Numanzia, 133 a.C.

Generale: Publio Cornelio Scipione Emiliano contro Avaro, insignificante capo della città.

Forze schierate: 20.000/40.000 romani più la cavalleria numidica e dodici elefanti contro 8.000 numantini.*

Esito: alla fine di questo articolo, di Numanzia non saranno rimaste che ombre e polvere.

Motivo del conflitto: i celtiberi vorrebbero tenersi le loro appetitose miniere. Simpatici!

Effetti: le Spagne non si ribelleranno più in grande stile fino a Sertorio, fra sessant’anni.

Tre generazioni sembrano poche. Bisogna pensare al contesto storico: quante occasioni avranno i barbari con l’invasione cimbro-teutone, la guerra sociale, quella civile, la campagna contro Mitridate e il congedo di mezzo esercito per la crisi finanziaria durante la dittatura? Eppure non riusciranno mai a organizzarsi — non che la coordinazione sia il loro forte.

Le Spagne al momento della suddivisione in Citeriore e Ulteriore. Tarraco era il quartier generale romano.

Le Spagne al momento della suddivisione in Citeriore e Ulteriore. Tarraco era il quartier generale romano.

Il più snervante tira e molla della storia romana

Altroché la guerra contro Mitridate del Ponto, le volte in cui Roma ha intrapreso e poi abbandonato l’azione di conquista delle Spagne sono un macello. Tant’è che le Guerre Celtibere si spalmano su tre periodi.
Nella prima fase il padre dei Gracchi vince e stravince, imponendo tributi e stanziamento di legioni nel cuore dell’Iberia.
Nella seconda Quinto Fulvio Nobiliore fa piazza pulita dell’esercito nemico in una battaglia contro Belli e Titti (valenti guerrieri, come dice il nome stesso). Numanzia, rifugio dei superstiti, gli resiste per tutto un inverno, l’assedio fallisce e l’anno dopo l’oppidum si arrende — è l’unico forte spagnolo ancora in mano ai ribelli!
Intanto Roma è costretta a dividere le forze (e i generali) per controllare i Lusitani.

wutPerché tutte le volte che in Portogallo si ribellano tocca andarli subito a punire?
È mia personale opinione che in Iberia il malcontento si diffonda per contatto visivo: se uno si sente stufo dei romani, magicamente lo diventano tutti quelli intorno a lui.
Una teoria più sensata è che i ribelli lusitani e celtiberi avrebbero puntato a unire le forze. Già sono problematici presi singolarmente, con la loro amata guerriglia, figurati a perdere il controllo di tutto ciò che c’è oltre le Alpi o quasi… tant’è che i primi resistono per sedici anni di fila.
Ma poi, varrà la pena di fare tutta ‘sta fatica per la Spagna?
Un passo indietro.
Fra il 210 e il 206 Scipione l’Africano, visto che tanto i cartaginesi stavano invadendo l’Italia da nord, ne ha approfittato per conquistare una fetta di Iberia che nel 197 è stata divisa in due Province, una sulla costa sud e una su quella ovest. Ciò ha permesso che, alla fine della Seconda Guerra Punica, iniziasse la caccia alle miniere d’argento dell’interno.
Da allora l’obiettivo è stato cacciarne i proprietari celtiberi. Fallire significa perdere l’eredità dell’Africano, oltre a un mucchio di soldi.

La terza fase impegna tanti bei nomi, dal buon Metello Macedonico a un Pompeo e da un Popilio Lenate a un Ostilio Mancino, che perde ventimila uomini in un colpo solo.
E poi arriva l’Emiliano.
Tanto per cambiare, solo per farlo console si deve ignorare la tradizione ed emendare la legge.
Tanto per cambiare, non gli si danno delle buone truppe — deve accontentarsi di quelle rimaste in Spagna, che appena vedono un barbaro scoppiano a piangere.
Prende il suo codazzo di sostenitori, ne fa un esercito personale e ordina i migliori cinquecento nella prima cohors praetoria.
Sbarca a Tarragona nel marzo del 134 e trova sì il principe Giugurta di Numidia coi rinforzi di cavalleria e gli elefanti, ma pure un cumulo di legioni per due terzi composte da iberi reclutati a forza, “un covo di prostitute [ben duemila, si disse… una ogni dieci o venti legionari], commercianti, indovini e fattucchiere” e in generale gente alla sesta campagna (in odore di congedo) che si nutre alla spese di Roma, in sostanza.

