Generale: Publio Cornelio Scipione Emiliano contro Avaro, insignificante capo della città.
Forze schierate: 20.000/40.000 romani più la cavalleria numidica e dodici elefanti contro 8.000 numantini.*
Esito: alla fine di questo articolo, di Numanzia non saranno rimaste che ombre e polvere.
Motivo del conflitto: i celtiberi vorrebbero tenersi le loro appetitose miniere. Simpatici!
Effetti: le Spagne non si ribelleranno più in grande stile fino a Sertorio, fra sessant’anni.
Tre generazioni sembrano poche. Bisogna pensare al contesto storico: quante occasioni avranno i barbari con l’invasione cimbro-teutone, la guerra sociale, quella civile, la campagna contro Mitridate e il congedo di mezzo esercito per la crisi finanziaria durante la dittatura? Eppure non riusciranno mai a organizzarsi — non che la coordinazione sia il loro forte.

Le Spagne al momento della suddivisione in Citeriore e Ulteriore. Tarraco era il quartier generale romano.
Il più snervante tira e molla della storia romana
Altroché la guerra contro Mitridate del Ponto, le volte in cui Roma ha intrapreso e poi abbandonato l’azione di conquista delle Spagne sono un macello. Tant’è che le Guerre Celtibere si spalmano su tre periodi.
Nella prima fase il padre dei Gracchi vince e stravince, imponendo tributi e stanziamento di legioni nel cuore dell’Iberia.
Nella seconda Quinto Fulvio Nobiliore fa piazza pulita dell’esercito nemico in una battaglia contro Belli e Titti (valenti guerrieri, come dice il nome stesso). Numanzia, rifugio dei superstiti, gli resiste per tutto un inverno, l’assedio fallisce e l’anno dopo l’oppidum si arrende — è l’unico forte spagnolo ancora in mano ai ribelli!
Intanto Roma è costretta a dividere le forze (e i generali) per controllare i Lusitani.
Perché tutte le volte che in Portogallo si ribellano tocca andarli subito a punire?
È mia personale opinione che in Iberia il malcontento si diffonda per contatto visivo: se uno si sente stufo dei romani, magicamente lo diventano tutti quelli intorno a lui.
Una teoria più sensata è che i ribelli lusitani e celtiberi avrebbero puntato a unire le forze. Già sono problematici presi singolarmente, con la loro amata guerriglia, figurati a perdere il controllo di tutto ciò che c’è oltre le Alpi o quasi… tant’è che i primi resistono per sedici anni di fila.
Ma poi, varrà la pena di fare tutta ‘sta fatica per la Spagna?
Un passo indietro.
Fra il 210 e il 206 Scipione l’Africano, visto che tanto i cartaginesi stavano invadendo l’Italia da nord, ne ha approfittato per conquistare una fetta di Iberia che nel 197 è stata divisa in due Province, una sulla costa sud e una su quella ovest. Ciò ha permesso che, alla fine della Seconda Guerra Punica, iniziasse la caccia alle miniere d’argento dell’interno.
Da allora l’obiettivo è stato cacciarne i proprietari celtiberi. Fallire significa perdere l’eredità dell’Africano, oltre a un mucchio di soldi.
La terza fase impegna tanti bei nomi, dal buon Metello Macedonico a un Pompeo e da un Popilio Lenate a un Ostilio Mancino, che perde ventimila uomini in un colpo solo.
E poi arriva l’Emiliano.
Tanto per cambiare, solo per farlo console si deve ignorare la tradizione ed emendare la legge.
Tanto per cambiare, non gli si danno delle buone truppe — deve accontentarsi di quelle rimaste in Spagna, che appena vedono un barbaro scoppiano a piangere.
Prende il suo codazzo di sostenitori, ne fa un esercito personale e ordina i migliori cinquecento nella prima cohors praetoria.
Sbarca a Tarragona nel marzo del 134 e trova sì il principe Giugurta di Numidia coi rinforzi di cavalleria e gli elefanti, ma pure un cumulo di legioni per due terzi composte da iberi reclutati a forza, “un covo di prostitute [ben duemila, si disse… una ogni dieci o venti legionari], commercianti, indovini e fattucchiere” e in generale gente alla sesta campagna (in odore di congedo) che si nutre alla spese di Roma, in sostanza.
La creanza prima di tutto
Scipione ricomincia l’addestramento da capo: d’ora in poi ciascun soldato porterà sulle spalle grano per un mese e sette paletti da palizzata. Altroché asini e buoi!
