In queste condizioni solo i migliori e i peggiori vengono (più o meno) aiutati; e chi sta in mezzo? I comuni mortali che non hanno né handicap né talenti mostruosi e che vorrebbero solo starsene in pace? Sayonara, felicità!

***

Bene. Prima di lasciarvi andare, vi propongo l’idea che mi ha colpita di più.

Se io fossi stato duramente colpito da un uomo, credo che non potrei perdonare. Ma penso che nessun uomo possa veramente percuotere un altro, né colpirlo, né aiutarlo.

Lo ammetto, non mi era mai capitato che uno scrittore toccasse un mio tasto dolente! È stato bello leggere di qualcuno distaccato quanto me.
Immagino che i pensieri retard debbano venire, prima o poi. Spero.

Idee da “La fonte meravigliosa”, di Ayn Rand – Parte 1

Per qualunque colpa ci può essere un’attenuante, chiunque può meritare il perdono. Ma non ci può essere indulgenza per coloro che mancano del coraggio della propria grandezza. […] Per me, non c’è perdono. Io non ero nato per essere uno schiavo.

Citando Gamberetta, The fountainhead (1943) è un documentario sugli ornitorinchi per soli appassionati di ornitorinchi. E anche se siete fan dei misteriosi mammiferi ovipari, questo libro vi costringerà a guardarli sfilare e andare a un rave.
Ossia: questo è un romanzo scritto solo per veicolare una filosofia ben precisa. Se volete una storia, con essa vi verranno date un sacco di dritte morali non richieste – esattamente quello che critico da anni, ormai; se volete conoscere un punto di vista poco condiviso, vi si presenterà un ammasso di opinioni cervellotiche e non giustificate, buttate lì come a dire “Se non sei d’accordo con me neghi l’evidenza”.

Ho ricordato e ripescato un tweet del marzo 2012. Stimatemi.

Per l’occasione ho ripescato un tweet del marzo 2012.

Quindi le opzioni per apprezzare questa lettura sono due: o siete amanti della parte di ornitorinchi che va ai rave o riuscite a ignorare valanghe di ideali non vostri e per nulla entusiasmanti in nome della Curiosità.
Ciò detto, ne sono rimasta abbastanza colpita sotto due punti di vista: il comportamento dei personaggi e, naturalmente, la filosofia che la Rand ha messo loro in bocca.

In questo articolo vi vorrei dare un’idea di due fra i protagonisti e del tipo d’idee che la Rand si sforza di combattere; fra qualche giorno si terrà invece la sanguinosa battaglia tra egoismo/individualismo e altruismo, vero fulcro del romanzo. Spero di non agitarmi troppo, via. 😀

I personaggi

Dominique

«Posso dirle che sono felice di averla rivista?»
«La dispenso.»

Un personaggio spaventoso, almeno prima di convertirsi all’etica di Roark, il protagonista.
Due parole di anticipazione su quest’ultimo. È il classico eroe monolitico, quello che non sbaglia mai né ha un’evoluzione, martoriato da difficoltà di ogni genere, umiliato ma sempre luccicante della sua superiorità morale.
Dominique se ne innamora. La reazione?

Io posso accettare tutto, tranne quello che sembra facile alla maggior parte delle persone: il quasi, il pressapppoco, la via di mezzo. Quando penso a quello che tu [Roark] sei, sento che potrei accettare soltanto un mondo che fosse degno di farti da cornice; ma quel mondo non esiste. E io non posso accettare di vivere una vita divisa tra il mondo che invece esiste e te. Vorrebbe dire combattere contro cose e uomini che non meritano di essere considerati tuoi avversari. Vorrebbe dire mentire, adulare, venire a compromessi, chieder loro di lasciarti vivere, pregarli, invece di ridere di loro.

Due moventi, quindi. Sullo sfondo, la volontà di proteggere Roark da distruzione certa; in primo piano, quella di distruggere il mondo che gli impedisce di eccellere. Però aiutarlo a farsi strada sarebbe un insulto alla sua natura di genio indipendente.
Come diventare schizofrenici a forza di film mentali.