La creanza prima di tutto

Scipione ricomincia l’addestramento da capo: d’ora in poi ciascun soldato porterà sulle spalle grano per un mese e sette paletti da palizzata. Altroché asini e buoi!
Dopo mesi di marce estenuanti e mille imprevisti a causa delle incursioni dei vaccei, i rifornitori di fiducia di Numanzia, a ottobre Scipione pone l’assedio.

Finalmente un assedio. Adoro gli assedi.

Finalmente. Adoro gli assedi.

Intorno al forte vengono costruiti sette castra, collegati da due fossati. Il più interno ha la classica palizzata e il terrapieno, più largo che alto; il più esterno, a circa duecento metri di distanza, viene lungo nove chilometri: taglia persino un laghetto e s’interrompe solo perché ci sono due fiumi, a ovest e a sud della città.

A Emiliano piace vedere le cose dall’alto: come a Cartagine, pensa alle torri — che qui sono trecento, una ogni trenta metri, alte due piani più delle mura. Uno per le segnalazioni e l’altro per le macchine ossidionali. Infine il Duero, che convoglia i rifornimenti da nord, viene bloccato collegando due torri sulle rive con dei tronchi e facendovi pendere coltelli e punte di lancia.

I legionari continuano a disonorare Roma e Scipione non si fa scrupoli a nascondere che li odia, ma le fortificazioni reggono e gli accorgimenti del generale funzionano.
Uno è quello, molto usato da Cesare, di permettere a chi vuole di entrare in città: più gente, meno cibo.

Come a Cartagine, il capo della città — nel nostro caso Avaro — rifiuta la resa incondizionata anche quando la situazione numantina è disperata. Finisce linciato.

Scipione lascia agire la fame. La resa giunge poco dopo, insieme a notizie un po’ macabre che ricordano la futura (okay, contraddizione in termini) Alesia: i primi a essere nutriti di carne umana sono stati i malati.
La cosa particolare è che Emiliano concesse a chi non voleva cadere in schiavitù qualche giorno per suicidarsi. In effetti molti iberi portavano sempre con sé una fiala di veleno, per evenienze come questa.

I sopravvissuti ai quindici mesi di assedio sono la metà della popolazione iniziale. Il generale ne sceglie cinquanta per il suo trionfo, vende gli altri e rade al suolo l’oppidum, stavolta senza aspettare il parere del senato e, penso, senza rimorsi.

Due parole sul personaggio, parte seconda.

La domanda è: come mai dieci anni fa Scipione ha pianto su Cartagine e adesso ha lasciato gli iberi a morire di fame e pestilenze?
Non ne ho idea. Fatto sta che in questa guerra Emiliano ha assunto una linea di condotta per certi versi molto simile a quella di Giulio Cesare. C’è l’intraprendenza nella costruzione di grandi opere per isolare il nemico e c’è una buona dose di brutalità — con un delizioso dettaglio: pare che in una sola notte abbia fatto tagliare le mani a quattrocento giovani capi dei ribelli, rei di aver mandato aiuti a Numanzia: tipico provvedimento cesariano.

Tuttavia, come fa notare lo storico Frediani, in Scipione non c’è un barlume di genio. O forse sarebbe meglio parlare di creatività. È forse l’unico grande generale a non aver donato nulla all’arte della guerra, limitandosi a non compiere errori. La soluzione di bloccare Numanzia e sedersi ad aspettare nel bel mezzo del nulla è al contempo un esempio di massimo risultato col minimo sforzo e di ineleganza — quindici mesi di nullafacenza sono stati uno spreco di risorse, con tutte quelle bestie d’uomini da nutrire come se se lo meritassero.
E poi, di’ un po’, non poteva costruire una stradina nei dintorni, già che c’era? Scherzo, scherzo, per carità!

Ciò dimostra anche una certa mancanza di esibizionismo. Nessun problema a creare precedenti pericolosissimi e a riempire le Tavole di leggi ad personam, ma mai strafare, mai rischiare di compromettere la missione. Per questo vogliamo bene a Emiliano.

