Idee da “La fonte meravigliosa”, di Ayn Rand – Parte 2

Gail Wynand, seduto al suo scrittoio in ufficio, leggeva le bozze di un articolo sul valore morale di avere delle famiglie numerose. Quelle frasi convenzionali e ampollose gli sembrava avessero il sapore della gomma da masticare masticata e rimasticata e ruminata e maciullata e sputata fuori e raccolta di nuovo, passata da bocca a selciato di marciapiede, da selciato a bocca, a suole di scarpe e a denti, di nuovo.

***

Nella prima puntata abbiamo sbirciato la personalità dei due eroi randiani e le loro convinzioni personali. Oggi vediamo degli ideali di portata più ampia.

Il romanzo insiste molto sulla distinzione fra creatori e parassiti.
I creatori sono le persone dotate di genio ed estro che portano l’innovazione e il progresso. Sono caratterizzati da un forte individualismo, che li spinge ad avere occhi solo per sé e la propria arte.
Nelle parole di Roark:

Agli uomini è stato insegnato che è una virtù andar d’accordo con gli altri. Ma il creatore è l’uomo che non va d’accordo. Agli uomini è stato insegnato che è una virtù nuotare con la corrente. Ma il creatore è l’uomo che va contro corrente. Agli uomini è stato insegnato che è una virtù saper stare insieme. Ma il creatore è l’uomo che sta solo. Agli uomini è stato insegnato che l’io è sinonimo di male, e l’altruismo il sinonimo della virtù. Ma il creatore è l’egoista nel senso assoluto e l’altruista è colui che non pensa, non crede, non giudica e non agisce.

Il problema qui è prima di tutto linguistico, quindi lavoriamo di vocabolario.

L’altruismo è “viva inclinazione e amore verso il prossimo, che concretamente si traduce nel dare disinteressatamente il proprio aiuto morale e materiale alla risoluzione di problemi, difficoltà, necessità altrui”.
L’egoismo è “atteggiamento che implica la subordinazione dell’altrui volontà e degli altrui valori alla propria personalità; nel linguaggio comune, amore eccessivo ed esclusivo di se stesso o valutazione esagerata delle proprie prerogative che porta alla ricerca permanente del proprio vantaggio, alla subordinazione delle altrui esigenze alle proprie e alla esclusione del prossimo dal godimento dei beni posseduti”.

Tralasciando il fatto che mi pare impossibile dare senza aspettarsi nulla in cambio, è evidente nella seconda definizione la disparità fra il significato proprio e quello comune.

È da stupidaggini come questa che nascono religioni e correnti di pensiero come l’Oggettivismo, cioè la filosofia di Ayn Rand: basta usare le parole in accezioni che non hanno.
Se il concetto di egoismo, di per sé neutro, non avesse avuto un senso negativo, non sarebbe stato necessario cercare di rivalutarlo in senso positivo, stravolgendolo ulteriormente. Allo stesso modo, è stato il cattivo uso delle parole nel linguaggio comune a permettere alla Rand di forzare nel concetto di altruismo un senso di sacrificio e abnegazione ingiustificato.

Sono fissata su queste cose, scusate.

Ciò chiarito, possiamo stare al gioco. È meglio farsi martirizzare dalla società o mettere in secondo piano le proprie convinzioni per amor di quieto vivere?
Da un punto di vista pratico, si tratta solo di calcolare quanto tempo resisteremmo scegliendo una delle due alternative. È molto nobile sia fare la guardia al proprio onore che lasciar vivere in pace chi ci circonda, ma se non riusciamo ad andare fino in fondo non ha senso. Anche se non è possibile passare un’intera esistenza a testa alta (o bassa), penso sia sufficiente uscirne senza troppi fallimenti.

Io finora mi sono potuta permettere di sfidare tutti e uscirne viva, ma è stato un caso. Prima o poi arriva la fatidica mazzata che ti riporta coi piedi per terra.
È così evidente che mi sto preparando psicologicamente all’università? D:

Eppure un mese fa ero ancora a questo stadio.
Eppure un mese fa ero ancora a questo stadio.

Continuando sulla scorta della dicotomia egoismo-altruismo, la Rand dice un paio di cose che mi piacciono.

Fare di un gesto di carità la più alta prova della virtù significa fare della sofferenza la parte più importante della vita. L’uomo deve desiderare di veder gli altri soffrire, per poter meglio essere virtuoso? Tale è la natura dell’altruismo.

Corollario,

l’altruismo è diventato una forma di egoismo così totale, così assoluto, così dannoso che un uomo veramente egoista non riesce a concepirlo.

A questo proposito ho una storiella fresca fresca che mi pare confermarlo.
Attualmente sto seguendo qualche lezione sulla gestione pacifica dei conflitti. È allucinante, ne riparlerò. In sostanza dovrei credere che, quando abbiamo un problema di natura emotiva con un conoscente, bisogna assolutamente dirgli i sentimenti che ci turbano, perché così ci alleggeriamo di un peso che altrimenti andrebbe ingigantendosi col tempo.
Quindi immaginatevi la scena. Un amico vi fa uno sgarbo, poi un altro e un altro ancora. Voi accumulate nervosismo, rabbia, quello che è. A un certo punto non ne potete più, gli telefonate e gli dite: “Guarda che quando ti comporti così io ne soffro proprio”.

"Tessoro! Con un bacino la bua passa subito!"

“Tessoro! Con un bacino la bua passa subito!”

Il fatto è che un individualista, cioè l’egoista randiano, valuta la possibilità che al prossimo non interessino i suoi sentimenti come a lui stesso non interessano quelli degli altri. Come se potessero fargli del bene! Nella maggior parte dei casi serve solo a estendere il disagio e indebolire i legami. Empatia percepita come egoismo.
Invece la persona diretta, convinta che dire sempre le cose come stanno significhi eliminare le incomprensioni, agisce davvero da egoista. Eppure sembra che sia questa la vera onestà.

Io penso proprio che serva solo a darsi una pacca sulla spalla da soli.

"Ma quanto sono furbo." *pat pat*

“Ma quanto sono furbo.” *pat pat*

Specifico che questo è ciò che credo, ma che non sempre faccio. In realtà sono la prima a non pensare a ciò che prova chi mi ascolta… e a essere etichettata come persona onesta. Non è così che s’inquadrano le persone. ^_^

Okay, passiamo alle cose serie, quelle che non mi fanno dormire la notte.

La questione su cui mi sono dovuta scervellare di più viene da una battuta del cattivo del romanzo, Ellsworth Toohey:

Bisogna stabilire dei tipi di successo accessibili a tutti, ai più insignificanti, ai più inetti e ostacolare l’impeto verso il miglioramento, la perfezione, il sublime.

Lasciate perdere tutto dalla prima virgola in poi, la prevedibile frecciata a comunismo e socialismo.
Il primo pezzo mi pare sensato: non sarebbe giusto dare a tutti la possibilità di realizzare i propri sogni? Anzi, essere felici non è proprio un diritto?

A rispondere di no è la meritocrazia. Se i migliori devono aprirsi la strada, lo faranno per forza camminando sulle teste dei mediocri.
Però è anche vero che la società progredisce solo se i migliori hanno i mezzi per eccellere, al diavolo gli altri. Anche se quell'”al diavolo gli altri” significa miliardi di vite sprecate, o comunque insoddisfacenti.