Quando vedo un uomo gettare delle perle senza ottenere in cambio nemmeno una cotoletta di maiale, non è contro il maiale che sento indignazione [ma che diavolo…?]. È contro l’uomo che ha valutato le sue perle tanto poco da buttarle nel letame, permettendo che esse suscitino un assordante concerto di grugniti.

La stessa scrittrice considera sbagliato questo comportamento, ma intanto lo presenta in modo così appetibile che mi ha fatto paura: se fossi stata capace di farmi coinvolgere, a quest’ora avrei la parola “autodistruzione” stampata in fronte.

Dominique con queste motivazioni compie azioni al di là dell’umana concezione, tipo sposare un architetto mediocre di particolare successo, Peter Keating, e rendere valida la seguente analisi:

«Lei non si venderebbe mai per salvare il suo paese, la sua anima o la vita di un uomo che amasse. Ma si venderà per ottenere per Peter Keating una commissione che non merita.»

Stop-Normal-Red-iconSeriamente parlando, questo spiega benissimo perché la filosofia mi inquieta. C’è un mucchio di concetti e modelli etici che a parole sembrano autoevidenti, leciti o giusti, ma che nei fatti non riescono a portare alcun bene.
Per questo penso sia utile viaggiare su due binari: un codice etico serve a capire quello che non va nel mondo e nelle persone (dopodiché scivolare nel cinismo) e uno pratico a ignorare tutte le precedenti conclusioni e andare avanti. In questo modo ci si può permettere di essere pessimisti quanto si vuole – gratificando così il proprio ego per aver capito che gran fregatura sia la vita – e al contempo trovare le forze per migliorarla.

Sul serio, con me funge.

Il che mi fa pensare al parere di un altro personaggio randiano.

«Ami l’eroico nell’uomo, Gail?»
«Amo pensarci. Non ci credo.»

Mi sembra che non ci sia nulla di più eroico che infischiarsi della propria mancanza di fiducia.

In ogni caso, alla fine Roark porta Dominique dalla sua parte e tutto è bene quel che finisce bene.

Roark

Meno interessante della sua aggressiva metà, non ho potuto fare a meno d’immedesimarmi in lui. Me lo aspettavo, visto che applicavo già molti degli ideali della Rand, però mi ha colpita l’idea di un protagonista che non si preoccupa della propria personalità nonostante predichi l’egoismo.
Ovviamente questa scarsa capacità d’introspezione rende necessario che gli altri personaggi lo descrivano come un messia, cosicché la sua possanza non passi inosservata. Per esempio:

«Lei non ha bisogno di nessuno in modo molto personale.»
«No, infatti.»
«E non se ne vanta nemmeno?»
«Dovrei?»
«Forse no. Lei è troppo arrogante per vantarsi.»
«Davvero? Sono così?»
«Lei non sa quello che è?»
«Non lo so. Vuol favorirmi una definizione?»
«Lei è l’uomo più freddo e nello stesso tempo l’uomo più pieno di vita che io abbia incontrato.»

Le frasi a effetto si sprecano. Ma anche con un espediente così meschino la Rand sapeva benissimo come arrivare dritta al mio cuore cervello!

[Roark è] qualcuno che non si può ferire nei sentimenti e di conseguenza non può perdonare.

Dovrò pur entusiasmarmi per qualcosa, ogni tanto.

Per carità, devo ammettere che starebbe antipatico a tutti. Io invece riesco a ricordare una sola cosa per cui mi abbia dato ai nervi: il fatto che snobbi l’architettura classica e si ostini a costruire solo roba moderna.

Hipster?

Non sono di quelli che predicano il rispetto delle tradizioni e l’attaccamento alle radici culturali, anzi, ma ho un parere molto rigido e semplicistico in fatto di estetica.
Allo stesso modo in cui una persona stupida non può sembrarmi graziosa, un edificio pieno di fronzoli, spigoli, spuntoni non è che un pugno nell’occhio. Ogni elemento deve avere un’utilità e solo in funzione di essa ne stabilisco la bellezza.

Il confronto, per essere pratici, è fra questi due edifici:

Il personaggio di Roark si ispira all’architetto Frank Lloyd Wright, creatore del Guggenheim.