Morte al tiranno!

Abbiamo detto che è stato adottato da uno Scipione. Costui ha una sorella, Cornelia, la madre dei Gracchi! La quale, della dozzina di figli che partorisce, ne vede crescere tre: Tiberio, che accompagna Ostilio in tutte le guerre che perde e che è il primo a scalare le mura di Cartagine, a sedici anni; Caio, che non ci serve a nulla; e Sempronia, moglie dello stesso Emiliano.
Con grande coerenza Scipione, costituzionalista convinto, giorà pubblicamente del linciaggio dei Gracchi e questo porrà fine alla sua carriera militare. Nell’opporsi alle loro riforme agrarie difende a spada tratta i popoli italici, minacciati di esproprio dalle loro terre in favore dei cittadini romani.
Morirà a cinquantasei anni dopo che la folla avrà invocato “morte al tiranno!” in sua presenza, pur avendo rifiutato una dittatura.

Bonus: breve storia di un fallimento memorabile

Metello in due anni soggioga gli Arevaci a meno della solita Numanzia**, che però almeno non ha più rifornimenti dall’esterno.
Bello, no? Nessun problema, basta sostituire Metello con un incompetente! Alla fine del suo mandato arriva un Quinto Pompeo che, trentamila legionari in pugno, d’impeto scavalca le mura di Numanzia…
… per farsi fermare da una palizzata.

Facepalm_facepalm

Ora, ci si aspetterebbe, se non un’immediata sostituzione, almeno l’invio di una persona meno handicappata a fargli da reggigomiti. Cosa cui evidentemente nessuno pensa, dato che il gallo ha tutto l’agio di tentare e fallire l’ennesimo assedio. Se non c’era riuscito Catone…
Ecco, parliamone. Contro Numanzia pure Catone il Censore si è rotto i denti, nel 195, guadagnandoci un mucchio di perdite e un meritatissimo trionfo a Roma per aver assoggettato l’intera penisola.

In realtà "Mi piace l'odore del napalm, la mattina" è un aforisma di Catone il Censore. Si tramanda infatti che un modo alternativo di fabbricare questo particolare fuoco greco prevedesse l'impiego del garum.

In realtà “Mi piace l’odore del napalm, la mattina” è un aforisma di Catone il Censore. Si tramanda infatti che un modo alternativo di fabbricare questo particolare fuoco greco prevedesse l’impiego del garum.

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*Non fidatevi. Sul Web non ho trovato uno straccio di stima che non mi sembrasse idiota. I barbari anglofoni addirittura si accontentano delle cifre iperboliche delle fonti dell’epoca, che dicono sempre qualcosa del tipo “Tito Quinzio Vetulonio, inciampando in uno scorpio, abbattè trecentosessantamila celtiberi e ne fece prigionieri trenta scagliando il suo pilum da due miglia di distanza”.

L'espressione tipica del lettore di testi antichi.

L’espressione tipica del lettore di testi antichi.

**Sappiamo che il vicino oppidum di Termanzia resistette con la gemella Numanzia almeno fino all’arrivo di Scipione. Poi se ne sono perse le tracce, ed è per questo che non l’ho mai nominato.

Appendici

I

Quando Nobiliore fu eletto console per l’anno 153 e gli fu affidata la guerra numantina, ottenne di entrare immediatamente in carica per non perdere tempo. Ciò significava iniziare l’anno consolare non più a metà marzo, come da consuetudine, ma il primo gennaio. Da allora si fece sempre così. La scena politica ne guadagnava in dinamismo, spettacolarità e instabilità. Ma c’è sempre un ma.

Mettiamo il caso che la Repubblica venga invasa proprio a dicembre: se i consoli restano in carica fino a marzo, nessun problema sul piano amministrativo — al massimo si rimandano le elezioni; se invece l’insediamento è a gennaio, è illegale che i vecchi consoli restino in carica più a lungo. Allo stesso tempo andare a votare con una guerra in corso è impensabile. Che si fa? S’infrange la legge?

