Alesia, 52 a.C.

Generali: Cesare e Vercingetorige. Eh be’.

Forze schierate: dieci legioni contro 80.000 difensori intorno all’oppidum e, nella fase finale, 240.000 di rinforzo dall’esterno; una quantità imprecisata di cavalieri ausiliari romani, forse intorno ai 15.000, contro 8.000 cavalieri galli¹.

Esito: i Galli vengono sbaragliati, distrutti, annientati. Pare che ancora non l’abbiano superata, visto che per eroe nazionale hanno scelto il responsabile della sconfitta. 😀

Motivo del conflitto: perchessì difensivo! Vuoi che nel giro di qualche secolo ‘sti celti vagabondi non decidano di farsi un viaggio a sud?

Effetti: la Gallia diventerà il più docile cagnolino di Roma.

Prego, un'ultima occhiata ai Galli finché sono ancora interessanti.

Cavalieri d’Oltralpe. Oggi non solo saranno inutili, ma anche d’impiccio.

Cesare e Labieno di nuovo assieme, dicevamo. Chissà come ne è contento il giovane Marco Antonio, che le sue esperienze in Gallia le ha fatte sotto l’ala protettiva del generale! Adesso dovrà spartirsi le sue attenzioni con un gallo venuto dal nulla — o meglio, dallo stesso posto da cui viene Pompeo, il Piceno, che è anche peggio.

Illazioni a parte, Vercingetorige è costretto a ripiegare su Alesia, il che, per una volta, non è la scelta peggiore possibile — a sbagliare ci penserà tra poco.

Se Gergovia sorgeva su un colle circondato da colli, Alesia occupa un altopiano a forma di losanga in mezzo a una pianura circondata da colli. Su due lati scorrono altrettanti fiumi.
Come sempre finché non lo mettono in rotta, l’esercito gallo deve accontentarsi di un campo fuori dalle mura, per non gravare sulla popolazione.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Alesia corteggiata dai Romani. Incisione cinquecentesca.

Ora, la domanda è: Vercingetorige ha capito o no che, se perde qui, è finita?
Secondo me no. Altrimenti si proteggerebbe con qualcosa di più di una stupidissima muraglia alta due metri e un fossato che, per sopperire all’inutilità del vallo, dovrebbe essere profondo almeno fino al nucleo terrestre.

Copy of !!!

Allora cos’è, scemo?
No, semplicemente conta sui rinforzi in arrivo da tutta la Gallia. Immagina una manovra a tenaglia (che sembra sempre intelligentissima e in realtà da sola non serve mai a niente).

I legionari, per parte loro, in questo assedio smuoveranno due milioni di metri cubi di terra, a partire da due fossati interni e un terrapieno alto quattro metri addossato alla collina.

Ora, ogni epoca ha avuto i suoi metodi per assediare una città in santa pace, ovvero senza che il nemico le ammazzasse gli sterratori e senza usare l’intero esercito come vedetta.
I Romani fanno sempre i furbi e tendono trappole via via più crudeli fantasiose. Cesare ne inventa tre:

  • i cippi, rami collegati alla base per non essere divelti;
  • i gigli, pali spessi quanto una gamba, ben appuntiti e nascosti da rami, per i dieci centimetri scarsi di cui fuoriescono dal terreno;
  • gli stimoli o triboli, pioli (in latino talĕae, curiosamente²) con uncini di ferro conficcati a terra.

Da sinistra: triboli, gigli e cippi.

Vedendo questo gran daffare, i Galli sferrano subito il loro solito attacco di cavalleria, e come al solito vengono ricacciati indietro dagli ausiliari germani. Iniziamo bene: già adesso le linee galliche si spaventano tanto che Vercingetorige deve far chiudere le porte del campo, o i suoi se la svignerebbero in città.

I lavori durano un mese.
In questo periodo Vercingetorige fa alcune ottime cose, come liberarsi della cavalleria, ormai inservibile con quei trabocchetti, e realizzare di avere viveri solo per un mese — lui non lo sa, ma i Romani sono nella stessa situazione.
I suoi alleati invece non hanno idee particolarmente felici: parlano di mangiare i vecchi. Segue frettolosa decisione di evacuare la cittadinanza tutta, che invano si raduna da Cesare offrendosi in schiavitù per un po’ di cibo.

Ma tutto è bene quel che finisce bene! I rinforzi arrivano sulle colline attorno alla pianura e non sono niente male: duecentoquarantamila fanti e ottomila cavalieri.
Sì, altri cavalieri. Sono come dio, direbbe un mio professore: li cacci dalla porta e rientrano dalla finestra.