L’Anfiteatro Flavio conciliava bellezza e utilità. Molta utilità.

Ma è comunque un parere incompleto, dato che definire il concetto di utilià diventa difficile non appena si parla di edifici privati.

***

Finora ho presentato un personaggio monolitico, Roark, e uno complesso, Dominique. Paradossalmente è quest’ultima a sembrare meno credibile, proprio a causa delle mille sfaccettature che la Rand le attribuisce. Così ne ho ricavato un’opinione ancora traballante.

Stop-Normal-Red-iconSecondo me, nella creazione di un personaggio anche la (troppa) complessità è una semplificazione. Le persone vere di solito non riflettono prima di agire – fanno come capita, o al massimo come conviene loro – e se anche ci pensano l’etica non è il primo criterio di cui tengono conto: è già tanto trovarsi un obiettivo, mi pare. Ma anche considerando la minoranza che segue uno schema, non è possibile ricondurvi ogni azione, parola, pensiero, desiderio. Quindi penso che pretendere una cosa simile da parte di un personaggio letterario non sia altro che una scappatoia per lo scrittore, o volendo una specie di deus ex machina: il superpotere – in questo caso è la Coerenza Assoluta – che fa continuare l’avventura.

Kurosaki Ichigo. A quindici anni ancora era umano, ma poi si è fatto un esame di coscienza e...

Kurosaki Ichigo, amministratore delegato della Deus ex Machina S.p.A.

Il sofisma

Libertà e obbligo sono in antitesi?

Ebbene sì, il cattivo della situazione, Toohey, predica il contrario.
Credo che sia una tesi insostenibile e che la Rand lo sapesse. Ma era necessario un nemico ideologico per Roark, e così si è trovata costretta a forzare un concetto così scemo nel povero Toohey.
A sua volta, però, questo lo rendeva un personaggio poco brillante, indegno del protagonista. La soluzione? “Toohey non pensa davvero quelle brutte cose, sa che ha ragione Roark, ma è un malvagio manipolatore di coscienze assetato di potere!”.
Mapperfavore.

«In sostanza, libertà e obbligo sono una cosa sola. Vi darò un semplice esempio. I semafori limitano la vostra libertà di attraversare la strada quando volete. Ma questa restrizione vi libera dal pericolo di essere travolti da un autocarro. Se veniste assegnati a un dato lavoro e vi fosse proibito di abbandonarlo, questa regola limiterebbe la vostra libertà di movimento, ma vi affrancherebbe dal timore della disoccupazione. Quando mi viene imposto un nuovo obbligo, guadagno automaticamente una nuova libertà. I due valori sono inseparabili, perché solo accettando l’obbligo nella sua forma più assoluta possiamo raggiungere la libertà più completa.»

Alla Rand piace arrampicarsi sugli specchi, visto che contraddirsi in termini (libertà ≠ obbligo) non è una buona strategia per convincere chicchessia. Facciamole compagnia per qualche riga.

Questa cosa del limitare la propria libertà personale per ottenerne una maggiore, cioè di rinunciare ad alcuni diritti, è centrale nella filosofia politica anglosassone. La triade inglese Hobbes-Locke-Hume nel Seicento ha chiesto all’Europa quale fosse il motivo che spinse gli uomini ad associarsi. Pare che alla fine l’abbia spuntata la paura della morte, vuoi perché i nostri ideali progenitori vivevano in stato di guerra perenne, vuoi perché dovevano costantemente temerla.
Dunque è la paura ad aver creato e a tenere unita la gens humana, spingendo a privarci di alcuni diritti per conferirli a un capo che ci difenda adeguatamente. Pian piano i “criminali” hanno perso il diritto di proprietà – lo Stato non può forse toglierci la casa, se non paghiamo le tasse? –, la libertà personale – vedi le prigioni – e a volte alla vita.

Si direbbe che viviamo nel sofisma di partenza, a questo punto. Se pensiamo che ci convenga sacrificare tutto ciò in cambio di una certa sicurezza, allora è proprio vero che la libertà coincide con l’obbligo e il diritto col dovere!

