Antioco vs. Perseo

Non sono molto fiera di aver pensato questo post. Vista l’intelligenza dei contendenti, mi sa tanto di combattimento tra babbuini… Fa niente.

Antioco III di Siria vs. Perseo “il Senza Numero” di Macedonia: Chi il più imbecille valido?

Partiamo dalla fine.
La Siria con Magnesia ha perso un mucchio di territori — tutta la penisola anatolica e la Tracia, che le davano accesso all’Europa — e la libertà di dichiarare guerra senza il consenso di Roma.
La Macedonia con Pidna ha perso città e influenza in Grecia, la dinastia regnante, la casta aristocratica, l’unità e l’indipendenza.
Se la validità di un capo si misura dalla sua capacità di attutire il colpo dopo una caduta, vince Antioco.

Di contro, Perseo ha avuto molto meno tempo per preparare la sua guerra, mentre Antioco l’ha pianificata a tavolino con mesi o forse anni di anticipo, a giudicare dal numero di alleati cui è riuscito a spillare uomini. Vero è che con Antioco c’era Annibale e che le cose hanno cominciato ad andar male quando lo si è snobbato troppo…

C’è poi da dire che in entrambi gli eserciti figura ed è determinante la falange, in un caso (probabilmente) di tipo greco e nell’altro macedone.
Semplificando, si può dire che, man mano che essa si è evoluta, l’agilità è stata sacrificata in nome della maggior protezione possibile: in questo senso i falangiti macedoni precorrono i corazzatissimi romani, anche se l’idea di usare delle lance* lunghe tre volte il soldato non è un’idea buona come si dice. Basti pensare che uno scudo greco, legno rivestito da mezzo millimetro di bronzo, lascia passare anche le frecce — figurarsi un giavellotto.
Ne deriva che, quanto ad armamento, gli opliti siriani non hanno mai avuto speranze coi legionari, mentre i falangiti macedoni sì.

Dunque la Macedonia potrebbe fare molto meglio dell’Impero Seleucida, perché parte da basi migliori. Tuttavia la Siria fa quasi tutto quel che può per vincere, mentre i macedoni non si sprecano nemmeno sul piano diplomatico, facendosi portare via dozzine di potenziali alleati.

Non che Perseo non abbia tentato di farsi degli amici, in Grecia e magari proprio in Siria. Solo che ha fatto fallito tutte le trattative per spilorceria. Addirittura, riferisce Tito Livio, avrebbe potuto allearsi con tale Clodico, un gallo che gli avrebbe fornito diecimila cavalieri e altrettanti fanti. Lasciando stare i secondi, non è che una falange si possa permettere di rifiutare un tale aiuto, come mi facevano notare nei commenti a Pidna. La cavalleria gallica fa sempre un sacco di danni!

Bisogna anche considerare il poco tempismo dei due re.
Antioco se ne va in Grecia con una manciata di soldati e pochi viveri, solo per ritirarsene quando vede che i romani si sono alleati coi macedoni e hanno già un esercito completo. Senza contare che, se avesse coordinato meglio la flotta, avrebbe potuto attraversare l’Ellesponto senza perdite. E senza contare nemmeno gli arzigogoli che fa in Anatolia per trovare la posizione migliore per la falange, invece di attaccare subito, trascinare i romani in un posto desolato e iniziare la guerriglia o al peggio arroccarsi in una fortezza.
Perseo dal canto suo è ancora più insicuro. I suoi movimenti abbastanza randomici per la Macedonia permettono a eserciti affamati e praticamente già sconfitti di togliersi d’impaccio, per anni.

E qui è utile fare una distinzione. Antioco è perfettamente in grado di prevedere le mosse di Roma (anche se la immagina più lenta di quanto non sia); Perseo le cose non le deduce, se le sogna. Vede un esercito che dall’interno si è portato sulla costa e pensa che le sue stesse truppe, incaricate di correre dietro ai romani, non esistano più. Perché non le vede nei paraggi, mica per altro. Mah!