Nel frattempo le opere d’assedio romane sono concluse.
Il primo vallo, quello intorno ad Alesia, è ora dotato di palizzate, torrette e spuntoni simili a corna di cervo.
A difendere le spalle dei legionari dai rinforzi di tale Vercassivellauno è comparso un secondo vallo, come il primo dotato di otto fortini principali e ventitrè secondari.
I tranelli di Cesare concludono entrambe le linee. Interessante notare come il generale abbia mentito sul numero di file in cui ha organizzato i cippi: quindici invece di cinque, come rivelano gli scavi archeologici.

 La battaglia inizia a mezzogiorno del giorno dopo l’avvistamento di Vercassivellauno.

Come ormai abbiamo imparato, i Galli sentono il bisogno di farsi sconfiggere dai cavalieri germani prima di attaccare in massa. Al tramonto, soddisfatti di aver perso tutti gli arcieri e i fanti leggeri che in teoria avrebbero dovuto coprire la cavalleria, si concedono il meritato riposo. Salvo tornare a mezzanotte con fionde, frecce e sassi.

Vercingetorige ne approfitta per uscire dalla città.

Col buio le cose sono più difficili per i Romani che per i Galli: se i secondi, mirando sugli spalti, hanno ottime probabilità di beccare qualcuno, i legionari vanno a tentoni. Lo stesso gli ufficiali che, per la difficoltà dei collegamenti tra gli otto castra, possono solo fare congetture su quale zona abbia bisogno di rinforzi e quale no.

All’alba si raggiunge lo stallo; le perdite sono ingenti da entrambe le parti. I Galli decidono di ritirarsi, lasciando i fossati mezzi pieni. E qui Cesare ci stupisce riferendo che Vercingetorige aveva sfoderato delle macchine da assedio. Non sappiamo nient’altro, in proposito.

Ah sì? E da dove spuntano fuori? Come sono fatte? Parla, Cesare!

Ah sì? Be’, potevi parlarne un po’ di più, Caio Giulio.

Incredibile a dirsi, si tratta di una ritirata strategica: a preoccupare i difensori è uno dei castra romani, appollaiato com’è su un’altura, e non in pianura come gli altri.
Per risolvere la questione, la notte parte dell’esercito di rinforzo si nasconde dietro una collina più alta. Vercingetorige, che non comunica affatto con l’esterno, intuisce la mossa e riesce ad attaccare in simultanea.

Il risultato è che Cesare, a sua volta appostato su un’altura, deve far correre i suoi di qua e di là per allentare la pressione. Alla fine anche Labieno viene scomodato per portare sei coorti in quel povero castraminacciato da tutte le falci murali, da tutti i graticci e dalla terra per colmarne i fossati e da tutte le scale disponibili.

Cesare dà il colpo di grazia, ripulendo il vallo in pianura e soccorrendo Labieno.
Il quale, udite udite, era così in difficoltà da dover tentare un’azione disperata — per non dire suicida, accidenti — come radunare trentanove coorti (cioè quasi quattro legioni) e buttarsi a capofitto nello scontro.

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Questo è il bello dello stile di Cesare: i movimenti di Labieno in realtà erano premeditati. Era il Piano B!
Infatti, nell’ultima manifestazione di sovrumana efficienza del Libro Settimo, il Divo è pronto a venirgli incontro con quattro coorti e qualche cavaliere, mentre altri cavalieri prendono i Galli alle spalle.

Il peggio è fatto. Anche in questo caso, il fatto che i Galli non siano morti tutti e trecentomila ad Alesia è dovuto solo alla stanchezza dei legionari.

Il giorno seguente, forse il 26 settembre, Vercingetorige si consegna a Cesare. Accetta le condizioni di resa, pur durissime, senza fiatare.
Leggenda vuole che sia uscito dal campo nella sua corazza migliore, sul miglior cavallo, e che abbia fatto un giro attorno alla sella curule del Divo per poi smontare, gettargli l’armatura e sederglisi ai piedi, tranquillo.

Lo attendono sei anni di carcere, una sfilata in un trionfo decisamente sottotono e una morte squallida.

Vercingetorige himself. Particolare della statua di sette metri voluta da Napoleone III nel 1865.

Appendice I

Come avevo anticipato, per Alesia Cesare ha in testa l’assedio di Numanzia di ottant’anni prima.

Anche lì c’erano state due linee di fortificazioni (in quel caso fossati, non valli) separate da duecento metri. Solo che i terrapieni costruiti a parità di tempo da Cesare sono lunghi due volte e mezzo quelli dell’Emiliano… Questo dà un’idea dell’aura di fretta che doveva portarsi appresso quell’uomo.

Appendice II

Un momento di apprezzamento per il Divo Giulio. Non è da tutti pensare a presidiare una zona non in difficoltà quando si hanno trecentomila galli concentrati su un unico bersaglio.
Il fatto è che, come nota lo stesso Cesare, era fondamentale scongiurare anche la minima possibilità di sfondamento del vallo in pianura, perché da lì i Galli avrebbero avuto accesso all’intera rete di trincee, ovvero a una vittoria schiacciante — questione di pressione, ancora una volta.
Ancora, è sempre commovente come gli basti un pugno di uomini — duemila o poco più, nel caso di Labieno — per rigirare la frittata.