***

Sdrammatizziamo, ché La fonte meravigliosa è anche un libro da (de)ridere.

[Roark] Stava sorridente di fronte a una folla ostile come il martire che nell’arena si prepara a lottare contro le belve con la sola forza del suo sguardo e con la santità del suo cuore. E quelli che lo guardavano compresero che nessun odio gli era possibile e che essi non potevano odiarlo. Per alcuni istanti, ognuno riuscì ad intendere il perché di quella serenità e ognuno si chiese: «Ho bisogno dell’approvazione degli altri? E l’opinione degli altri ha importanza?» e per alcuni istanti in quell’aula ognuno si sentì libero abbastanza da provare benevolenza e comprensione per ogni altro uomo che gli stava vicino.

Il Signor Roark dopo un sonnellino.

“Che cosa stai aspettando? Che la quaglia fritta ti caschi in bocca?”

Quaglie diem, come prima.

Catone il Censore ci ha lasciato diverse ricette a base sia di quaglie che di carpe.

“Vorrei che lei fosse ammalato, così io potrei imboccarla e sapere che ha veramente bisogno del cibo offerto da me.”

“Non è come sembra!”

A fra qualche giorno per la seconda parte delle Idee sulla Fonte meravigliosa. Sarà un articolo pieno di idee non scientificamente verificabili, astratte, contorte e traballanti, proprio il mio genere!

Idee su “Sotto un sole nero”, di Ivano Mingotti

Sono tornata! E ho con me una recensione!

La vita non è facile. No, signori.

— Ivano Mingotti in Sotto un sole nero

Sotto un sole nero mi è stato inviato gratuitamente dall’autore dietro richiesta di commento, quindi questa potrebbe tranquillamente essere definita una recensione prezzolata: prego dubitare del mio parere, che già di solito non è oggettivo.

L’idea

Prendiamo il Ventennio Fascista, trasformiamo il Duce in Ductor (ché dux suona troppo scontato), ficchiamoci il sole nero per colpire gli allocchi, chiamiamo Hinkfuss il Malvagio Professore che l’ha causato, ché i tedeschi sono sempre antipatici, aggiungiamo l’invasione aliena alle ultime dieci pagine, raccontiamo le sofferenze della gente comune, mescoliamo, pepiamo et voilà! Un romanzo futuristico, fantascientifico, distopico, moderatamente depresso (ehm, a tinte fosche, mi pare si dica…), socialmente impegnato, à la Orwell!

Vediamo, che personaggi prendere? Allora, sì, l’omosessuale discriminato ci vuole, di questi tempi. Poi la vecchia che le ammazzano un figlio e l’altro le diventa soldato del regime. Poi il padre dalle spalle larghe che deve salvare la figlioletta imprigionata non diciamo perché. Poi il soldato che vuole uscire dalla spirale di violenza in cui è entrato. Poi il bambino che vede i soldati seviziare la madre. Poi il pazzo pluriomicida — oh mamma, mi congratulo per averci pensato, è troppo figo! Poi…

Ah già, a cosa serve il sole nero? Facciamo che l’oscuramento l’ha architettato il regime per fermare il surriscaldamento globale, così ci mettiamo anche un po’ di ecologia senza complicarci troppo la vita. E gli alieni? Allora alla fine loro riescono a far tornare azzurro il cielo e ci invadono e ammazzano tutti i cattivi! A posto!

… Vi dispiace se la chiudo qui e passo allo stile? Parlarne fa male al cuore che non ho.

Di trame sciatte o inesistenti nobilitate da un buono stile ce ne sono abbastanza da far sperare anche per Mingotti, quindi cerchiamo di capire se si salva qualcosa.

***

La prima impressione

In un presente alternativo, un governo totalitario sembra gestire la vita dell’intera popolazione umana. I “cittadini” vivono in un regime di terrore e di ferree regole dettate dal Ductor. Apparentemente salvatore della specie, dopo il disastro ecologico, il Ductor “protegge” il popolo sotto un sole nero, nel silenzio e nell’alienazione in cui sono ridotti, sotto un regime che marcia per le strade “Per la pace. Per la quiete. Per il sangue dei nemici”. Ma un’ulteriore minaccia da parte di invasori esterni sembra minare questo equilibrio. Nove vite si intrecciano, ci raccontano e ci conducono verso un epilogo inaspettato.