Questi sono anche gli anni in cui l’ottantunenne Catone iniziò a romper l’anima coi discorsi contro Cartagine. Esatto: mentre i senatori erano con l’acqua alla gola per organizzare la guerra spagnola, lui promuoveva un’ennesima guerra contro un alleato.
E sì, credo fosse ovvio per tutti che Roma non potesse impegnarsi su due fronti, in quel momento.

II

Tiberio Sempronio Gracco, tribunus plebis nel 133 (cioè in contempornea col nostro assedio), partecipò sia alla distruzione di Cartagine che alla campagna di Spagna del 137, sempre alle dipendenze di tale Caio Ostilio Mancino.

Costui prima fallì in Africa e poi, nel 137, permise al suo esercito di ritirarsi di fronte al nemico fino a farsi inseguire, accerchiare e a perdere quattro o cinque legioni. Dopodiché dovette firmare una pace che garantisse l’indipendenza di Numanzia — quando erano decenni che il preciso mandato dei consoli era distruggerla — e non accadde di peggio solo perché Gracco mise una parolina buona coi barbari.
Tornato a Roma, il trattato fu considerato oltraggioso per la Repubblica (per un altro tipo di parolina buona, stavolta da parte dell’Emiliano) e il poveretto venne rispedito in Spagna nudo e in catene. I barbari lo rimpallarono indietro; seguì l’espulsione dal Senato.

Per Gracco, che a differenza di Mancino era aristocratico, non ci furono conseguenze, nonostante fosse stato lui a procurare quello schifo di pace.

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Cartagine, 146 a.C.

Generali: Publio Cornelio Scipione Africano Minore, in sintesi l’Emiliano, contro Asdrubale.

Forze schierate: 80.000 romani e 150 longae naves contro 50.000 punici. Circa. Sappiamo però che, fin dal 212, Roma mantiene venticinque legioni sparse per il mondo.

Esito: vittoria romana.

Motivo del conflitto: Cartagine non ha molto ben compreso la lezione di Zama.

Effetti: Carthago deleta est*.

Annibale in compagnia della *SPOILER* testa del fratello.

Annibale in compagnia della *SPOILER* testa del fratello.

La Terza E Ultima Guerra Punica ha inizio con Asdrubale che attacca Massinissa di Numidia, alleato di Roma, proprio sotto il naso di un Emiliano in cerca di qualche elefante da scaraventare contro gli iberi (che, per la cronaca, possono anche iniziare a godersi i loro ultimi quindici anni).
Dopo Zama Cartagine non può dichiarare guerra a nessuno senza il permesso del senato, ma naturalmente la vita è troppo breve per stare ai patti — e poi, ci sono sempre gli ambasciatori! Gli sventurati arrivano a offrire

  • la testa di Asdrubale,
  • trecento ostaggi,
  • tutte e 2.000 le catapulte,
  • tutte e 200.000 le armature in loro possesso.

Il popolo li lincia. È mia modesta opinione che la colpa di tanta scortesia siano state le sceneggiate di un certo Marco Porzio. Tanto fra un po’ muore.

Poco dopo, quattro legioni e centocinquanta navi da guerra giungono in Africa con l’ordine di distruggere la città e deportarne gli abitanti. Però i generali sono due, e nemmeno uno è quello giusto: convinti di entrare in una città in ginocchio, Censorino e Manilio si mobilitano mesi dopo lo sbarco (estate 149). Il primo, forte della flotta, si accampa sulla Glossa, mentre Manilio occupa l’istmo, per impedire i rifornimenti dall’interno. Ricordiamo come quella del “Dividiamoci!” sia sempre un’ottima idea… soprattutto sapendo che Asdrubale è fuori città in cerca di armati.

La città come disegnata sulla Geschichte der Karthager.

La città come disegnata sulla Geschichte der Karthager.

Nel frattempo i cartaginesi, stando alle fonti, in mancanza di ferro e bronzo hanno fuso oro e argento per fare armi, fabbricando cento scudi, trecento spade, cinquecento lance e mille frecce al giorno. Orosio, che essendo cristiano crede e scrive barzellette, riporta che persino le donne abbiano sacrificato i capelli per farne funi da catapulta.
Non c’è dubbio, serve un assedio. Censorino dovrebbe tappare questo porto:

Il canale è per le navi commerciali, il cerchio per quelle da guerra. Molto chic. Fra poche righe non esisterà più.