***

¹Dati forniti dallo stesso Cesare, quindi verosimili, confermati dai ritrovamenti archeologici, ma prendeteli con le pinze eccetera eccetera.
Come al solito, dare una cifra è un azzardo e non mi allontano di molto dal vero se dico che anche gli storici si producono in voli pindarici, o meglio con un margine d’errore del 10-20%. Non ha senso.
Per darvi un’idea, la legione modello di Cesare conta 6.000 uomini divisi in dieci coorti. Cesare si serve più di queste ultime che della legione come unità tattica — abbiamo visto per esempio che lascia 22 coorti al cugino Lucio, cioè due legioni e un quinto — e per questo è difficile capire cosa intenda per “dieci legioni”: con tutti gli spostamenti che ha fatto, ci saranno legioni da venti coorti come da otto.
Uno dice: vabbè, il totale è lo stesso, l’intero esercito è radunato ad Alesia. E invece no, perché nemmeno le coorti hanno sempre 600 uomini l’una. Anzi, dopo quattro anni di guerra ininterrotta e due senza rinforzi, è probabile che siano quasi tutte a ranghi ridotti.

È un pasticcio, regà.

²Dico “curiosamente” perché le talee già per i latini indicavano le parti di pianta usate per farla riprodurre altrove.
Insomma, casomai voleste anche voi un certo fiore o albero da frutto che avete visto in giro, potreste provare a staccargli un rametto (meglio se ha una gemma). Poi mettetelo in acqua: se gli sbucano le radici, è fatta.
Comunque, l’attinenza tra talee e pioli rimane per me un mistero.

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Cartagine, 146 a.C.

Generali: Publio Cornelio Scipione Africano Minore, in sintesi l’Emiliano, contro Asdrubale.

Forze schierate: 80.000 romani e 150 longae naves contro 50.000 punici. Circa. Sappiamo però che, fin dal 212, Roma mantiene venticinque legioni sparse per il mondo.

Esito: vittoria romana.

Motivo del conflitto: Cartagine non ha molto ben compreso la lezione di Zama.

Effetti: Carthago deleta est*.

Annibale in compagnia della *SPOILER* testa del fratello.

Annibale in compagnia della *SPOILER* testa del fratello.

La Terza E Ultima Guerra Punica ha inizio con Asdrubale che attacca Massinissa di Numidia, alleato di Roma, proprio sotto il naso di un Emiliano in cerca di qualche elefante da scaraventare contro gli iberi (che, per la cronaca, possono anche iniziare a godersi i loro ultimi quindici anni).
Dopo Zama Cartagine non può dichiarare guerra a nessuno senza il permesso del senato, ma naturalmente la vita è troppo breve per stare ai patti — e poi, ci sono sempre gli ambasciatori! Gli sventurati arrivano a offrire

  • la testa di Asdrubale,
  • trecento ostaggi,
  • tutte e 2.000 le catapulte,
  • tutte e 200.000 le armature in loro possesso.

Il popolo li lincia. È mia modesta opinione che la colpa di tanta scortesia siano state le sceneggiate di un certo Marco Porzio. Tanto fra un po’ muore.

Poco dopo, quattro legioni e centocinquanta navi da guerra giungono in Africa con l’ordine di distruggere la città e deportarne gli abitanti. Però i generali sono due, e nemmeno uno è quello giusto: convinti di entrare in una città in ginocchio, Censorino e Manilio si mobilitano mesi dopo lo sbarco (estate 149). Il primo, forte della flotta, si accampa sulla Glossa, mentre Manilio occupa l’istmo, per impedire i rifornimenti dall’interno. Ricordiamo come quella del “Dividiamoci!” sia sempre un’ottima idea… soprattutto sapendo che Asdrubale è fuori città in cerca di armati.

La città come disegnata sulla Geschichte der Karthager.

La città come disegnata sulla Geschichte der Karthager.

Nel frattempo i cartaginesi, stando alle fonti, in mancanza di ferro e bronzo hanno fuso oro e argento per fare armi, fabbricando cento scudi, trecento spade, cinquecento lance e mille frecce al giorno. Orosio, che essendo cristiano crede e scrive barzellette, riporta che persino le donne abbiano sacrificato i capelli per farne funi da catapulta.
Non c’è dubbio, serve un assedio. Censorino dovrebbe tappare questo porto:

Il canale è per le navi commerciali, il cerchio per quelle da guerra. Molto chic. Fra poche righe non esisterà più.