Quindi ecco il problema: il bene comune – mi si accappona la pelle solo a scriverlo – si fa permettendo a tutti di trovare la felicità o mandando avanti chi è in grado di fare sia la propria che, indirettamente, quella degli altri, pur rendendo infelice un buon numero di persone?

L’esempio più ovvio è quello del ricercatore scientifico o del medico e, parzialmente, dello scrittore.
Ognuna di queste professioni è orientata a far stare bene una comunità, fisicamente o intellettualmente; in ognuna più sali di grado e più gente aiuti, ma sminuisci anche quelli con cui competi.

Il danno arrecato ai mediocri sembra irrilevante, e in effetti il lato meno meschino del vivere in una nazione moribonda è che chi fallisce non viene emarginato.

djvberhigbi
Anzi, se siete maschi e possibilmente sotto i trenta, essere un caso perso vi rende affascinanti: approfittatene per farvi tatuaggi e piercing vari, finché il modello asiatico non vi fa rigare dritto.

Mi chiedo cosa succederebbe se l’ansia di primeggiare si diffondesse anche qui. Persino la crisi sta dando una mano, in questo senso, coi tagli all’istruzione e al lavoro.
In queste condizioni solo i migliori e i peggiori vengono (più o meno) aiutati; e chi sta in mezzo? I comuni mortali che non hanno né handicap né talenti mostruosi e che vorrebbero solo starsene in pace? Sayonara, felicità!

***

Bene. Prima di lasciarvi andare, vi propongo l’idea che mi ha colpita di più.

Se io fossi stato duramente colpito da un uomo, credo che non potrei perdonare. Ma penso che nessun uomo possa veramente percuotere un altro, né colpirlo, né aiutarlo.

Lo ammetto, non mi era mai capitato che uno scrittore toccasse un mio tasto dolente! È stato bello leggere di qualcuno distaccato quanto me.
Immagino che i pensieri retard debbano venire, prima o poi. Spero.

Pubblicità

Idee da “La fonte meravigliosa”, di Ayn Rand – Parte 1

Per qualunque colpa ci può essere un’attenuante, chiunque può meritare il perdono. Ma non ci può essere indulgenza per coloro che mancano del coraggio della propria grandezza. […] Per me, non c’è perdono. Io non ero nato per essere uno schiavo.

Citando Gamberetta, The fountainhead (1943) è un documentario sugli ornitorinchi per soli appassionati di ornitorinchi. E anche se siete fan dei misteriosi mammiferi ovipari, questo libro vi costringerà a guardarli sfilare e andare a un rave.
Ossia: questo è un romanzo scritto solo per veicolare una filosofia ben precisa. Se volete una storia, con essa vi verranno date un sacco di dritte morali non richieste – esattamente quello che critico da anni, ormai; se volete conoscere un punto di vista poco condiviso, vi si presenterà un ammasso di opinioni cervellotiche e non giustificate, buttate lì come a dire “Se non sei d’accordo con me neghi l’evidenza”.

Ho ricordato e ripescato un tweet del marzo 2012. Stimatemi.

Per l’occasione ho ripescato un tweet del marzo 2012.

Quindi le opzioni per apprezzare questa lettura sono due: o siete amanti della parte di ornitorinchi che va ai rave o riuscite a ignorare valanghe di ideali non vostri e per nulla entusiasmanti in nome della Curiosità.
Ciò detto, ne sono rimasta abbastanza colpita sotto due punti di vista: il comportamento dei personaggi e, naturalmente, la filosofia che la Rand ha messo loro in bocca.

In questo articolo vi vorrei dare un’idea di due fra i protagonisti e del tipo d’idee che la Rand si sforza di combattere; fra qualche giorno si terrà invece la sanguinosa battaglia tra egoismo/individualismo e altruismo, vero fulcro del romanzo. Spero di non agitarmi troppo, via. 😀

I personaggi

Dominique

«Posso dirle che sono felice di averla rivista?»
«La dispenso.»

Un personaggio spaventoso, almeno prima di convertirsi all’etica di Roark, il protagonista.
Due parole di anticipazione su quest’ultimo. È il classico eroe monolitico, quello che non sbaglia mai né ha un’evoluzione, martoriato da difficoltà di ogni genere, umiliato ma sempre luccicante della sua superiorità morale.
Dominique se ne innamora. La reazione?

Io posso accettare tutto, tranne quello che sembra facile alla maggior parte delle persone: il quasi, il pressapppoco, la via di mezzo. Quando penso a quello che tu [Roark] sei, sento che potrei accettare soltanto un mondo che fosse degno di farti da cornice; ma quel mondo non esiste. E io non posso accettare di vivere una vita divisa tra il mondo che invece esiste e te. Vorrebbe dire combattere contro cose e uomini che non meritano di essere considerati tuoi avversari. Vorrebbe dire mentire, adulare, venire a compromessi, chieder loro di lasciarti vivere, pregarli, invece di ridere di loro.

Due moventi, quindi. Sullo sfondo, la volontà di proteggere Roark da distruzione certa; in primo piano, quella di distruggere il mondo che gli impedisce di eccellere. Però aiutarlo a farsi strada sarebbe un insulto alla sua natura di genio indipendente.
Come diventare schizofrenici a forza di film mentali.

Quando vedo un uomo gettare delle perle senza ottenere in cambio nemmeno una cotoletta di maiale, non è contro il maiale che sento indignazione [ma che diavolo…?]. È contro l’uomo che ha valutato le sue perle tanto poco da buttarle nel letame, permettendo che esse suscitino un assordante concerto di grugniti.

La stessa scrittrice considera sbagliato questo comportamento, ma intanto lo presenta in modo così appetibile che mi ha fatto paura: se fossi stata capace di farmi coinvolgere, a quest’ora avrei la parola “autodistruzione” stampata in fronte.

Dominique con queste motivazioni compie azioni al di là dell’umana concezione, tipo sposare un architetto mediocre di particolare successo, Peter Keating, e rendere valida la seguente analisi:

«Lei non si venderebbe mai per salvare il suo paese, la sua anima o la vita di un uomo che amasse. Ma si venderà per ottenere per Peter Keating una commissione che non merita.»

Stop-Normal-Red-iconSeriamente parlando, questo spiega benissimo perché la filosofia mi inquieta. C’è un mucchio di concetti e modelli etici che a parole sembrano autoevidenti, leciti o giusti, ma che nei fatti non riescono a portare alcun bene.
Per questo penso sia utile viaggiare su due binari: un codice etico serve a capire quello che non va nel mondo e nelle persone (dopodiché scivolare nel cinismo) e uno pratico a ignorare tutte le precedenti conclusioni e andare avanti. In questo modo ci si può permettere di essere pessimisti quanto si vuole – gratificando così il proprio ego per aver capito che gran fregatura sia la vita – e al contempo trovare le forze per migliorarla.

Sul serio, con me funge.

Il che mi fa pensare al parere di un altro personaggio randiano.

«Ami l’eroico nell’uomo, Gail?»
«Amo pensarci. Non ci credo.»

Mi sembra che non ci sia nulla di più eroico che infischiarsi della propria mancanza di fiducia.

In ogni caso, alla fine Roark porta Dominique dalla sua parte e tutto è bene quel che finisce bene.