Il governo sembra gestire la vita di tutti; i cittadini sono tali solo tra virgolette; il regime marcia per le strade — sembra il titolo di un articolo di giornale: “Il regime marcia per le strade, la morale lo fischia dal solaio”; il predicato “sono ridotti”, al plurale, si riferisce al popolo, singolare; il fatto che si parli di invasori rende superfluo l’attributo “esterni” — e siamo in un riassunto. Che però dello stile di Mingotti non dice niente. D’altro canto, la dedica ci mette subito sulla retta via:

Dedico questo libro a Lory, senza la cui frase assolutamente fuori contesto questo libro non sarebbe mai nato.

Per la serie “scritte e non rilette”.

***

Alla prima pagina invece ho tirato un sospiro di sollievo: niente wall of text, niente descrizioni, organizzazione capillare per capitoli e sottocapitoli, cosicché mi sarei potuta fermare in qualunque momento senza perdere il filo del discorso. Il libro perfetto per me, insomma. Poi ho notato che quasi nessun periodo superava la riga di lunghezza e ho iniziato a temere.

Erano tutte frasi a effetto.

Be’, ovviamente non proprio tutte. A volte semplicemente non c’era un vero motivo per andare a capo. In proposito godetevi questo brano, tratto dal capitolo Credo:

MARCIAMO

Marciamo. Sotto i colpi del cannone, come ogni mattina. Marciamo. Mentre tutti ci guardano, tutti ci osservano. Marciamo.

E fin qui ricorda 300. Epico. Ma poi la situazione sfugge di mano:

Marciamo per loro.
Per fargli capire che ci siamo. Che ci saremo quando sbaglieranno. Che ci saremo quando non lo faranno. Marciamo.
Come ogni mattina, una gamba dietro l’altra, marciamo.
In perfetta simmetria, come un blocco unico. Marciamo.
Voltando la testa nella stessa direzione, tutti quanti. Senza guardare niente e nessuno. Marciamo.
Come se niente ci meritasse. Come nessuno fosse degno di noi. Marciamo.
Noi che siamo superiori, noi che abbiamo il fucile, marciamo.
Tra la gente del paese, e poi della città. Portando al mondo le nostre uniformi, le nostre grida. Le palle dei nostri cannoni. Marciamo.
Per fargli capire che quando non vorranno, ci saremo.
Che devono essere obbedienti.
Che il dovere, il dovere è tutto quello che conta.
Marciamo.
Sotto il nostro sole nero, mentre le nostre scarpe pesanti sbattono sul cemento. Marciamo.
Come timbri di grossi tamburi, scandiscono il tempo. Sbatto le suole. Marciamo.
Avanti, avanti. Gridiamo. Per fare paura ai nemici dell’ordine. Per fare paura ai nemici del nostro ordine. Marciamo.
Senza chiederci perché, senza domandarci se sia giusto.
Perché è quello che ci chiedono, perché è il nostro dovere. E il dovere è tutto.
Impugno il mio fucile, lo tengo stretto al petto.
Marciamo. Avanti marciamo.
Fino alla base, fino ai prossimi ordini.
Come tutti i giorni.
Per la pace. Per la quiete.
Per il sangue dei nemici.
Marciamo. Con le nostre bandiere, i nostri vessilli, le nostre uniformi, i nostri canti.
Le nostre urla.
Marciamo.
Avanti, marciamo.

  1. Se fosse un film andrebbe bene: voglio presentare il prossimo narratore, un soldato, lo mostro nei ranghi per cinque secondi. Ma qui è solo una scena banale raccontata in modo logorroico.
  2. A proposito di logorrea, questo modo di scrivere è più ansioso che ansiogeno. Ripetere ogni singolo concetto non crea suspense.
  3. Incongruenza. Se i soldati non si chiedono perché fanno quel che fanno, non possono nemmeno rispondere “Perché è quello che ci chiedono”.
  4. Una gamba dietro l’altra? Davvero non c’era un modo migliore per dirlo (tipo non dirlo per niente, supponendo che il lettore sappia camminare)?