… e le paludi glielo impediscono. Contemporaneamente Asdrubale piomba alle spalle di Manilio, chiuso tra il deserto e la rocca — parliamo di mura spesse dieci metri e alte quattordici, in quel punto. Imprevedibile, eh?
Le decine di piccole sconfitte che verrano subite da quattro consoli diversi nel giro di due anni sono da manuale: legionari che attraversano un fiume trovando il nemico in posizione favorevole, di solito su un altopiano; truppe cui, per mera mancanza di polso, viene permesso di frammentarsi fino a ingaggiare dozzine di microcombattimenti; insomma, un gran spreco di potenziale. Fortuna che c’è sempre il tribuno Emiliano a salvare i soldati da morte certa.

Il suo momento arriva alla morte di Massinissa: come sistemare i tre figli legittimi? Divide et impera. Scipione assegna al primo la sovranità nominale, al secondo l’esercito e al terzo la giustizia (povero Mastanabale!), per poi farsi amico quello che mena: Golussa. Gli alleati di Asdrubale diminuiscono… finché l’operato dei nuovi consoli non li induce a cambiare nuovamente bandiera.
Così a Roma si inizia a invocare Scipione, che a trentasei anni è troppo giovane per fare il console. Ma quando si hanno allo stesso tempo il popolo e Catone dalla propria non è un problema infrangere la legge!

iefjvnfreAmnell riflette (Achtung-Achtung)
Basta un emendamento, regolarmente proposto da un tribuno della plebe e approvato senza difficoltà. Tuttavia costituisce un precedente fondamentale: di fatto si passa da “Il mos non si tocca!” a “Se l’abbiamo già fatto, perché non ripetere?”, cioè alle condizioni che permetteranno a certe personalità ingombranti di emergere.

Da console Scipione può dedicarsi all’attività per cui diverrà famoso a Numanzia: riportare la disciplina fra i debosciati.

All’inizio del  147 si trova degli uomini demoralizzati e pigri, che da mesi non impugnano un gladio nemmeno per esercitazione, dove la diserzione in favore dei cartaginesi è un fenomeno comune. Più che legionari, dei predoni. Ordina di considerare nemico chiunque non si trovi a distanza di squillo di tromba; in primavera è pronto, ed escogita una mossa molto particolare.
I punici hanno mancato di demolire una torre; grazie a questa alcuni soldati riescono ad arrivare sugli spalti e ad aprire una porta della città, attraverso la quale entra un’intera legione. Asdrubale accorre per cacciarli e ne fa strage, costringendo Scipione alla ritirata e abbandonando il presidio sull’istmo.
Il sacrificio di tanti buoni soldati può dirsi ripagato: adesso il blocco terrestre è efficace e il Beotarca è prigioniero nella sua stessa città. Dopo tre settimane il lato ovest di Cartagine è completamente sigillato da quattro fossati disposti a rettangolo, di cui quello verso la città dotato di torre per spiare oltre le mura.

Questa torre si rivela subito utile, svelando le esercitazioni di una flotta costruita in fretta e furia col legno delle case distrutte. Quando infatti Scipione sta finendo l’argine che chiuderà il porto, ad Asdrubale non resta che tentare il tutto per tutto. Senza il fattore sorpresa la sortita si trasforma in una sanguinosa battaglia vinta dai romani. Le sorti dell’Africa sembrano già decise. E in effetti è così, per quanto il nemico riesca a incendiare le macchine ossidionali romane. Alla fine quel maledetto porto viene definitivamente bloccato e Scipione può permettersi di offrire una tregua e un salvacondotto per Asdrubale e famiglia – rifiutati. E allora che muoiano di fame! Dall’inverno alla primavera del terzo anno i romani siedono immobili mentre il Beotarca arriva a torturare e gettare dagli spalti i prigionieri, pur di costringere i suoi a resistere, e a bruciare gli edifici del porto per restringere il fronte – un vantaggio anche per Scipione, tra l’altro.

Guardatela un'ultima volta.

Guardatela un’ultima volta.