Antioco finisce linciato due anni dopo Magnesia mentre razzia un tempio dell’attuale Lorestan, provincia iraniana.
Su Perseo c’è meno da ridere. Sfila nel corteo trionfale di Emilio Paolo e viene condotto ad Alba Fucenzia. Per una settimana viene lasciato in un cunicolo con una spada e un tratto di corda, ma non ne vuole sapere né dimpiccarsi né di. Poi Paolo lo fa spostare in una prigione più dignitosa, martoriando una volta di più l’orgoglio del poveretto. I suoi nuovi guardiani lo tengono sveglio fino a ucciderlo.
I suoi due figli, Filippo e Alessandro (non ve lo aspettavate, eh?), finiscono uno morto a distanza di due anni e l’altro scrivano per un qualche magistrato romano.
Se un uomo si misura dalla grandiosità della sua fine, vince decisamente Perseo, che porta con sé nella tomba famigliari, corte tutta e nazione.

In conclusione, Antioco è un miglior comandante di Perseo — se non altro perché guida personalmente il proprio esercito! — ma fa molti più danni alla propria nazione, se buttiamo un occhio al futuro.
La Siria diventerà una delle Province romane più affidabili e partorirà imperatori e donne notevoli, come Zenobia di Palmira e le quattro Giulie di Emesa**.
La Macedonia avrà la forza di rialzare la testa già vent’anni dopo la Terza Guerra, ancora a Pidna. Per mezzo millennio richiederà almeno due legioni a pieno regime e possibilmente di veterani che ne sorveglino ogni angolo, e anche così resterà un covo di ribelli. Non si romanizzerà mai né darà significativi contributi all’Impero.
Lode ai macedoni e non al loro ultimo re, insomma.

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*Ah, l’annosa questione lancia-picca! Con l’imbarazzante confusione che vige fra gli storici di ogni età, e volendo specificare che in senso stretto la sarissa macedone le precorre entrambe, mi limito a farne una questione di periodi storici: la picca è tipica di Basso Medioevo e Rinascimento, quindi la sarissa non lo è.

**Cioè Giulia Domna, Giulia Mesa, Giulia Semiamira e Giulia Mamea. Ci ritorneremo quando il blog passerà a date “d.C.” e se si sentirà di parlare di donne.

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Pidna, 168 a.C.

Generali: Lucio Emilio Paolo contro Perseo. Anche se definirlo generale è un’esagerazione bella grossa.

Forze schierate: 22.000 fra legionari e fanti dei confederati e 1.400 cavalieri contro 39.000 fanti, di cui 21.000 falangiti, e 4.000 cavalieri.

Esito: vittoria romana.

Motivo del conflitto: e che diamine, è mezzo secolo che i macedoni fanno i capricci, sarà pure ora di sculacciarli.

Effetti: la Macedonia scompare come stato indipendente per… be’, ventuno secoli.

Il Trionfo di Emilio Paolo, di Carle Vernet, ultimato durante la Rivoluzione Francese.

Prima di Emilio Paolo

Filippo V di Macedonia ha due figli. Il maggiore, erede favorito, si chiama Perseo e ha la sua stessa vena combattiva. Il minore, Demetrio, è un tipo tranquillo che ha passato anni a Roma come ostaggio, dando un’ottima impressione di sé.
Succede che quei burloni dei senatori mostrano di vedere meglio il minore sul trono macedone, causandone l’accusa di tradimento (con tanto di finte prove) e l’avvelenamento per ordine dello stesso padre. Si dice che Filippo sia morto di dolore due anni dopo aver scoperto che Perseo gliel’aveva fatta.

Roma si allarma, anche se conferma la pace con la Macedonia.
Poi iniziano a circolare le voci: pare che Perseo vada di città in città fomentando lo scontento dei greci, degli illiri (pacificati nel 219 da un Emilio Paolo), dei traci, persino dei cartaginesi, e pure il re Eumene di Pergamo si spinge al punto di dichiarare i suoi sospetti nella Curia Hostilia.

Una delle accuse contro il nuovo re è di aver attentato alla vita dello stesso Eumene facendo rotolare un masso da una collina mentre era in viaggio.
Oddio, fra un po’ capiremo che Perseo non era esattamente un genio, quindi non si può mai dire!