… e le paludi glielo impediscono. Contemporaneamente Asdrubale piomba alle spalle di Manilio, chiuso tra il deserto e la rocca — parliamo di mura spesse dieci metri e alte quattordici, in quel punto. Imprevedibile, eh?
Le decine di piccole sconfitte che verrano subite da quattro consoli diversi nel giro di due anni sono da manuale: legionari che attraversano un fiume trovando il nemico in posizione favorevole, di solito su un altopiano; truppe cui, per mera mancanza di polso, viene permesso di frammentarsi fino a ingaggiare dozzine di microcombattimenti; insomma, un gran spreco di potenziale. Fortuna che c’è sempre il tribuno Emiliano a salvare i soldati da morte certa.

Il suo momento arriva alla morte di Massinissa: come sistemare i tre figli legittimi? Divide et impera. Scipione assegna al primo la sovranità nominale, al secondo l’esercito e al terzo la giustizia (povero Mastanabale!), per poi farsi amico quello che mena: Golussa. Gli alleati di Asdrubale diminuiscono… finché l’operato dei nuovi consoli non li induce a cambiare nuovamente bandiera.
Così a Roma si inizia a invocare Scipione, che a trentasei anni è troppo giovane per fare il console. Ma quando si hanno allo stesso tempo il popolo e Catone dalla propria non è un problema infrangere la legge!

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Basta un emendamento, regolarmente proposto da un tribuno della plebe e approvato senza difficoltà. Tuttavia costituisce un precedente fondamentale: di fatto si passa da “Il mos non si tocca!” a “Se l’abbiamo già fatto, perché non ripetere?”, cioè alle condizioni che permetteranno a certe personalità ingombranti di emergere.

Da console Scipione può dedicarsi all’attività per cui diverrà famoso a Numanzia: riportare la disciplina fra i debosciati.

All’inizio del  147 si trova degli uomini demoralizzati e pigri, che da mesi non impugnano un gladio nemmeno per esercitazione, dove la diserzione in favore dei cartaginesi è un fenomeno comune. Più che legionari, dei predoni. Ordina di considerare nemico chiunque non si trovi a distanza di squillo di tromba; in primavera è pronto, ed escogita una mossa molto particolare.
I punici hanno mancato di demolire una torre; grazie a questa alcuni soldati riescono ad arrivare sugli spalti e ad aprire una porta della città, attraverso la quale entra un’intera legione. Asdrubale accorre per cacciarli e ne fa strage, costringendo Scipione alla ritirata e abbandonando il presidio sull’istmo.
Il sacrificio di tanti buoni soldati può dirsi ripagato: adesso il blocco terrestre è efficace e il Beotarca è prigioniero nella sua stessa città. Dopo tre settimane il lato ovest di Cartagine è completamente sigillato da quattro fossati disposti a rettangolo, di cui quello verso la città dotato di torre per spiare oltre le mura.

Questa torre si rivela subito utile, svelando le esercitazioni di una flotta costruita in fretta e furia col legno delle case distrutte. Quando infatti Scipione sta finendo l’argine che chiuderà il porto, ad Asdrubale non resta che tentare il tutto per tutto. Senza il fattore sorpresa la sortita si trasforma in una sanguinosa battaglia vinta dai romani. Le sorti dell’Africa sembrano già decise. E in effetti è così, per quanto il nemico riesca a incendiare le macchine ossidionali romane. Alla fine quel maledetto porto viene definitivamente bloccato e Scipione può permettersi di offrire una tregua e un salvacondotto per Asdrubale e famiglia – rifiutati. E allora che muoiano di fame! Dall’inverno alla primavera del terzo anno i romani siedono immobili mentre il Beotarca arriva a torturare e gettare dagli spalti i prigionieri, pur di costringere i suoi a resistere, e a bruciare gli edifici del porto per restringere il fronte – un vantaggio anche per Scipione, tra l’altro.

Guardatela un'ultima volta.

Guardatela un’ultima volta.

Ad aprile c’è l’attacco finale alla Byrsa, la rocca. Uno dei primi a scalarne le mura è il futuro tribuno delle plebe Tiberio Sempronio Gracco, che incroceremo ancora a Numanzia. Mentre i difensori si accalcano al centro della città, il grosso delle truppe romane sfonda a sud e arriva davvero fino alla rocca.
Iniziano i lentissimi combattimenti per le vie, coi legionari costretti a usare i forconi per spazzare via i cadaveri e i cartaginesi che hanno case di sei piani da cui lanciare gli oggetti e i liquidi più disparati.

Quasi una settimana dopo, Scipione è nella Byrsa. Davanti a lui ci sono 55.000 persone, un decimo della popolazione. Ai suoi piedi Asdrubale con moglie e figli, che implora pietà – esattamente quello che aveva giurato di non fare – e l’ottiene.
A questo punto il vero uomo della casa, la moglie, prende i figli e si getta tra le fiamme insieme a novecento disertori romani.