Ad aprile c’è l’attacco finale alla Byrsa, la rocca. Uno dei primi a scalarne le mura è il futuro tribuno delle plebe Tiberio Sempronio Gracco, che incroceremo ancora a Numanzia. Mentre i difensori si accalcano al centro della città, il grosso delle truppe romane sfonda a sud e arriva davvero fino alla rocca.
Iniziano i lentissimi combattimenti per le vie, coi legionari costretti a usare i forconi per spazzare via i cadaveri e i cartaginesi che hanno case di sei piani da cui lanciare gli oggetti e i liquidi più disparati.

Quasi una settimana dopo, Scipione è nella Byrsa. Davanti a lui ci sono 55.000 persone, un decimo della popolazione. Ai suoi piedi Asdrubale con moglie e figli, che implora pietà – esattamente quello che aveva giurato di non fare – e l’ottiene.
A questo punto il vero uomo della casa, la moglie, prende i figli e si getta tra le fiamme insieme a novecento disertori romani.

La guerra potrebbe anche finire con la solita deportazione degli abitanti e il pagamento delle indennità, cosa per cui Scipione combatte (anche perché Catone è morto da tre anni), ma non c’è niente da fare. Cartagine brucia per diciassette giorni, viene arata, cosparsa di sale e maledetta***.
Scipione, rivolto al proprio maestro, commenta:

Polibio, è un glorioso momento, è vero, ma non so come, ho paura e già vedo il momento in cui un altro darà lo stesso ordine contro la nostra patria.

Non dire così, Scipio!

E scommetto che Cicerone penserà a queste parole quando si vanterà di aver sconfitto il nobile Catilina.

Due parole sul personaggio, parte prima.

L’Italia, soprattutto quella didattica, è piena di idioti che pensano che l’Emiliano prenda il nome da Reggio Emilia. Guarda caso, però, in quella zona (molto gallica e poco romana) non ci sono state grandi battaglie, e la città è stata fondata da un certo Marco Emilio Lepido col nome di Regium Lepidi. In effetti da che mondo è mondo sono le città a derivare il nome dal fondatore, non certo il contrario.

Come Roma, che deriva palesemente da Romolo. Qui ritratto mentre porta al tempio di Giove Feretrio le spoglie opime di Acrone, capo dei Ceninensi.

Semplicemente, c’era una volta Lucio Emilio Paolo, detto Macedonico per aver sterminato gli Antigonidi e figlio dello sconfitto di Canne**. Costui generò quattro maschietti e due femminucce da due donne diverse, e così si trovò a dover dare in adozione due cuccioli di Emilio Paolo. Il primogenito andò a un Quinto Fabio Massimo, diventando Massimo Emiliano (nonché futuro padre di un tizio chiamato l’Allobrogico), il secondo al figlio di Scipione l’Africano, diventando Scipione Emiliano (nonché futuro padre di… nessuno). Ecco svelato l’arcano.
Questo è il momento in cui le grandi gentes iniziano il loro declino: all’epoca di Silla sarà rimasto un solo Fabio (morto senza eredi) e nessun Emilio del ramo dei Paoli.

Appendice: la Byrsa

In lingua punica significa “luogo fortificato”, ma i Greci preferirono ambientarci una delle loro leggende. L’equivalente fonetico nella loro lingua, βυρσα, significa “pelle”. Da qui la storia, ripresa e distorta da Virgilio, secondo cui Elissa, sorella di Pigmalione, fuggì in Africa e dagli indigeni ottenne la terra che avrebbe potuto coprire con la pelle di un bue. Tagliandola in sottili strati riuscì a coprire proprio l’altopiano che fu il nucleo di Cartagine.
Durante le Guerre Puniche il romano Nevio le diede il nome di Didone e la legò a Enea. Virgilio si limitò a svecchiarne la poesia e aggiungere un mucchio di ghirigori.

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Note

*Per essere coerenti sarebbe stato meglio deletur (viene distrutta), sto parlando al presente. Deleta est è il passato remoto.
**La genealogia delle famiglie romane è una delle cose più entusiasmanti che conosca. Sul serio.
Guardate che splendore questa mappa, arriva fino al tribuno Clodio!

Duecentocinquant’anni di incroci di prim’ordine, siore e siori!