Ma la prudenza non è mai troppa, per i senatori. Meglio fargli guerra.
In Oriente i Macedoni stanno antipatici a tutti, non è difficile trovare appoggio o almeno assicurarsi che Perseo non riceva aiuti. Persino gran parte dei Greci fa fronte comune.

L'odio unisce i popoli.

L’odio unisce i popoli.

I preparativi richiedono tempo, l’occasione è arrivata all’improvviso, così si proroga il trattato di pace per altri sei mesi.
Pare che i senatori, per una volta, non la stiano prendendo sottogamba. In effetti non sarebbe il caso, per molti motivi:

  • I popoli poco raccomandabili che circondano la Macedonia. Ricordiamo gli Etoli!
  • La tradizione militare macedone. Ci hanno le sarisse e talvolta combattono in quadrato (sintagma) come i Romani;
  • L’improbabile ricchezza di Perseo, che potrebbe mantenere fino a centotrentamila armati*, cioè tre volte quelli che ha.

I Romani rispondono estendendo il periodo di leva fino ai cinquant’anni d’età ed eliminando il sorteggio nell’attribuzione delle cariche militari.
Tranquilli, è stato accertato che la notizia non accorcerà minimamente la vita del povero Catone, dato che camperà per i prossimi vent’anni.

A inizio estate del 171 il console Crasso è in Illiria con l’esercito. Parte minaccia la Macedonia da occidente, parte attraversa i monti della Tessaglia. A cinque chilometri da Larissa Crasso si ritrova davanti Perseo, arroccato sul passo di Tempe.
Crasso perde lo scontro che segue. Le perdite ammontano a duemila fanti e duecento cavalieri — un sesto delle forze iniziali — contro quaranta falangiti e venti cavalieri.

È a questo punto che Perseo dà i primi segni d’incapacità, permettendo che i sopravvissuti si ritirino.
Spera che così i Romani lo lasceranno in pace. E io mi chiedo come faccia, visto che è loro tradizione vendicarsi di ogni minima sconfitta.

Bastava farsi un giro su Wikipedia, eh.

Bastava farsi un giro su Wikipedia per scoprirlo, eh.

Lo storico Frediani individua un’altra ragione per l’errore di Perseo:

Inoltre, l’etichetta di referente principale della fazione antiromana, che gli era stata appiccicata fin dalla sua ascesa al trono, non gliel’avrebbe tolta più nessuno, e questo segnava la sua strada senza possibilità di alternative. Così, quando inviò legati per proporre condizioni di pace tali da farlo sembrare un vinto, ovvero l’abbandono dei territori di cui era entrato in possesso il padre e il pagamento di un’indennità, non fu neanche preso sul serio.

Pure la sindrome del genio incompreso, poveraccio.

D’ora in poi Perseo non attaccherà più.
Deciso a perdere tutte le occasioni che gli si prestano, non tenta nemmeno la guerriglia, l’azione più sensata fra i monti della Tessaglia.

Il punto arancione è Larissa, dove Crasso voleva arrivare. In azzurro Farsalo. Diavolo se è lontana, la Macedonia!

Il punto arancione è Larissa, dove Crasso voleva arrivare. In azzurro Farsalo. Diavolo se è lontana, la Macedonia!

Ciò determina lo stallo del conflitto. Crasso se ne va in giro, occupa città di serie Z e non riesce più ad attaccare battaglia.
Il console  successivo perde addirittura la posizione, per scivolare a Farsalo, sul confine con la Ftiotide.
Quello dopo ancora guadagna le coste macedoni per avere uno scontro campale, ma si ritrova senza rifornimenti dal mare. Ah, l’efficienza logistica romana!

Qui, se Perseo avesse un po’ di presenza di spirito, sarebbe facile mettere il nemico con le spalle al muro. Invece perde la testa, si convince che, se i romani sono arrivati alla costa, significa che il suo esercito è stato sconfitto fra i monti (vedi che succede a non accompagnare personalmente le tue truppe? Ben gli sta!), si ritira dalla Tessaglia, brucia la flotta, butta in mare parte del tesoro reale — quello che avrebbe finanziato altri due eserciti! — e corre verso nord, proprio a Pidna.