La guerra potrebbe anche finire con la solita deportazione degli abitanti e il pagamento delle indennità, cosa per cui Scipione combatte (anche perché Catone è morto da tre anni), ma non c’è niente da fare. Cartagine brucia per diciassette giorni, viene arata, cosparsa di sale e maledetta***.
Scipione, rivolto al proprio maestro, commenta:

Polibio, è un glorioso momento, è vero, ma non so come, ho paura e già vedo il momento in cui un altro darà lo stesso ordine contro la nostra patria.

Non dire così, Scipio!

E scommetto che Cicerone penserà a queste parole quando si vanterà di aver sconfitto il nobile Catilina.

Due parole sul personaggio, parte prima.

L’Italia, soprattutto quella didattica, è piena di idioti che pensano che l’Emiliano prenda il nome da Reggio Emilia. Guarda caso, però, in quella zona (molto gallica e poco romana) non ci sono state grandi battaglie, e la città è stata fondata da un certo Marco Emilio Lepido col nome di Regium Lepidi. In effetti da che mondo è mondo sono le città a derivare il nome dal fondatore, non certo il contrario.

Come Roma, che deriva palesemente da Romolo. Qui ritratto mentre porta al tempio di Giove Feretrio le spoglie opime di Acrone, capo dei Ceninensi.

Semplicemente, c’era una volta Lucio Emilio Paolo, detto Macedonico per aver sterminato gli Antigonidi e figlio dello sconfitto di Canne**. Costui generò quattro maschietti e due femminucce da due donne diverse, e così si trovò a dover dare in adozione due cuccioli di Emilio Paolo. Il primogenito andò a un Quinto Fabio Massimo, diventando Massimo Emiliano (nonché futuro padre di un tizio chiamato l’Allobrogico), il secondo al figlio di Scipione l’Africano, diventando Scipione Emiliano (nonché futuro padre di… nessuno). Ecco svelato l’arcano.
Questo è il momento in cui le grandi gentes iniziano il loro declino: all’epoca di Silla sarà rimasto un solo Fabio (morto senza eredi) e nessun Emilio del ramo dei Paoli.

Appendice: la Byrsa

In lingua punica significa “luogo fortificato”, ma i Greci preferirono ambientarci una delle loro leggende. L’equivalente fonetico nella loro lingua, βυρσα, significa “pelle”. Da qui la storia, ripresa e distorta da Virgilio, secondo cui Elissa, sorella di Pigmalione, fuggì in Africa e dagli indigeni ottenne la terra che avrebbe potuto coprire con la pelle di un bue. Tagliandola in sottili strati riuscì a coprire proprio l’altopiano che fu il nucleo di Cartagine.
Durante le Guerre Puniche il romano Nevio le diede il nome di Didone e la legò a Enea. Virgilio si limitò a svecchiarne la poesia e aggiungere un mucchio di ghirigori.

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Note

*Per essere coerenti sarebbe stato meglio deletur (viene distrutta), sto parlando al presente. Deleta est è il passato remoto.
**La genealogia delle famiglie romane è una delle cose più entusiasmanti che conosca. Sul serio.
Guardate che splendore questa mappa, arriva fino al tribuno Clodio!

Duecentocinquant’anni di incroci di prim’ordine, siore e siori!

***Se Cartagine sia stata realmente cosparsa di sale o meno era oggetto di discussioni già nell’antichità. Dalla regia mi segnalano che in tempi realtivamente recenti se n’è occupato anche lo storico Brian H.Warmington (Storia di Cartagine, Torino, 1968), giungendo alla conclusione che la leggenda è falsa. L’obiezione che si fa comunemente riguarda il costo del sale che si sarebbe sprecato.
Personalmente sono portata a credere che, con l’odio secolare che lo stesso senato di Roma ha manifestato permettendo ai soldati di saccheggiare la città in lungo e in largo per giorni, requisire del sale ai villaggi vicini non sia sembrata una gran perdita a nessuno. Forse si trattò di un gesto simbolico. In ogni caso né Polibio né Appiano ne parlano e che di Livio non è rimasto niente dopo le guerre macedoniche.

Ringrazio di cuore Alessandro Madeddu per la regia e la lettura a tempo di record.

Magnesia, 189 a.C.

Generali: Publio Cornelio Scipione l’Africano (formalmente il fratello Lucio) contro Antioco III il Grande di Siria.

Le altre fanno le fan art degli One Direction, io i collage di gente morta.

Da sinistra: Antioco e Scipione in una foto d’epoca. Notare l’approccio aristocratico e romano del primo.

Forze schierate:
4 legioni da 5.400 uomini l’una;
3.000 fanti leggeri, fra pergameni e achei, dotati di caetra, un piccolo scudo di cuoio. Anche detti ‘peltasti’;
3.000 cavalieri romani;
500 guerrieri tralli e cretesi di riserva;
2.000 volontari macedoni e traci a presidio dell’accampamento;
16 elefanti sahariani, piccoli e ben addomesticati.