Dopo mesi di marce estenuanti e mille imprevisti a causa delle incursioni dei vaccei, i rifornitori di fiducia di Numanzia, a ottobre Scipione pone l’assedio.

Finalmente. Adoro gli assedi.
Intorno al forte vengono costruiti sette castra, collegati da due fossati. Il più interno ha la classica palizzata e il terrapieno, più largo che alto; il più esterno, a circa duecento metri di distanza, viene lungo nove chilometri: taglia persino un laghetto e s’interrompe solo perché ci sono due fiumi, a ovest e a sud della città.
A Emiliano piace vedere le cose dall’alto: come a Cartagine, pensa alle torri — che qui sono trecento, una ogni trenta metri, alte due piani più delle mura. Uno per le segnalazioni e l’altro per le macchine ossidionali. Infine il Duero, che convoglia i rifornimenti da nord, viene bloccato collegando due torri sulle rive con dei tronchi e facendovi pendere coltelli e punte di lancia.
I legionari continuano a disonorare Roma e Scipione non si fa scrupoli a nascondere che li odia, ma le fortificazioni reggono e gli accorgimenti del generale funzionano.
Uno è quello, molto usato da Cesare, di permettere a chi vuole di entrare in città: più gente, meno cibo.
Come a Cartagine, il capo della città — nel nostro caso Avaro — rifiuta la resa incondizionata anche quando la situazione numantina è disperata. Finisce linciato.
Scipione lascia agire la fame. La resa giunge poco dopo, insieme a notizie un po’ macabre che ricordano la futura (okay, contraddizione in termini) Alesia: i primi a essere nutriti di carne umana sono stati i malati.
La cosa particolare è che Emiliano concesse a chi non voleva cadere in schiavitù qualche giorno per suicidarsi. In effetti molti iberi portavano sempre con sé una fiala di veleno, per evenienze come questa.
I sopravvissuti ai quindici mesi di assedio sono la metà della popolazione iniziale. Il generale ne sceglie cinquanta per il suo trionfo, vende gli altri e rade al suolo l’oppidum, stavolta senza aspettare il parere del senato e, penso, senza rimorsi.
Due parole sul personaggio, parte seconda.
La domanda è: come mai dieci anni fa Scipione ha pianto su Cartagine e adesso ha lasciato gli iberi a morire di fame e pestilenze?
Non ne ho idea. Fatto sta che in questa guerra Emiliano ha assunto una linea di condotta per certi versi molto simile a quella di Giulio Cesare. C’è l’intraprendenza nella costruzione di grandi opere per isolare il nemico e c’è una buona dose di brutalità — con un delizioso dettaglio: pare che in una sola notte abbia fatto tagliare le mani a quattrocento giovani capi dei ribelli, rei di aver mandato aiuti a Numanzia: tipico provvedimento cesariano.
Tuttavia, come fa notare lo storico Frediani, in Scipione non c’è un barlume di genio. O forse sarebbe meglio parlare di creatività. È forse l’unico grande generale a non aver donato nulla all’arte della guerra, limitandosi a non compiere errori. La soluzione di bloccare Numanzia e sedersi ad aspettare nel bel mezzo del nulla è al contempo un esempio di massimo risultato col minimo sforzo e di ineleganza — quindici mesi di nullafacenza sono stati uno spreco di risorse, con tutte quelle bestie d’uomini da nutrire come se se lo meritassero.
E poi, di’ un po’, non poteva costruire una stradina nei dintorni, già che c’era? Scherzo, scherzo, per carità!
Ciò dimostra anche una certa mancanza di esibizionismo. Nessun problema a creare precedenti pericolosissimi e a riempire le Tavole di leggi ad personam, ma mai strafare, mai rischiare di compromettere la missione. Per questo vogliamo bene a Emiliano.
Morte al tiranno!
Abbiamo detto che è stato adottato da uno Scipione. Costui ha una sorella, Cornelia, la madre dei Gracchi! La quale, della dozzina di figli che partorisce, ne vede crescere tre: Tiberio, che accompagna Ostilio in tutte le guerre che perde e che è il primo a scalare le mura di Cartagine, a sedici anni; Caio, che non ci serve a nulla; e Sempronia, moglie dello stesso Emiliano.
Con grande coerenza Scipione, costituzionalista convinto, giorà pubblicamente del linciaggio dei Gracchi e questo porrà fine alla sua carriera militare. Nell’opporsi alle loro riforme agrarie difende a spada tratta i popoli italici, minacciati di esproprio dalle loro terre in favore dei cittadini romani.