Roark

Meno interessante della sua aggressiva metà, non ho potuto fare a meno d’immedesimarmi in lui. Me lo aspettavo, visto che applicavo già molti degli ideali della Rand, però mi ha colpita l’idea di un protagonista che non si preoccupa della propria personalità nonostante predichi l’egoismo.
Ovviamente questa scarsa capacità d’introspezione rende necessario che gli altri personaggi lo descrivano come un messia, cosicché la sua possanza non passi inosservata. Per esempio:

«Lei non ha bisogno di nessuno in modo molto personale.»
«No, infatti.»
«E non se ne vanta nemmeno?»
«Dovrei?»
«Forse no. Lei è troppo arrogante per vantarsi.»
«Davvero? Sono così?»
«Lei non sa quello che è?»
«Non lo so. Vuol favorirmi una definizione?»
«Lei è l’uomo più freddo e nello stesso tempo l’uomo più pieno di vita che io abbia incontrato.»

Le frasi a effetto si sprecano. Ma anche con un espediente così meschino la Rand sapeva benissimo come arrivare dritta al mio cuore cervello!

[Roark è] qualcuno che non si può ferire nei sentimenti e di conseguenza non può perdonare.

Dovrò pur entusiasmarmi per qualcosa, ogni tanto.

Per carità, devo ammettere che starebbe antipatico a tutti. Io invece riesco a ricordare una sola cosa per cui mi abbia dato ai nervi: il fatto che snobbi l’architettura classica e si ostini a costruire solo roba moderna.

Hipster?

Non sono di quelli che predicano il rispetto delle tradizioni e l’attaccamento alle radici culturali, anzi, ma ho un parere molto rigido e semplicistico in fatto di estetica.
Allo stesso modo in cui una persona stupida non può sembrarmi graziosa, un edificio pieno di fronzoli, spigoli, spuntoni non è che un pugno nell’occhio. Ogni elemento deve avere un’utilità e solo in funzione di essa ne stabilisco la bellezza.

Il confronto, per essere pratici, è fra questi due edifici:

Il personaggio di Roark si ispira all’architetto Frank Lloyd Wright, creatore del Guggenheim.

L’Anfiteatro Flavio conciliava bellezza e utilità. Molta utilità.

Ma è comunque un parere incompleto, dato che definire il concetto di utilià diventa difficile non appena si parla di edifici privati.

***

Finora ho presentato un personaggio monolitico, Roark, e uno complesso, Dominique. Paradossalmente è quest’ultima a sembrare meno credibile, proprio a causa delle mille sfaccettature che la Rand le attribuisce. Così ne ho ricavato un’opinione ancora traballante.

Stop-Normal-Red-iconSecondo me, nella creazione di un personaggio anche la (troppa) complessità è una semplificazione. Le persone vere di solito non riflettono prima di agire – fanno come capita, o al massimo come conviene loro – e se anche ci pensano l’etica non è il primo criterio di cui tengono conto: è già tanto trovarsi un obiettivo, mi pare. Ma anche considerando la minoranza che segue uno schema, non è possibile ricondurvi ogni azione, parola, pensiero, desiderio. Quindi penso che pretendere una cosa simile da parte di un personaggio letterario non sia altro che una scappatoia per lo scrittore, o volendo una specie di deus ex machina: il superpotere – in questo caso è la Coerenza Assoluta – che fa continuare l’avventura.

Kurosaki Ichigo. A quindici anni ancora era umano, ma poi si è fatto un esame di coscienza e...

Kurosaki Ichigo, amministratore delegato della Deus ex Machina S.p.A.

Il sofisma

Libertà e obbligo sono in antitesi?

Ebbene sì, il cattivo della situazione, Toohey, predica il contrario.
Credo che sia una tesi insostenibile e che la Rand lo sapesse. Ma era necessario un nemico ideologico per Roark, e così si è trovata costretta a forzare un concetto così scemo nel povero Toohey.
A sua volta, però, questo lo rendeva un personaggio poco brillante, indegno del protagonista. La soluzione? “Toohey non pensa davvero quelle brutte cose, sa che ha ragione Roark, ma è un malvagio manipolatore di coscienze assetato di potere!”.
Mapperfavore.

«In sostanza, libertà e obbligo sono una cosa sola. Vi darò un semplice esempio. I semafori limitano la vostra libertà di attraversare la strada quando volete. Ma questa restrizione vi libera dal pericolo di essere travolti da un autocarro. Se veniste assegnati a un dato lavoro e vi fosse proibito di abbandonarlo, questa regola limiterebbe la vostra libertà di movimento, ma vi affrancherebbe dal timore della disoccupazione. Quando mi viene imposto un nuovo obbligo, guadagno automaticamente una nuova libertà. I due valori sono inseparabili, perché solo accettando l’obbligo nella sua forma più assoluta possiamo raggiungere la libertà più completa.»

Alla Rand piace arrampicarsi sugli specchi, visto che contraddirsi in termini (libertà ≠ obbligo) non è una buona strategia per convincere chicchessia. Facciamole compagnia per qualche riga.

Questa cosa del limitare la propria libertà personale per ottenerne una maggiore, cioè di rinunciare ad alcuni diritti, è centrale nella filosofia politica anglosassone. La triade inglese Hobbes-Locke-Hume nel Seicento ha chiesto all’Europa quale fosse il motivo che spinse gli uomini ad associarsi. Pare che alla fine l’abbia spuntata la paura della morte, vuoi perché i nostri ideali progenitori vivevano in stato di guerra perenne, vuoi perché dovevano costantemente temerla.
Dunque è la paura ad aver creato e a tenere unita la gens humana, spingendo a privarci di alcuni diritti per conferirli a un capo che ci difenda adeguatamente. Pian piano i “criminali” hanno perso il diritto di proprietà – lo Stato non può forse toglierci la casa, se non paghiamo le tasse? –, la libertà personale – vedi le prigioni – e a volte alla vita.

Si direbbe che viviamo nel sofisma di partenza, a questo punto. Se pensiamo che ci convenga sacrificare tutto ciò in cambio di una certa sicurezza, allora è proprio vero che la libertà coincide con l’obbligo e il diritto col dovere!

***

Sdrammatizziamo, ché La fonte meravigliosa è anche un libro da (de)ridere.

[Roark] Stava sorridente di fronte a una folla ostile come il martire che nell’arena si prepara a lottare contro le belve con la sola forza del suo sguardo e con la santità del suo cuore. E quelli che lo guardavano compresero che nessun odio gli era possibile e che essi non potevano odiarlo. Per alcuni istanti, ognuno riuscì ad intendere il perché di quella serenità e ognuno si chiese: «Ho bisogno dell’approvazione degli altri? E l’opinione degli altri ha importanza?» e per alcuni istanti in quell’aula ognuno si sentì libero abbastanza da provare benevolenza e comprensione per ogni altro uomo che gli stava vicino.

Il Signor Roark dopo un sonnellino.

“Che cosa stai aspettando? Che la quaglia fritta ti caschi in bocca?”

Quaglie diem, come prima.

Catone il Censore ci ha lasciato diverse ricette a base sia di quaglie che di carpe.

“Vorrei che lei fosse ammalato, così io potrei imboccarla e sapere che ha veramente bisogno del cibo offerto da me.”

“Non è come sembra!”

A fra qualche giorno per la seconda parte delle Idee sulla Fonte meravigliosa. Sarà un articolo pieno di idee non scientificamente verificabili, astratte, contorte e traballanti, proprio il mio genere!

Idee su “Sotto un sole nero”, di Ivano Mingotti

Sono tornata! E ho con me una recensione!