CONTRO

16.000 falangiti;
19.700 fanti di varie etnie;
12.500 cavalieri, di cui 6.000 catafratti più o meno pesantemente;
1.000 guardie del corpo a cavallo per il re e la corte appiedata di Argiraspidi, gli ‘Scudi d’Argento’;
1.200 arcieri a cavallo e 2.500 a piedi;
3.000 fanti tralli e cretesi – gente indecisa, dal momento che anche l’Africano ne ha;
4.000 tra frombolieri di Persia e arcieri di Media;
54 elefanti asiatici, enormi e indisciplinati, cavalcati da quattro guerrieri più un conducente ciascuno;
Bonus: bighe e quadrighe falcate e arcieri arabi a dorso di dromedario, con tanto di stuzzicadenti sottili spade lunghe un metro e ottanta.*

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Questo è un peltasta: un fante molto leggero.

Esito: schiacciante vittoria dei romani.

Motivo del conflitto: secondo Antioco era il momento giusto per farsi un giro in Europa mentre Roma era prostrata dalle guerre puniche. Capiamolo, stava solo cercando di ripigliarsi quello che il padre si era fatto togliere nei suoi tre anni di regno. E poi, doveva liberare i greci rimasti sotto il tallone dell’Urbe dopo le guerre macedoniche.

Effetti: pace di Apamea. Roma lascia agli alleati gran parte dei nuovi territori: una Provincia così lontana non è gestibile, per ora; tuttavia si trova a controllare indirettamente le tre monarchie  ellenistiche superstiti (l’Egitto è da poco sotto una specie di protettorato). Antioco dovrà chiedere il permesso anche per starnutire, cosa che avrebbe dovuto fare pure la Strazzulla.
Si manifesta una volta di più la superiorità della legione rispetto alla falange.

Il trattato di Apamea, 188, vede il regno di Pergamo andare a Roma. In rosso la città di Magnesia.

Il trattato di Apamea, del 188, prevede l’espansione del regno di Pergamo a danno della Siria. In rosso la città di Magnesia.

A Zama uno Scipione trentatreenne ha sì distrutto la supremazia di Cartagine, ma si è anche lasciato sfuggire Annibale. Costui, dopo tanto peregrinare, è giunto alla corte del Gran Re seleucida Antioco. Ha provato ad aizzarlo contro Roma e a cavargli 10.000 fanti, 1.000 cavalieri e 100 navi per tornare in patria, fomentare l’ennesima ribellione e invadere di nuovo l’Italia, ma non c’è stato verso. Buon per Antioco, perché sarebbe stato un errore tattico e uno stupido anacronismo. L’unica cosa che il Barca ottiene è di mettere in fibrillazione i vecchietti del senato, che subito immaginano grandi mobilitazioni di flotte e legioni.
Mesi dopo, gli etoli, recente conquista capitolina, invitano i siriaci a casa loro per cacciare i romani. È il 192 quando Demetriade, un porto strategico nel nord della Grecia, cade in loro mano.

L’Etolia era un posto poco raccomandabile.

Ed ecco a voi lo spettacolo di Antioco e Annibale che tirano su i primi 10.500 uomini disponibili e puntano a rotta di collo su Calcide d’Eubea, occupandola senza problemi. Sarà la trecentesima volta nella Storia che l’Invasore Asiatico™ riesce ad accaparrarsi l’isola senza incontrare resistenza.
Ora, non è che Roma sia potentissima, sull’altra sponda dell’Adriatico. La Grecia è spezzettata in città-stato e leghe, impotente, mentre a nord la Macedonia di Filippo V non aspetta altro che di farne un sol boccone. Il senato decide di regalargli (restituirgli, in realtà) alcune poleis in cambio di sostegno. Così abbiamo dei macedoni contenti e dei greci furiosi, sballottati come sono da un padrone all’altro.
Finalmente Antioco si azzarda a sbarcare in Tessaglia e a raccogliere quei quattro ciuffi di etoli armati, solo per capire che conquistare una a una tutte le piazzeforti di Grecia è una pazzia e ritirarsi quando vede l’esercito romano-macedone. È il gennaio del 191 ed è già incappato in due imprevisti: l’immediata mobilitazione di Roma – a soli tre mesi dalla dichiarazione di guerra, quando a lui i rinforzi arriveranno dopo l’inverno – e lo schieramento della Macedonia, che aveva sperato neutrale. Annibale borbotta in un angolo, ignorato da tutti. 
In realtà Manio Acilio Glabrione arriva con un vero esercito solo un mese dopo: nelle prime tre settimane di primavera, 20.000 fanti, 2.000 cavalieri e 15 elefanti romani riconquistano tutte le rocche perse. A fine aprile Antioco, ancora a corto di rinforzi, è costretto a indietreggiare fino alle Termopili, per impedirgli l’accesso alla Grecia centrale. Poi arriva Catone con duemila uomini, cui importa moltissimo di ficcarsi in combattimenti con un rapporto di 5 a 1 per gli altri, e lo schioda pure di lì. Se vi concentrate potete ancora sentire l’eco del tappo di spumante (Antioco) che viene sparato via. Lontano. Fuori dalla Grecia e fuori dall’Europa. Ma non prima che un Livio Salinatore, insieme alle flotte di Pergamo e Rodi, lo sconfigga anche sul mare. Una scaramuccia che non impedirà affatto all’ammiraglio, Polissenida, di tornare a rompere l’anima ai romani.