***Se Cartagine sia stata realmente cosparsa di sale o meno era oggetto di discussioni già nell’antichità. Dalla regia mi segnalano che in tempi realtivamente recenti se n’è occupato anche lo storico Brian H.Warmington (Storia di Cartagine, Torino, 1968), giungendo alla conclusione che la leggenda è falsa. L’obiezione che si fa comunemente riguarda il costo del sale che si sarebbe sprecato.
Personalmente sono portata a credere che, con l’odio secolare che lo stesso senato di Roma ha manifestato permettendo ai soldati di saccheggiare la città in lungo e in largo per giorni, requisire del sale ai villaggi vicini non sia sembrata una gran perdita a nessuno. Forse si trattò di un gesto simbolico. In ogni caso né Polibio né Appiano ne parlano e che di Livio non è rimasto niente dopo le guerre macedoniche.

Ringrazio di cuore Alessandro Madeddu per la regia e la lettura a tempo di record.

Lo strascico della chimera

Come promesso, paragoniamo la mia recensione a quelle dei principali network sui libri, quasi tutte da 4 stelline su 5. Prendendo spunto da questo articolo, le ho raggruppate in base al tipo di lettore.

Il cialtrone

E’ il secondo Vassalli che leggo.
E mi è piaciuto da morire. Mi è piaciuto il taglio storico, il lavoro di studio e di documentazione che c’è sotto e che si vede perché l’autore entra spesso a più pari nella narrazione, difendendo il suo ruolo di autore.
La storia si svolge a cavallo fra il 1590 e il 1610 e non si fa problemi di dare un quadro molto chiaro e lampante di quella che era la realtà di paese, ma non solo, allora.
Per poi scivolare, grazie a una precisa “realtà dei fatti”, in quella che è la storia del mondo, di tutti, qualsiasi sia il tempo.
Zerbino cresce, succhia vitalità, condanna, giudica, trova capri espiatori, crede a quello che non vede, modella quello che vede, festeggia e poi sparisce. Il tutto sotto l’occhio coinvolto e colpevole di chi non propone, non è in grado di proporre un’alternativa diversa, un’alternativa di vita.

Faccio notare che ha trasformato il nome del paese che tanto l’ha colpita da Zardino a Zerbino. Pensare che non abbia letto il libro significa saltare alle conclusioni?

L’intenditore

Il lessico di Vassalli è ricercato e perfettamente mimetico: se il narratore non s’introducesse spesso con commenti che rimandano ai giorni nostri, paragonando questa o quell’usanza al mondo moderno, potrebbe quasi sembrare un romanzo dell’epoca.

Esatto, meno male che l’autore ogni tanto s’intromette, altrimenti potremmo immedesimarci.

Per concludere: un libro non semplice da leggere, né scorrevole, ma che illumina su una barbara superstizione che solitamente, nell’immaginario comune e nella letteratura, viene attribuita principalmente alla Francia prerivoluzionaria, alla Spagna dell’Inquisizione, all’America puritana, ma che, senza scomodarci troppo, è appartenuta anche al nostro paese.

A parte il fatto che il libro è semplice – come detto, non c’è nulla da capire – ci sono due errori. Il primo è che non illumina su un bel niente, visto che non descrive torture né interrogatori e contempla un solo caso scelto fra i più banali; il secondo è che l’immaginario comune non sbaglia di molto nella collocazione dei peggiori focolai di stregoneria: Germania, Spagna, Nord Italia, Francia, Inghilterra sono state davvero le zone con più roghi. Il mito da sfatare semmai è legato al tempo: parli di streghe e un po’ tutti pensano all’Anno Mille*, quando il picco di condanne è stato a pochi anni dalla chiusura del Tribunale. Vale a dire proprio fra il Cinquecento e il Seicento, periodo in cui La Chimera è ambientato.

L’intenditore anglofono (più o meno)

“La Chimera” is like the perfect combination of “The Bethrothed” by Alessandro Manzoni, “Narcissus and Goldmund” by Herman Hesse and “The Moon and the Bonfire” by Cesare Pavese with a shade of Umberto Eco’s erudite irony.