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Tranquilli, posso far di peggio. Sarò scientifica e catalogherò.

Aliti di immortalità (aka Frasi altisonanti)

Nuvole oscure, neri presagi di morte e tirannia.

Allibis, la situazione era critica anche prima t’impossessassi del corpo di Mingotti. (Guardate, ho scritto una parola con sei esse! E lo rivendico con orgoglio! (cit.))

Guardo un sole nero che si lascia guardare. La perenne eclissi di una stella che non brilla per noi.

Sarà timido o fa il prezioso?

Repetita iuvant

Mio padre alza lo sguardo. Mi fissa. Mi fissa duramente.
Solo un’altra volta l’ho visto fissarmi così. Solo un’altra volta. [Poi descrive quale fu quella volta, va a capo e…]
Solo quella volta.
E ora, ora mi guarda con lo stesso sguardo.
Con lo sguardo terrorizzato e tetro del regime. Con lo sguardo di chi mi imputa una colpa. Di chi mi imputa, per questa colpa, di mettere in gioco la quiete di tutta la famiglia.
Si sono portati via già mamma, mi ricorda con gli occhi.
Si sono portati via già mamma, per un’inezia.
Per quello che sono, per quello che provo verso il mio stesso corpo, il mio stesso genere, potrebbero portare via tutti noi.
Per colpa del loro silenzio. Per colpa della loro omertà.
Mi guarda duramente. Mi fissa, senza dire una parola.

Miseriaccia, sono solo un paio d’occhi!

WTF?

Siamo a pagina 3. Questo dovrebbe essere, insieme agli alieni, il pretesto per poter mettere il romanzo sullo scaffale della fantascienza:

Hanno pensato bene di spegnere la luce, una volta per tutte. Proprio loro, che grazie alle loro discariche, alle loro nubi radioattive, ai loro esperimenti e ai loro sprechi avevano acceso il forno.
Ora non rimane che un fuocherello a gas.
Nient’altro.
Una scatola nera ben chiusa.
Ero piccolo, quando tutto è successo. Troppo piccolo per ricordarmi. Troppo piccolo per sapere del professor Hinkfuss e della sua geniale idea di schermare i raggi solari. Chiuderli, con un sistema tecnologico avanzatissimo. Avanzato quanto tetro.
Della tecnologia non abbiamo mai saputo niente. Nulla di nulla.
Abbiamo solo patito le conseguenze. Il freddo perenne. Il calore artificiale, la luce dei lampioni a gas.
Chiusi in una bolla di cemento e ferro.

Del tipo? Vuoi davvero lasciarmi a immaginare una calotta che si regge su pilastri grandi come la Polonia?

Eudosso fu il primo a pensare che le stelle, fisse e mobili, fossero incastonate in tante calotte, anch’esse in movimento o meno. Lui ne ipotizzò 27, Aristotele 55, e i medievali apprezzarono.

E, come dice il saggio, prima di uscire spegni le porte e chiudi i raggi solari.

Un silenzio spettrale, solo il suono delle fiamme che bruciano.
Solo le fiamme.
E altre piccole esplosioni, altri scoppi.

Sì, questa è proprio la definizione di silenzio.

Ho la vista annebbiata, e l’udito non lo è di meno. E non comprendo niente, niente.
La stanchezza mi tiene la mente chiusa, sono concentrato sul dolore. Su nient’altro.
E le urla diventano molte, diventano moltissime.
Un mare di grida.

L’udito annebbiato! La mente chiusa! I mari di grida! Deh, qual poesia!

Solo la voce silenziosa.

Bis! Biiis!

Silenzio e cinguettii.

Triiis!

Nessun rumore, neppure il borbottio più sottile. Né un motore, né una voce, né un brusio qualsiasi.

Quadris! (No che non esiste.)

Buio, notte e silenzio. Cinguettio d’uccelli.

Quin… ehm, magari un’altra volta.