La vita non è facile. No, signori.

— Ivano Mingotti in Sotto un sole nero

Sotto un sole nero mi è stato inviato gratuitamente dall’autore dietro richiesta di commento, quindi questa potrebbe tranquillamente essere definita una recensione prezzolata: prego dubitare del mio parere, che già di solito non è oggettivo.

L’idea

Prendiamo il Ventennio Fascista, trasformiamo il Duce in Ductor (ché dux suona troppo scontato), ficchiamoci il sole nero per colpire gli allocchi, chiamiamo Hinkfuss il Malvagio Professore che l’ha causato, ché i tedeschi sono sempre antipatici, aggiungiamo l’invasione aliena alle ultime dieci pagine, raccontiamo le sofferenze della gente comune, mescoliamo, pepiamo et voilà! Un romanzo futuristico, fantascientifico, distopico, moderatamente depresso (ehm, a tinte fosche, mi pare si dica…), socialmente impegnato, à la Orwell!

Vediamo, che personaggi prendere? Allora, sì, l’omosessuale discriminato ci vuole, di questi tempi. Poi la vecchia che le ammazzano un figlio e l’altro le diventa soldato del regime. Poi il padre dalle spalle larghe che deve salvare la figlioletta imprigionata non diciamo perché. Poi il soldato che vuole uscire dalla spirale di violenza in cui è entrato. Poi il bambino che vede i soldati seviziare la madre. Poi il pazzo pluriomicida — oh mamma, mi congratulo per averci pensato, è troppo figo! Poi…

Ah già, a cosa serve il sole nero? Facciamo che l’oscuramento l’ha architettato il regime per fermare il surriscaldamento globale, così ci mettiamo anche un po’ di ecologia senza complicarci troppo la vita. E gli alieni? Allora alla fine loro riescono a far tornare azzurro il cielo e ci invadono e ammazzano tutti i cattivi! A posto!

… Vi dispiace se la chiudo qui e passo allo stile? Parlarne fa male al cuore che non ho.

Di trame sciatte o inesistenti nobilitate da un buono stile ce ne sono abbastanza da far sperare anche per Mingotti, quindi cerchiamo di capire se si salva qualcosa.

***

La prima impressione

In un presente alternativo, un governo totalitario sembra gestire la vita dell’intera popolazione umana. I “cittadini” vivono in un regime di terrore e di ferree regole dettate dal Ductor. Apparentemente salvatore della specie, dopo il disastro ecologico, il Ductor “protegge” il popolo sotto un sole nero, nel silenzio e nell’alienazione in cui sono ridotti, sotto un regime che marcia per le strade “Per la pace. Per la quiete. Per il sangue dei nemici”. Ma un’ulteriore minaccia da parte di invasori esterni sembra minare questo equilibrio. Nove vite si intrecciano, ci raccontano e ci conducono verso un epilogo inaspettato.

Il governo sembra gestire la vita di tutti; i cittadini sono tali solo tra virgolette; il regime marcia per le strade — sembra il titolo di un articolo di giornale: “Il regime marcia per le strade, la morale lo fischia dal solaio”; il predicato “sono ridotti”, al plurale, si riferisce al popolo, singolare; il fatto che si parli di invasori rende superfluo l’attributo “esterni” — e siamo in un riassunto. Che però dello stile di Mingotti non dice niente. D’altro canto, la dedica ci mette subito sulla retta via:

Dedico questo libro a Lory, senza la cui frase assolutamente fuori contesto questo libro non sarebbe mai nato.

Per la serie “scritte e non rilette”.

***

Alla prima pagina invece ho tirato un sospiro di sollievo: niente wall of text, niente descrizioni, organizzazione capillare per capitoli e sottocapitoli, cosicché mi sarei potuta fermare in qualunque momento senza perdere il filo del discorso. Il libro perfetto per me, insomma. Poi ho notato che quasi nessun periodo superava la riga di lunghezza e ho iniziato a temere.

Erano tutte frasi a effetto.

Be’, ovviamente non proprio tutte. A volte semplicemente non c’era un vero motivo per andare a capo. In proposito godetevi questo brano, tratto dal capitolo Credo:

MARCIAMO

Marciamo. Sotto i colpi del cannone, come ogni mattina. Marciamo. Mentre tutti ci guardano, tutti ci osservano. Marciamo.

E fin qui ricorda 300. Epico. Ma poi la situazione sfugge di mano:

Marciamo per loro.
Per fargli capire che ci siamo. Che ci saremo quando sbaglieranno. Che ci saremo quando non lo faranno. Marciamo.
Come ogni mattina, una gamba dietro l’altra, marciamo.
In perfetta simmetria, come un blocco unico. Marciamo.
Voltando la testa nella stessa direzione, tutti quanti. Senza guardare niente e nessuno. Marciamo.
Come se niente ci meritasse. Come nessuno fosse degno di noi. Marciamo.
Noi che siamo superiori, noi che abbiamo il fucile, marciamo.
Tra la gente del paese, e poi della città. Portando al mondo le nostre uniformi, le nostre grida. Le palle dei nostri cannoni. Marciamo.
Per fargli capire che quando non vorranno, ci saremo.
Che devono essere obbedienti.
Che il dovere, il dovere è tutto quello che conta.
Marciamo.
Sotto il nostro sole nero, mentre le nostre scarpe pesanti sbattono sul cemento. Marciamo.
Come timbri di grossi tamburi, scandiscono il tempo. Sbatto le suole. Marciamo.
Avanti, avanti. Gridiamo. Per fare paura ai nemici dell’ordine. Per fare paura ai nemici del nostro ordine. Marciamo.
Senza chiederci perché, senza domandarci se sia giusto.
Perché è quello che ci chiedono, perché è il nostro dovere. E il dovere è tutto.
Impugno il mio fucile, lo tengo stretto al petto.
Marciamo. Avanti marciamo.
Fino alla base, fino ai prossimi ordini.
Come tutti i giorni.
Per la pace. Per la quiete.
Per il sangue dei nemici.
Marciamo. Con le nostre bandiere, i nostri vessilli, le nostre uniformi, i nostri canti.
Le nostre urla.
Marciamo.
Avanti, marciamo.

  1. Se fosse un film andrebbe bene: voglio presentare il prossimo narratore, un soldato, lo mostro nei ranghi per cinque secondi. Ma qui è solo una scena banale raccontata in modo logorroico.
  2. A proposito di logorrea, questo modo di scrivere è più ansioso che ansiogeno. Ripetere ogni singolo concetto non crea suspense.
  3. Incongruenza. Se i soldati non si chiedono perché fanno quel che fanno, non possono nemmeno rispondere “Perché è quello che ci chiedono”.
  4. Una gamba dietro l’altra? Davvero non c’era un modo migliore per dirlo (tipo non dirlo per niente, supponendo che il lettore sappia camminare)?

facepalm-44246808923

Tranquilli, posso far di peggio. Sarò scientifica e catalogherò.

Aliti di immortalità (aka Frasi altisonanti)

Nuvole oscure, neri presagi di morte e tirannia.

Allibis, la situazione era critica anche prima t’impossessassi del corpo di Mingotti. (Guardate, ho scritto una parola con sei esse! E lo rivendico con orgoglio! (cit.))

Guardo un sole nero che si lascia guardare. La perenne eclissi di una stella che non brilla per noi.

Sarà timido o fa il prezioso?