Da che mondo è mondo vale l’equazione “nomi famosi = qualità”. Chi non apprezzebbe il senso dell’umorismo di Eco? Eppure la parte preoccupante viene dopo:

And yet I understand all those young students who complain about it considering “La Chimera” slow and boring. This is definitely a book you shouldn’t force sixteen years old guys to read at school: they will simply destest it.
Just let them grow up and discovering it by themselves. The ones who will are not going to complain about their choice.

Peter Pan diceva che gli adulti sono scemi. Io penso che lo scoprirò a diciott’anni, manca poco.

L’embrione di lettore consapevole

Sono numerosissime le figure delineate nel romanzo, tanto che, a volte, si ha l’impressione che l’autore si disinteressi della storia principale […]

Beh, finché resta un’impressione non andrà lontano, ma è un inizio.
Come non detto, il recensore si corregge subito:

Personaggi, storie, gesti, atmosfere contribuiscono a creare il minuzioso eppur emozionante affresco di un romanzo storico che si legge con compulsività malgrado gli spazi bianchi sulla pagina siano ridotti al minimo, le descrizioni arrivino al dettaglio e le deviazioni si aprano con frequenza: certo, un minimo di attenzione è necessaria, ma la fatica è ampiamente compensata (e la conclusione a dir poco splendida).

L’elemento ricorrente è la difficoltà di lettura. Parlarne dovrebbe far sentire intelligente chi, nonostante le condizioni improbe, è riuscito ad apprezzare il risultato… eppure questa gran difficoltà non c’è, quindi chi la trova si autodichiara un po’ scemotto. A meno che il disagio non stia nel sopportare la totale mancanza di difficoltà!

L’ermetico

Storia dolce e amara di sconfinata bellezza.
E’ stata la lettura di una notte: Antonia non sono riuscita ad abbandonarla fino alla fine, fino all’ultima pagina. Non è cosa semplice questo libro.
Puntini di sospensione e dissolvenza brumosa.

Ma siete capaci di mettere l’accento su quel verbo essere? Dovete proprio mettere sia il pronome che il nome? Non siete dal fruttivendolo! Coff coff.

Il vago

Affresco di un’epoca affascinante, terribile e poco nota, restituito dall’autore con insolita sensibilità, profondo amore per la sua terra e accurata precisione storica.
La narrazione, i cui particolari non sono mai lasciati al caso, coinvolge il lettore dalla prima parola all’ultima, senza annoiarlo un solo istante.

Affascinante e terribile, un po’ come… Come… Vabbè, ci siamo capiti. Solo una cosa non mi spiego: perché non scrivere direttamente “precisa precisione” o “accurata accuratezza”? Assonanza e consonanza sono figure molto poetiche!

Vendetta!

La mia vendetta su Colei che mi fece leggere La Chimera consiste nel nominare un buon saggio per i curiosi: Il libro nero della caccia alle streghe, di Vanna De Angelis. Fa esempi specifici tratti da epoche diverse, dal 1370 al Settecento e, con le sue trecento pagine, è perfino più corto della Chimera. È una perla all’interno di una trilogia per il resto piacevole, ma poco affidabile. Gli altri due volumi, Le streghe e Dalla parte delle streghe, trattano per esteso il fenomeno della stregoneria, dal Duecento all’Ottocento, con moltissime divagazioni – ben inserite, in questo caso – su leggende e credenze popolari.

L’Autrice

La De Angelis ha dominato la mia infanzia.
La trilogia di romanzi Il Grande Gladiatore — La Notte del Gladiatore — I Giorni del Colosseo si svolge nell’arco dell’Anno dei Quattro Imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano) ed è stata scritta insieme a Dario Battaglia, fondatore dell’Istituto Ars Dimicandi. Che non è poco. Anzi, è così tanto che le devo la mia passione per l’antica Roma e mi ha insegnato un mucchio di parole latine prima ancora che sapessi cosa fosse, il latino.
I cacciatori del tempo, un fantasy, non è altrettanto valido – un clichè ambulante – ma è scritto con onestà: è il genere di libro prevedibile e senza colpi di scena che occupa un pomeriggio senza farlo pesare.

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*Comodo per i cristiani buttare tutto il loro marciume nel Medioevo!