Zitte e in silenzio.

Scusate, mi è scappato.

Tirano la mia carne, ora li vedo, tirano la mia carne.

L’ho già usato il deh? PUAHAHAHAHAHAH.

Buio di un nero tetro.

Qui, i miei occhi sono inutili.
Sono fari nelle cianfrusaglie di un rottamaio, sono candele senza miccia.

Buio, respiro e sudore… buio, sudore e respiro.

Senza contare la scena da Oscar in cui il protagonista ci descrive accuratamente la sua cella e medita sul tempo che vi ha passato prima di accorgersi di avere le costole spezzate.
Poi la fuga:

Danzando come un ballerino su cocci di vetro, ferraglia, cemento.

La nota che ho preso mentre leggevo recita “No ciccio, hai le costole e una gamba rotte, col cavolo che sembri un ballerino”.

Brutale e bollente, brillante.

Guess what? Sono tutti attributi del cielo. E per questa volta mi rifiuto di ripetere del cielo!

Un altro pelle bianca, che veloce si accorge di me e veloce mi segue con lo sguardo.

Se fanno le Olimpiadi di lest’occhiata voglio partecipare, ho il fisico adatto.

Non manca lo splatter:

Stringo la mano tra le costole, annaspo. [Avrebbe dovuto perdere i sensi sul colpo, con la sua maschia resistenza…]

e

I miei occhi corrono, danzano intorno a me.

Rinfoderi i bulbi e non se li faccia più scappare, signorino.

Frasi contorte che manco le mie

[Il protagonista si chiede se suo padre e sua sorella denuncerebbero la sua omosessualità per non subire le ritorsioni del regime.] Non posso pensare che rischierebbero di mettere loro stessi in pericolo pur di avere la sicurezza di esser salvi.

E pavimenti illuminati lievemente da luci appese agli angoli tra soffitto e mura.

Sono vicino alla strada che subentra da sinistra, vicino. Vicinissimo.
E sto per prenderla, senza pensarci, senza rifletterci.

Che viscide queste strade, ti subentrano intorno senza proferir parola…

L’italiese

Pagina 3:

gambe rette e lunghe.

Perché se ne vedono, in giro, di gambe empie.

Pagina 4:

esiste solo il lavoro e il quieto vivere.

e

Sono decenni che non si è levata nessuna protesta.

Se la consecutio temporum stesse solo nell’abbinare un tempo semplice col corrispondente tempo composto, il latino sarebbe più facile dell’inglese.
Ah, ovviamente il brano proseguiva con un a capo e Decenni.

Pagina 10:

Divise e marce e pareti che scorrono [il protagonista, tutto rotto, sta venendo trascinato in giro.]

Pagina 14:

[…] corpi che mi strisciano ai piedi. Dilaniati, distrutti. Macellati.

Vieni con me, caro, ti faccio vedere io come non si muove la gente macellata a modo.

Pagina 21:

Dove ci aspetta l’autobus per chi è più fortunato, i piedi per chi non lo è.

Hanno i piedi smontabili come le Bratz!

Conclusioni

Per questa recensione sono stati sufficienti gli appunti sulle prime trenta pagine. Il romanzo è tre volte e mezza più lungo, ma non continuerei a citarlo nemmeno per provarvi che l’ho letto tutto. (Anche perché l’ho lasciato in PDF e il mio povero Kindle ci mette anni a girar pagina.)
Mingotti è un tipo originale: scrive di nove persone diverse, in cento pagine, con frasi brevissime e riesce lo stesso a dimostrarsi logorroico. Dovrebbe darsi al fantasy.

Questo è il primo libro che mi sia capitato ad avere un pezzo di narrazione prima del Prologo, contraddicendo l’etimo stesso della parola.

Molto artistico. Trasgressivo, quasi.

Molto artistico. Trasgressivo, quasi.

Voglio provarci.
Sì.
Anch’io. Io.
Voglio provarci.
A scrivere così.
Voglio tentare.
Tentar non nuoce.
Chiedere è metà dell’avere.
L’avere, già, l’avere. Basta chiedere. Null’altro.