Repetita iuvant

Mio padre alza lo sguardo. Mi fissa. Mi fissa duramente.
Solo un’altra volta l’ho visto fissarmi così. Solo un’altra volta. [Poi descrive quale fu quella volta, va a capo e…]
Solo quella volta.
E ora, ora mi guarda con lo stesso sguardo.
Con lo sguardo terrorizzato e tetro del regime. Con lo sguardo di chi mi imputa una colpa. Di chi mi imputa, per questa colpa, di mettere in gioco la quiete di tutta la famiglia.
Si sono portati via già mamma, mi ricorda con gli occhi.
Si sono portati via già mamma, per un’inezia.
Per quello che sono, per quello che provo verso il mio stesso corpo, il mio stesso genere, potrebbero portare via tutti noi.
Per colpa del loro silenzio. Per colpa della loro omertà.
Mi guarda duramente. Mi fissa, senza dire una parola.

Miseriaccia, sono solo un paio d’occhi!

WTF?

Siamo a pagina 3. Questo dovrebbe essere, insieme agli alieni, il pretesto per poter mettere il romanzo sullo scaffale della fantascienza:

Hanno pensato bene di spegnere la luce, una volta per tutte. Proprio loro, che grazie alle loro discariche, alle loro nubi radioattive, ai loro esperimenti e ai loro sprechi avevano acceso il forno.
Ora non rimane che un fuocherello a gas.
Nient’altro.
Una scatola nera ben chiusa.
Ero piccolo, quando tutto è successo. Troppo piccolo per ricordarmi. Troppo piccolo per sapere del professor Hinkfuss e della sua geniale idea di schermare i raggi solari. Chiuderli, con un sistema tecnologico avanzatissimo. Avanzato quanto tetro.
Della tecnologia non abbiamo mai saputo niente. Nulla di nulla.
Abbiamo solo patito le conseguenze. Il freddo perenne. Il calore artificiale, la luce dei lampioni a gas.
Chiusi in una bolla di cemento e ferro.

Del tipo? Vuoi davvero lasciarmi a immaginare una calotta che si regge su pilastri grandi come la Polonia?

Eudosso fu il primo a pensare che le stelle, fisse e mobili, fossero incastonate in tante calotte, anch’esse in movimento o meno. Lui ne ipotizzò 27, Aristotele 55, e i medievali apprezzarono.

E, come dice il saggio, prima di uscire spegni le porte e chiudi i raggi solari.

Un silenzio spettrale, solo il suono delle fiamme che bruciano.
Solo le fiamme.
E altre piccole esplosioni, altri scoppi.

Sì, questa è proprio la definizione di silenzio.

Ho la vista annebbiata, e l’udito non lo è di meno. E non comprendo niente, niente.
La stanchezza mi tiene la mente chiusa, sono concentrato sul dolore. Su nient’altro.
E le urla diventano molte, diventano moltissime.
Un mare di grida.

L’udito annebbiato! La mente chiusa! I mari di grida! Deh, qual poesia!

Solo la voce silenziosa.

Bis! Biiis!

Silenzio e cinguettii.

Triiis!

Nessun rumore, neppure il borbottio più sottile. Né un motore, né una voce, né un brusio qualsiasi.

Quadris! (No che non esiste.)

Buio, notte e silenzio. Cinguettio d’uccelli.

Quin… ehm, magari un’altra volta.

Zitte e in silenzio.

Scusate, mi è scappato.

Tirano la mia carne, ora li vedo, tirano la mia carne.

L’ho già usato il deh? PUAHAHAHAHAHAH.

Buio di un nero tetro.

Qui, i miei occhi sono inutili.
Sono fari nelle cianfrusaglie di un rottamaio, sono candele senza miccia.

Buio, respiro e sudore… buio, sudore e respiro.

Senza contare la scena da Oscar in cui il protagonista ci descrive accuratamente la sua cella e medita sul tempo che vi ha passato prima di accorgersi di avere le costole spezzate.
Poi la fuga:

Danzando come un ballerino su cocci di vetro, ferraglia, cemento.

La nota che ho preso mentre leggevo recita “No ciccio, hai le costole e una gamba rotte, col cavolo che sembri un ballerino”.

Brutale e bollente, brillante.

Guess what? Sono tutti attributi del cielo. E per questa volta mi rifiuto di ripetere del cielo!

Un altro pelle bianca, che veloce si accorge di me e veloce mi segue con lo sguardo.

Se fanno le Olimpiadi di lest’occhiata voglio partecipare, ho il fisico adatto.

Non manca lo splatter:

Stringo la mano tra le costole, annaspo. [Avrebbe dovuto perdere i sensi sul colpo, con la sua maschia resistenza…]

e

I miei occhi corrono, danzano intorno a me.

Rinfoderi i bulbi e non se li faccia più scappare, signorino.

Frasi contorte che manco le mie

[Il protagonista si chiede se suo padre e sua sorella denuncerebbero la sua omosessualità per non subire le ritorsioni del regime.] Non posso pensare che rischierebbero di mettere loro stessi in pericolo pur di avere la sicurezza di esser salvi.

E pavimenti illuminati lievemente da luci appese agli angoli tra soffitto e mura.

Sono vicino alla strada che subentra da sinistra, vicino. Vicinissimo.
E sto per prenderla, senza pensarci, senza rifletterci.

Che viscide queste strade, ti subentrano intorno senza proferir parola…

L’italiese

Pagina 3:

gambe rette e lunghe.

Perché se ne vedono, in giro, di gambe empie.

Pagina 4:

esiste solo il lavoro e il quieto vivere.

e

Sono decenni che non si è levata nessuna protesta.

Se la consecutio temporum stesse solo nell’abbinare un tempo semplice col corrispondente tempo composto, il latino sarebbe più facile dell’inglese.
Ah, ovviamente il brano proseguiva con un a capo e Decenni.

Pagina 10:

Divise e marce e pareti che scorrono [il protagonista, tutto rotto, sta venendo trascinato in giro.]

Pagina 14:

[…] corpi che mi strisciano ai piedi. Dilaniati, distrutti. Macellati.

Vieni con me, caro, ti faccio vedere io come non si muove la gente macellata a modo.

Pagina 21:

Dove ci aspetta l’autobus per chi è più fortunato, i piedi per chi non lo è.

Hanno i piedi smontabili come le Bratz!

Conclusioni

Per questa recensione sono stati sufficienti gli appunti sulle prime trenta pagine. Il romanzo è tre volte e mezza più lungo, ma non continuerei a citarlo nemmeno per provarvi che l’ho letto tutto. (Anche perché l’ho lasciato in PDF e il mio povero Kindle ci mette anni a girar pagina.)
Mingotti è un tipo originale: scrive di nove persone diverse, in cento pagine, con frasi brevissime e riesce lo stesso a dimostrarsi logorroico. Dovrebbe darsi al fantasy.

Questo è il primo libro che mi sia capitato ad avere un pezzo di narrazione prima del Prologo, contraddicendo l’etimo stesso della parola.

Molto artistico. Trasgressivo, quasi.

Molto artistico. Trasgressivo, quasi.

Voglio provarci.
Sì.
Anch’io. Io.
Voglio provarci.
A scrivere così.
Voglio tentare.
Tentar non nuoce.
Chiedere è metà dell’avere.
L’avere, già, l’avere. Basta chiedere. Null’altro.