Morirà a cinquantasei anni dopo che la folla avrà invocato “morte al tiranno!” in sua presenza, pur avendo rifiutato una dittatura.
Bonus: breve storia di un fallimento memorabile
Metello in due anni soggioga gli Arevaci a meno della solita Numanzia**, che però almeno non ha più rifornimenti dall’esterno.
Bello, no? Nessun problema, basta sostituire Metello con un incompetente! Alla fine del suo mandato arriva un Quinto Pompeo che, trentamila legionari in pugno, d’impeto scavalca le mura di Numanzia…
… per farsi fermare da una palizzata.
Ora, ci si aspetterebbe, se non un’immediata sostituzione, almeno l’invio di una persona meno handicappata a fargli da reggigomiti. Cosa cui evidentemente nessuno pensa, dato che il gallo ha tutto l’agio di tentare e fallire l’ennesimo assedio. Se non c’era riuscito Catone…
Ecco, parliamone. Contro Numanzia pure Catone il Censore si è rotto i denti, nel 195, guadagnandoci un mucchio di perdite e un meritatissimo trionfo a Roma per aver assoggettato l’intera penisola.

In realtà “Mi piace l’odore del napalm, la mattina” è un aforisma di Catone il Censore. Si tramanda infatti che un modo alternativo di fabbricare questo particolare fuoco greco prevedesse l’impiego del garum.
*Non fidatevi. Sul Web non ho trovato uno straccio di stima che non mi sembrasse idiota. I barbari anglofoni addirittura si accontentano delle cifre iperboliche delle fonti dell’epoca, che dicono sempre qualcosa del tipo “Tito Quinzio Vetulonio, inciampando in uno scorpio, abbattè trecentosessantamila celtiberi e ne fece prigionieri trenta scagliando il suo pilum da due miglia di distanza”.

L’espressione tipica del lettore di testi antichi.
**Sappiamo che il vicino oppidum di Termanzia resistette con la gemella Numanzia almeno fino all’arrivo di Scipione. Poi se ne sono perse le tracce, ed è per questo che non l’ho mai nominato.
Appendici
I
Quando Nobiliore fu eletto console per l’anno 153 e gli fu affidata la guerra numantina, ottenne di entrare immediatamente in carica per non perdere tempo. Ciò significava iniziare l’anno consolare non più a metà marzo, come da consuetudine, ma il primo gennaio. Da allora si fece sempre così. La scena politica ne guadagnava in dinamismo, spettacolarità e instabilità. Ma c’è sempre un ma.
Mettiamo il caso che la Repubblica venga invasa proprio a dicembre: se i consoli restano in carica fino a marzo, nessun problema sul piano amministrativo — al massimo si rimandano le elezioni; se invece l’insediamento è a gennaio, è illegale che i vecchi consoli restino in carica più a lungo. Allo stesso tempo andare a votare con una guerra in corso è impensabile. Che si fa? S’infrange la legge?
Questi sono anche gli anni in cui l’ottantunenne Catone iniziò a romper l’anima coi discorsi contro Cartagine. Esatto: mentre i senatori erano con l’acqua alla gola per organizzare la guerra spagnola, lui promuoveva un’ennesima guerra contro un alleato.
E sì, credo fosse ovvio per tutti che Roma non potesse impegnarsi su due fronti, in quel momento.
II
Tiberio Sempronio Gracco, tribunus plebis nel 133 (cioè in contempornea col nostro assedio), partecipò sia alla distruzione di Cartagine che alla campagna di Spagna del 137, sempre alle dipendenze di tale Caio Ostilio Mancino.
Costui prima fallì in Africa e poi, nel 137, permise al suo esercito di ritirarsi di fronte al nemico fino a farsi inseguire, accerchiare e a perdere quattro o cinque legioni. Dopodiché dovette firmare una pace che garantisse l’indipendenza di Numanzia — quando erano decenni che il preciso mandato dei consoli era distruggerla — e non accadde di peggio solo perché Gracco mise una parolina buona coi barbari.
Tornato a Roma, il trattato fu considerato oltraggioso per la Repubblica (per un altro tipo di parolina buona, stavolta da parte dell’Emiliano) e il poveretto venne rispedito in Spagna nudo e in catene. I barbari lo rimpallarono indietro; seguì l’espulsione dal Senato.
Per Gracco, che a differenza di Mancino era aristocratico, non ci furono conseguenze, nonostante fosse stato lui a procurare quello schifo di pace.