Catone il Censore nella sua posa più fotogenica.

Adesso sì che si ragiona. Vedendo che Antioco non è invincibile, a Roma si diffonde la volontà di annientarlo. Scipione cavalca l’onda, proponendo di portare la guerra in Asia come fatto in Africa. Notare che, per il popolo, il nemico da battere è ancora Annibale. E c’è solo un uomo in grado di farlo.
I consoli per il 190 sono Caio Lelio e Lucio Scipione, rispettivamente migliore amico e fratello dell’Africano. A fine aprile, un nuovo esercito romano di 13.000 fanti e 500 cavalieri si congiunge a quello di Glabrione e liquida in tutta fretta gli ultimi etoli ribelli: non sono certo loro il problema. Bisogna arrivare ai Dardanelli.

L’Ellesponto prendeva il nome da Elle, la fanciulla cui Frisso permise di cadere dall’ariete col vello d’oro e annegare.

Antioco ha previsto tutto e si è organizzato. Durante l’inverno ha manovrato la flotta in modo da minacciare Rodi, Pergamo e le vie di rifornimento dall’Italia, in modo da impegnare il nemico su più fronti e impedirgli di puntare tutte le forze sullo stretto. Riesce in buona parte del piano: mentre Polissenida tiene valorosamente la posizione, Annibale, pure in superiorità numerica, si fa sconfiggere dai rodii. È l’agosto del 190. Rimasto solo, l’ammiraglio resiste un mese prima di veder affondare 42 delle sue 89 navi.
Nel frattempo, gli Scipioni avanzano via terra.
Dopo un mese di temporeggiamenti, che portano via gli ultimi alleati rimasti ad Antioco, quest’ultimo prova a offrire la pace a condizioni per lui umilianti. Ma è tardi, e lo stesso Africano, pur avendo un figlio ostaggio del re, se ne prende gioco e ne rifiuta la liberazione in cambio di un trattato. Gli dice che, se Antioco vuole restuirglielo, avrà la sua gratitudine solo in privato. Beh, a questo punto i patteggiamenti s’interrompono. (Per la cronaca, il povero Scipione Jr. riabbraccerà il padre, malato, di lì a poco)

Il re è insicuro. Fa avanti e indietro cercando la posizione ottimale per la sua falange, coi romani che gli corrono dietro finché non si decide per un’enorme pianura nei pressi di Magnesia.
Ha anche ragione, poveraccio: la falange non è certo un modello di versatilità, non è che si possa schierare ovunque. Solo che in questo modo il nemico si imbaldanzisce. I legionari iniziano a guardare ai siriani come a un gregge di pecore da sgozzare. Le accurate opere di trinceramento e alcune piccole dimostrazioni d’incapacità nella gestione della cavalleria fanno il resto. Per esempio, è interessante notare come i non-romani, siano essi orientali o nordici (l’abbiamo già visto qui), commettano sempre lo stesso errore: attraversano un fiume per andare incontro al nemico, mettendosi così in condizioni di non poter ricevere rinforzi.

Un comportamento degno di un troll.

Ci siamo. Quando Antioco non può più procrastinare senza perdere la faccia, si schiera. L’idea di partenza è buona: disporre al centro i suoi 16.000 falangiti divisi in 32 file, in modo da ottenere uno schieramento stretto e profondo, con una gran capacità di penetrazione. Sarà il punto che respingerà le quattro legioni. La peculiarità è che questa falange è divisa in dieci sezioni, separate da due elefanti ciascuna. In teoria aumenta la spinta, in pratica… lo vedremo.
Le ali sono speculari: andando dal centro verso l’esterno, si inizia con armi e corazze pesanti per arrivare ai frombolieri sulla destra, protetta dal fiume Frigio, e a generici fanti leggeri sulla sinistra. Antioco e la sua nutrita scorta stanno a tribordo, stupidamente: quando mai s’è visto che il generale della situazione si chiuda fra il centro e un fiume?
La seconda buona idea è creare uno schieramento “tridimensionale” invece che lineare, con i catafratti coperti da bighe, quadrighe e quei ridicoli dromedari arabi.