Idee su “Girlfriend from Hell”, di Germano M.

So che da me ormai ci si aspettano solo recensioni di emerite porcherie, ma Fortuna volle che, per una volta, trovassi un gran bel romanzo, lo leggessi di gusto e fossi persino presa da entusiasmo all’idea di parlarne con voi. Però devo informarvi che mi sono persa tutti gli inside joke sul cinema del romanzo, riferimenti a roba che sentivo per la prima volta.
Quanta ignoranza.Grover

Girlfriend from Hell, d’ora in poi GfH, fa parte del progetto Survival Blog, “un esperimento di scrittura collettiva a puntate, nato il 26 novembre 2010 e conclusosi pochi mesi più tardi”, a febbraio 2011.
La sinossi, a cura dell’autore, è la seguente.

Anno 2015. La Gialla, un morbo che tramuta gli esseri umani in bestie antropofaghe, dall’Asia si è diffusa in quasi tutti i continenti, innescando una spirale di violenza che ha causato decine di milioni di morti.

Poche nazioni si sono salvate, spesso ricorrendo a metodi coercitivi estremi per salvaguardare la parte sana della popolazione e per mantenere una parvenza di società civile, costantemente assediata dalla paura e dalla disillusione, dalla povertà e dal rischio di infezione.
Ma c’è qualcuno che è riuscito a scamparla, allontanandosi, rifugiandosi in luoghi remoti, aspettando che la pandemia e la follia collettiva dei governi finiscano con l’annientarsi a vicenda.
I pochi superstiti lottano ogni giorno per sfamarsi, per evitare il contagio e non restare vittime degli infetti e dei razziatori, affrontando un futuro incerto e senza scopo apparente.
Internet è ancora in piedi, permettendo di scambiare informazioni non sempre utili o veritiere.
Chi può, affida alla rete le proprie memorie: un diario degli eventi che hanno condotto la specie umana alla catastrofe.
Questa è la storia di uno di loro e della sua donna.
Prima che tutto questo iniziasse, era solo un blogger. Il suo nome è Hell.

Apocalissi a go-go, insomma. Proprio il mio genere — almeno quanto i supereroi.
Il romanzo è lungo circa centottanta pagine ed è diviso in sezioni e capitoli rispettivamente a seconda dell’anno e del giorno in cui il protagonista, alter ego dell’autore, aggiorna il proprio blog, B&N. Trattandosi di articoli, sono presenti immagini e link esterni, per esempio a video e altri post legati al Survival Blog. Post tipo questo e questo e video tipo quest’altro, per intenderci.
Che io ho dovuto recuperare separatamente, visto che non leggo su tablet.
Questa è stata l’unica nota di fastidio, per quanto l’idea di rendere il libro quanto più simile a un film sia ottima.

La prima sezione, il prologo, è ambientata nell’ultimo anno di aggiornamenti. Dopodiché si riparte in ordine cronologico dal 2012, in cui tutto è iniziato.

Se non avete letto il libro, qui sotto ci sono degli assaggi, in modo che possiate farvene un’idea. Sennò saltate alle conclusioni!

Estratti (senza tanti spoiler)

1. L’incipit. Come detto, la foto è incorporata nel testo.

Prologo.

4 Dicembre 2015

gfh1

Non sono ancora leggenda. Ma ci sto lavorando.
Lei accarezza il pancione, accanto a sé il fucile. Non lo lascia mai. E neanch’io.
Non ho imparato a usare altre armi da fuoco. So maneggiare solo quella. E so come preparare le cartucce a pallettoni. Ricordino di un’infanzia felice e di un amicoche aveva per padre un cacciatore.
Oltre che tirare alle lepri, tiro ai Gialli. Non c’è tutta questa differenza, dopo tre anni.
Ero qui a riflettere. Non ho mai creduto alle streghe, ma se gli infetti esistono e io mi trovo qui con lei, e fuori c’è la fine del mondo, vuol dire che esistono anche loro.
Le streghe, da tempo immemore, sono quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est.
Oppure ho solo visto troppi film.
Comincio a essere stanco.

YouTube è ancora in piedi, come un altro 40% della rete. Nulla di stupefacente. Romero aveva previsto tutto, quel gran bastardo. Chissà che fine ha fatto. Immagino sia corso verso i gialli, abbracciandoli. Avrà pianto di gioia. Quelli avranno sputato bile nerastra e finito col mangiarselo crudo. Gran bell’incontro.
Anche YouPorn è online. Nelle ultime ventiquattr’ore ci sono stati ben trentadue upload. Il problema è che non ci sono più filtri. La gente sta caricando di tutto. Roba da far vomitare i porci. Statene lontani, o finirete col fottervi il cervello.

2. Dal primo capitolo. I Gialli attaccano i grandi magazzini Harrods, a Londra.

Faccio appena in tempo a prendere il tablet che sento Zooey urlare.
Quel figlio di puttana stempiato sta tornando.
Non ci sto a pensare troppo. Mi rialzo. Lo impugno con entrambe le mani, come fosse un vassoio. E, quando si avvicina, colpisco. Forte, da destra verso sinistra. La testa del bastardo nel mezzo della traiettoria.
Botta secca, che in quello spazio enorme pieno di espositori di cristallo fa un rumore del diavolo.
L’infetto finisce a terra, ma si muove ancora.
Gli sono subito sopra, a cavalcioni, sul torace. Tenta di mordermi mani e braccia, persino le ginocchia, attraverso i jeans. Tutto quello che può.D’istinto gli ficco la tavoletta in bocca.
Poi, di seguito, un altro istinto: colpire il tablet con l’avambraccio, gravandoci sopra, con tutto il peso.
Sessanta chili contro cento… spingo una, due, tre volte.
Si sente un doppio CRACK.
Il primo è mascella e osso del collo. Due in uno. Il secondo è lo schermo dell’iPad. S’è incrinato. Merda.
Bestemmio.
Zooey mi guarda come fossi un alieno.
Devo dirle qualcosa, subito. Me ne esco con un «Gimme some sugar, baby.»* pronunciato con tutta la convinzione di cui sono capace. Cascherà ai miei piedi. Sicuro.
«Uh?» si limita a fare lei, inarcando un sopracciglio. Non è spiritosa… No davvero.
A volte, sono proprio un coglione.

*Dammi un po’ di zucchero, baby. Epica battuta pronunciata da Bruce Campbell (Ash) ne L’ARMATA DELLE TENEBRE (1992) di S. Raimi. [Nota dell’Autore.]

3. L’explicit. L’aveva detto, che prima o poi avrebbe smesso di aggiornare il blog!

Queste ultime parole, infine, sono per voi che leggete e resistete. Ha tutta l’aria di essere un addio:

Siete come cervi.
Sbrigatevi a crepare.


[Canzone scelta dall’Autore. Vi linko il video ufficiale, che ovviamente scomparirà poco dopo la pubblicazione di quest’articolo.]