Lo schieramento romano è classico: due legioni capitoline al centro, due italiche ai fianchi, alleati e cavalleria alle ali. Quella sinistra, che si ritrova di fianco al fiume e davanti al re, consta di sole quattro torme (120 cavalieri). Grosso errore.

Questa cosa dell’eterogeneità. Parliamone. È pessima dal punto di vista della coesione, certo, ma ci puoi fare tutto. Puoi schierarti ovunque perché hai truppe provenienti dalle zone più diverse e puoi annientare qualunque forza perché hai un tipo di soldato per ogni debolezza esistente: hai i catafratti per la cavalleria leggera, i fanti corazzati per quelli leggeri, le bighe per i più scalcagnati e gli arcieri a cavallo per i più formidabili. Tutto sta nel disporli bene, e Antioco tutto sommato l’ha fatto. però Però si è disposto male lui e ha scelto il giorno sbagliato per combattere. C’è nebbia, e dalla destra non vede nemmeno cosa sta combinando il centro. C’è umidità, e le corde di archi e fionde, le corregge dei giavellotti si sono allentate. Bighe e quadrighe dovrebbero scompaginare gli ausiliari pergameni, ma il re Eumene lo evita semplicemente facendoli avanzare in ordine sparso. Dopodiché i suoi arcieri e frombolieri hanno tutto l’agio di ferire i cavalli nemici, diffondendo il panico pure fra i dromedari.
Ora i catafratti sono scoperti, e la fanteria leggera romana si fa da parte per lasciare che la cavalleria li annienti. Reazione a catena. Lo scompiglio si estende all’intera ala destra e al centro, mettendo fuori gioco le lunghe sarisse dei falangiti. Chi fugge si getta fra le file della falange, dritto fra le zampe degli elefanti. Accade di tutto: gli opliti che restano a guardare mentre i legionari li ammazzano comodamente a distanza di tiro di giavellotto, la riserva centrale siriana che viene sorpresa alle spalle da un focoso Enobarbo, l’ala sinistra romana che cede miseramente all’attacco del re ed espone le legioni a spinte anche dal fianco – situazione risolta col solito provvedimento disperato: il tale tribuno Marco Emilio ferisce tutti coloro che provano a ritirarsi, tamponando l’emorragia.
Non si sa bene come, alla fine duecento cavalieri romani dell’ala destra riescono a farsi strada fino a Emilio. Basta questo per indurre Antioco a svignarsela verso il proprio accampamento.
A quest’ora i falangiti sono morti tutti e sedicimila, tanto che i legionari s’incattiviscono perché i cadaveri impediscono loro di muoversi.

Fatto: a fine giornata ci sono solo quattrocento nemici da far prigionieri, gli altri sono morti. Un’ecatombe vecchio stile. Solo che Annibale non è fra gli ostaggi… è fuggito ancora! Fra un po’ sarà alla corte di Prusia di Bitinia (la cui neutralità è stata pagata profumatamente da Roma) e fra sei anni si suiciderà, braccato dell’ubiquo Flaminino.
L’esercito romano impiegherà sei mesi a rientrare in Italia, causa barbari, mentre Antioco morirà nel 187, un anno dopo la pace di Apamea, ammazzato mentre saccheggia un tempio.

Un presunto ritratto di Annibale, uomo dalle mille risorse.

Questa è una delle mie battaglie preferite, più che altro perché Antioco è un personaggio molto particolare: più prudente e organizzato dei soliti despoti orientali, ma sfortunato. Avrebbe davvero potuto vincere, con tutti gli errori commessi da Lucio Scipione e i numerosi nemici di Roma. Che cosa sarebbe successo se avesse avuto il buon senso di allearsi con l’Egitto? Di certo non si sarebbe deciso tutto in un giorno. Invece questo è periodo in cui un solo scontro campale comporta la perdita di interi eserciti e regni: epico!

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*Tutte le cifre riportate sono ampiamente discutibili. Sono stime lette nei saggi di Andrea Frediani (cfr. Le grandi battaglie di Roma antica, ‘La guerra siriaca’, pp. 154-156), purtroppo abbastanza poco precise: a distanza di poche pagine, l’autore concorda con quasi tutti gli altri storici moderni nell’assumere il totale dei fanti di Antioco a 60.000 unità, quando le cifre sopra riportate non lo fanno arrivare a 50.000. Avrei potuto riportare altri studi, magari più autorevoli, ma non sono i numeri che m’interessano: l’importante è che si comprenda la differenza fra gli schieramenti.
Persino l’anno è controverso: le fonti anglosassoni riportano il dicembre 190 a.C., tutte le altre l’inizio del 189. Impossibile, o difficile al limite dell’inutile, determinare quanto fosse inesatto il calendario dell’epoca per riaggiustare la data.
La fonte storica principale è Appiano, insieme all’onnipresente Livio.