Cosa ne penso

Poco da dire, GfH è bello. Anzitutto perché è scritto con cura e rispetto di chi legge: linguaggio giusto per ogni situazione (che significa anche nessun problema a infarcire i discorsi di volgarità), non una parola di inforigurgito (anche se molti avrebbero preferito pagine di “spiegoni“, ho letto), azione quanto basta e soprattutto realismo.
La prima scena politically incorrect è quella in cui Hell, urlando, salta addosso a una ragazza che gli pare infetta e le spacca il naso a pugni.two
Ommioddio
, non si picchiano le donne! Nemmeno per sbaglio!
La cosa migliore è che questa violenza risulta anche abbastanza inutile, visto che la ragazza era venuta ad annunciare l’arrivo dei soccorsi. Indovinate qual è il suo destino? Coff coff.
Quindi un applauso per la brutalità. E uno per il protagonista: sono stata dalla sua parte fin dal gestaccio davanti alla telecamera di sorveglianza di Harrods — figurarsi poi con la scena “movimentata” del bacio e delle sue conseguenze. In un corridoio. Un duro!

Infine, fra i tratti positivi ne aggiungo uno personale. Durante la lettura gran parte dell’emozione era suscitata dal fatto che il protagonista fosse un mio collega – un tantino più professionale, senza dubbio! –, che la sua compagna fosse una delle mie celebrità preferite e che la trama prevedesse una riunione coi suoi amici della rete, tutta gente che io stessa leggo. Era un po’ come guardare un film di cui conoscevo personalmente gli attori.

Zooey Deschanel. Si riconosce da occhioni, frangetta e aspetto sbarazzino.

Zooey Deschanel: occhioni, frangetta e aspetto sbarazzino. Ha interpretato Trillian nel pessimo The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy.

Se proprio devo dirmi dispiaciuta di una cosa, ce ne sono due.
La prima è che non c’è risposta quando Hell si chiede

È possibile che [i Gialli] siano a tal punto convinti di essere qualcuno o qualcosa, da divenire quello in cui credono?

La seconda è che non si sa come finiscono le vite dei personaggi. Voglio dire, Hell e Zooey aspettano un bambino!Vogliamo vederlo morire per coerenza!
Certo però che concludere con la nascita o la morte del pargolo sarebbe stato inappropriato. E quindi bene così!

Dettaglio

Hell cita Eraclito, prima di scatenare il putiferio.

questo cosmo
lo stesso per tutti
non un dio
non un uomo
lo fece
era sempre
è
sarà
fuoco sempre vivente
che a misura divampa
e si estingue a misura

***

L’Autore

Germano M. amministra il blog di cinema Book and Negative, che trovate nella barra dei consigliati qui a destra.
Fra gli spin-off di Due Minuti a Mezzanotte e il Survival Blog, ha pubblicato solo ebook di qualità – e no, nessuno mi paga per dirlo. Ma forse voi nemmeno credete che sia possibile essere oggettivi. Be’, allora dovete leggere il libro. 😀
Se volete coerenza, è la persona giusta.

Altro

L’indice delle recensioni, diciannove esclusa la mia, è su Book and Negative.
L’avrei commentato, se solo i meccanismi per farlo non creassero problemi a me e al mio account WordPress.
La chiamarono L’Invisa (all’informatica).

Idee da “Some do not…”, di Ford Madox Ford

‘They say: Tout savoir c’est tout pardonner.’
‘It isn’t’, Sylvia said. ‘To know everything about a person is to be bored… bored… bored!’

Some do not… è il primo libro della tetralogia di Parade’s End, partorita da un Englishman del Surrey fra il 1924 e il ’28.

Perché lo conosco

Tutta colpa della BBC, produttrice sia della serie Sherlock che della miniserie Parade’s end (la seconda insieme all’americana HBO). In entrambe la star è l’eccellentissimo e reverendissimo Benedict Cumberbatch.

Se c’è bisogno d’interpretare un genio, da Stephen Hawking ad Alan Turing, chiamano lui.

Perché l’ho letto

Perché non so scegliere da sola un buon libro, maledizione! Ho guardato la serie TV, mi sono chiesta come avessero fatto a ficcare il contenuto di quattro libri in cinque puntate e, ignorando la puzza di bruciato, mi sono buttata nella lettura di un libro mai tradotto in italiano, scritto con un lessico decisamente fuori dalla portata mia e dei miei dizionari e pieno di scene ancora più incomprensibili perché inutili e dunque tagliate dalla serie. Avrò anche migliorato il mio inglese, ma passeranno eoni prima che mi azzardi a leggere qualcosa meno che caldamente raccomandato.

Il particolare: Christopher Tietjens

Un tipo molto “romano”: fissato con la dignitas, «l’ultimo dei Tory», stoico col desiderio di essere martirizzato, aristocratico. Presta qualunque somma di denaro a chiunque gliene chieda — it’s a matter of principle, dice. Quando sua moglie, Sylvia, scappa con un altro, commenta ‘a man ought to be able to keep his wife’ e ‘Such calamities are the will of God. A gentleman accepts them’. Quando l’amico si indigna per la crudeltà della donna, Tietjens lo mette in riga — you might remember that you’re talking about my wife —. Quando dalla Germania Sylvia, stufa dell’amante, gli chiede di riprenderla sotto il suo tetto, la risposta è un telegramma che le strappa di bocca la migliore descrizione di Christopher:

He wouldn’t write a letter because he couldn’t without beginning it ‘Dear Sylvia’ and ending it ‘Yours sincerely’ or ‘truly’ or ‘affectionately’… He’s that sort of precise imbecile. I tell you he’s so formal he can’t do without all the conventions there are and so truthful he can’t use half of them.

Insomma, questa sono io! Soprattutto quando Tietjens, poco prima di partire per il fronte occidentale della Prima Guerra Mondiale, dice alla moglie:

I daresay you have ruined me. That’s nothing to me. I am completely indifferent.

In effetti, lui sceglie di andare in guerra (da qui la frase che giustifica il titolo, Some do. Some do not.) e fa domanda per la Legione Straniera — non esattamente il ruolo più comodo e prestigioso che gli si offrisse: sei mesi di addestramento nel deserto per essere scaraventato in prima linea e finire massacrato senza alcun rimorso da parte dei comandanti as foreign dirt, come dice Ford.

But the prospect seemed to him one of deep peace. […]
Obviously he might survive; but after that tremendous physical drilling what survived would not be himself, but a man with cleaned, sand-dries bones: a clear mind.

Beh, quadra.
Un’altra battuta memorabile si legge quando lui e il fratello parlano del padre, suicidatosi per gli scandali di cui Christopher non si è mai curato — anche difendersi dalle calunnie non è da gentleman.

‘The fellow shot himself’, Mark said. ‘You usually forgive a fellow who shoots himself’.
‘I don’t’, Christopher said. [Poi il fratello gli rivela di aver sguinzagliato lui il delatore che ha riferito le voci al padre:] ‘I don’t forgive you either’.

Questo sì che è un uomo d’onore!

Un’ultima frase a effetto.

If you wanted something killed you’d go to Sylvia Tietjens in the sure faith that she would kill it; emotion: hope: ideal: kill it quick and sure.

L'eterna aria sarcastica di questa donna è uno dei motivi più piacevoli.

L’aria sarcastica di questa donna è uno dei motivi ricorrenti più piacevoli.

Sono rimasta colpita da tutte queste parole perché mi hanno bacchettata duramente: dopo la fase tipicamente adolescenziale di fanatismo (beh, nel mio caso, di fanatismo contro il fanatismo) sono caduta nel totale disinteresse per la morale. Per un anno mi sono comportata come mi conveniva senza farmi domande; ora, complici numerosi cambiamenti nel mio stile di vita, è bene tornare alla consueta rigidità. Diamo quindi il benvenuto al nuovo dito ammonitore del blog — Diogene — che aiuterà Catone nell’impossibile compito di farci rigare dritto.

Lo strascico della chimera

Come promesso, paragoniamo la mia recensione a quelle dei principali network sui libri, quasi tutte da 4 stelline su 5. Prendendo spunto da questo articolo, le ho raggruppate in base al tipo di lettore.

Il cialtrone

E’ il secondo Vassalli che leggo.
E mi è piaciuto da morire. Mi è piaciuto il taglio storico, il lavoro di studio e di documentazione che c’è sotto e che si vede perché l’autore entra spesso a più pari nella narrazione, difendendo il suo ruolo di autore.
La storia si svolge a cavallo fra il 1590 e il 1610 e non si fa problemi di dare un quadro molto chiaro e lampante di quella che era la realtà di paese, ma non solo, allora.
Per poi scivolare, grazie a una precisa “realtà dei fatti”, in quella che è la storia del mondo, di tutti, qualsiasi sia il tempo.
Zerbino cresce, succhia vitalità, condanna, giudica, trova capri espiatori, crede a quello che non vede, modella quello che vede, festeggia e poi sparisce. Il tutto sotto l’occhio coinvolto e colpevole di chi non propone, non è in grado di proporre un’alternativa diversa, un’alternativa di vita.

Faccio notare che ha trasformato il nome del paese che tanto l’ha colpita da Zardino a Zerbino. Pensare che non abbia letto il libro significa saltare alle conclusioni?

L’intenditore

Il lessico di Vassalli è ricercato e perfettamente mimetico: se il narratore non s’introducesse spesso con commenti che rimandano ai giorni nostri, paragonando questa o quell’usanza al mondo moderno, potrebbe quasi sembrare un romanzo dell’epoca.

Esatto, meno male che l’autore ogni tanto s’intromette, altrimenti potremmo immedesimarci.

Per concludere: un libro non semplice da leggere, né scorrevole, ma che illumina su una barbara superstizione che solitamente, nell’immaginario comune e nella letteratura, viene attribuita principalmente alla Francia prerivoluzionaria, alla Spagna dell’Inquisizione, all’America puritana, ma che, senza scomodarci troppo, è appartenuta anche al nostro paese.

A parte il fatto che il libro è semplice – come detto, non c’è nulla da capire – ci sono due errori. Il primo è che non illumina su un bel niente, visto che non descrive torture né interrogatori e contempla un solo caso scelto fra i più banali; il secondo è che l’immaginario comune non sbaglia di molto nella collocazione dei peggiori focolai di stregoneria: Germania, Spagna, Nord Italia, Francia, Inghilterra sono state davvero le zone con più roghi. Il mito da sfatare semmai è legato al tempo: parli di streghe e un po’ tutti pensano all’Anno Mille*, quando il picco di condanne è stato a pochi anni dalla chiusura del Tribunale. Vale a dire proprio fra il Cinquecento e il Seicento, periodo in cui La Chimera è ambientato.

L’intenditore anglofono (più o meno)

“La Chimera” is like the perfect combination of “The Bethrothed” by Alessandro Manzoni, “Narcissus and Goldmund” by Herman Hesse and “The Moon and the Bonfire” by Cesare Pavese with a shade of Umberto Eco’s erudite irony.

Da che mondo è mondo vale l’equazione “nomi famosi = qualità”. Chi non apprezzebbe il senso dell’umorismo di Eco? Eppure la parte preoccupante viene dopo:

And yet I understand all those young students who complain about it considering “La Chimera” slow and boring. This is definitely a book you shouldn’t force sixteen years old guys to read at school: they will simply destest it.
Just let them grow up and discovering it by themselves. The ones who will are not going to complain about their choice.

Peter Pan diceva che gli adulti sono scemi. Io penso che lo scoprirò a diciott’anni, manca poco.

L’embrione di lettore consapevole

Sono numerosissime le figure delineate nel romanzo, tanto che, a volte, si ha l’impressione che l’autore si disinteressi della storia principale […]

Beh, finché resta un’impressione non andrà lontano, ma è un inizio.
Come non detto, il recensore si corregge subito:

Personaggi, storie, gesti, atmosfere contribuiscono a creare il minuzioso eppur emozionante affresco di un romanzo storico che si legge con compulsività malgrado gli spazi bianchi sulla pagina siano ridotti al minimo, le descrizioni arrivino al dettaglio e le deviazioni si aprano con frequenza: certo, un minimo di attenzione è necessaria, ma la fatica è ampiamente compensata (e la conclusione a dir poco splendida).

L’elemento ricorrente è la difficoltà di lettura. Parlarne dovrebbe far sentire intelligente chi, nonostante le condizioni improbe, è riuscito ad apprezzare il risultato… eppure questa gran difficoltà non c’è, quindi chi la trova si autodichiara un po’ scemotto. A meno che il disagio non stia nel sopportare la totale mancanza di difficoltà!

L’ermetico

Storia dolce e amara di sconfinata bellezza.
E’ stata la lettura di una notte: Antonia non sono riuscita ad abbandonarla fino alla fine, fino all’ultima pagina. Non è cosa semplice questo libro.
Puntini di sospensione e dissolvenza brumosa.

Ma siete capaci di mettere l’accento su quel verbo essere? Dovete proprio mettere sia il pronome che il nome? Non siete dal fruttivendolo! Coff coff.

Il vago

Affresco di un’epoca affascinante, terribile e poco nota, restituito dall’autore con insolita sensibilità, profondo amore per la sua terra e accurata precisione storica.
La narrazione, i cui particolari non sono mai lasciati al caso, coinvolge il lettore dalla prima parola all’ultima, senza annoiarlo un solo istante.

Affascinante e terribile, un po’ come… Come… Vabbè, ci siamo capiti. Solo una cosa non mi spiego: perché non scrivere direttamente “precisa precisione” o “accurata accuratezza”? Assonanza e consonanza sono figure molto poetiche!

Vendetta!

La mia vendetta su Colei che mi fece leggere La Chimera consiste nel nominare un buon saggio per i curiosi: Il libro nero della caccia alle streghe, di Vanna De Angelis. Fa esempi specifici tratti da epoche diverse, dal 1370 al Settecento e, con le sue trecento pagine, è perfino più corto della Chimera. È una perla all’interno di una trilogia per il resto piacevole, ma poco affidabile. Gli altri due volumi, Le streghe e Dalla parte delle streghe, trattano per esteso il fenomeno della stregoneria, dal Duecento all’Ottocento, con moltissime divagazioni – ben inserite, in questo caso – su leggende e credenze popolari.

L’Autrice

La De Angelis ha dominato la mia infanzia.
La trilogia di romanzi Il Grande Gladiatore — La Notte del Gladiatore — I Giorni del Colosseo si svolge nell’arco dell’Anno dei Quattro Imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano) ed è stata scritta insieme a Dario Battaglia, fondatore dell’Istituto Ars Dimicandi. Che non è poco. Anzi, è così tanto che le devo la mia passione per l’antica Roma e mi ha insegnato un mucchio di parole latine prima ancora che sapessi cosa fosse, il latino.
I cacciatori del tempo, un fantasy, non è altrettanto valido – un clichè ambulante – ma è scritto con onestà: è il genere di libro prevedibile e senza colpi di scena che occupa un pomeriggio senza farlo pesare.

amour_sep2[1]

*Comodo per i cristiani buttare tutto il loro marciume nel Medioevo!