Falso allarme, vi ho trollati.
Perseo si accorge dell’errore e torna a sud. È la fine del 169 a.C.

Questo episodio, come al solito, dà una svegliata ai senatori, che per il 168 si producono in quel grand’uomo di Lucio Emilio Paolo, classe 229. Un ragazzino! Ha persino partecipato ad Apamea.

La battaglia

Costui, a differenza del caro Perseo, ama informarsi. Tant’è che si fa precedere da tre senatori affinché raccolgano notizie: fra loro, l’Enobarbo vincitore effettivo di Magnesia.

Il quadro che ne risulta è imbarazzante.
Perseo è in posizione forte e non attacca. Filippo, il console in carica, è in posizione sfavorevole e non attacca. In mezzo, un fiumiciattolo. Le truppe lasciate in Illiria all’inizio di questa follia sono troppo poche e lontane per coordinarsi col console. Niente viveri né paga, morale a terra, ozio, diserzioni, malattie. Alleati illiri che passano al nemico, rodii che, maltrattati come non mai, sono sempre propensi a farsi comprare, pergameni che fanno il doppio gioco.

Così i senatori sganciano l’oro e regalano a Paolo due nuove legioni più cinquemila uomini per rimpolpare quella povera flotta.
In primavera è a Delfi per sacrificare agli dèi e poi con le truppe.

Come per l’Emiliano a Numanzia e Mario ad Aquae Sextiae, c’è da rimettere in forma i soldati. Alla fine, scrive Livio, sono tutti pronti a una splendida vittoria o a una morte gloriosa.

Dopodiché il console richiama la flotta a Eraclea e vi manda 8.200 fanti e 200 cavalieri, così Perseo penserà che si stia imbarcando.

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Sarebbe un’ipotesi credibile?
No. Voglio dire, dove dovrebbe mai andare Paolo via nave con una flotta che non riesce a portare tutto l’esercito? Scappa? Cambia terreno di gioco? E quale altro sceglierebbe, una pianura (dove la falange è più forte)? E poi si sa che i romani preferiscono spostarsi su terra.
Ma tanto Perseo è un pesce lesso, ci cascherà di brutto.

In realtà quel contingente ha l’ordine di portarsi a Pizio, passando tutt’intorno al monte Olimpo, in tre giorni. Nel frattempo il resto dell’esercito tiene occupati i macedoni.
Poi un disertore cretese sbandiera la strategia romana ai quattro venti, ma il distaccamento mandato a bloccare l’aggiramento viene sconfitto. A Perseo non rimane che arretrare.
La situazione torna identica a prima, tranne che il fiume tra i due campi si chiama Leuco e non Elpeo.
Il fiume è quasi in secca, si potrebbe anche attaccare prima che i macedoni predispongano le loro difese.
Emilio Paolo si rifiuta, prudente. Oltre a temere le macchine da guerra del nemico, vuole a tutti i costi avere un accampamento in cui correre ai ripari. E poi i soldati sono stremati.

Qui c’è il bello del pre-battaglia.
La notte del 22 giugno 168 ci fu un’eclissi di luna. I macedoni la presero come un presagio di sconfitta, i romani se ne infischiarono: Paolo li aveva fatti avvisare tempo prima, tranquillizzandoli.

La mattina dopo nessuno ha voglia di combattere, però tocca prendere l’acqua al fiume.
I rifornimenti sono ben protetti da ambo le parti. A un certo punto, uno dei cavalli romani se ne scappa, scatenando una zuffa tra romani e macedoni che vogliono impossessarsene. Ci scappa il morto, un trace. I rissosi aumentano. Paolo valuta l’entità del chiasso e decide di attaccare battaglia. Perseo acconsente.

Fu così che la Terza Guerra Macedonica finì grazie a un dannatissimo cavallo.

Vedere la falange macedone schierata darà gli incubi a Emilio Paolo per un bel po’, stando alle fonti. I leucaspidi, scelti fra i giovani più valorosi di Macedonia, hanno scudi bianchi, armate dorate e tuniche scarlatte; i calcaspidi, dagli scudi di bronzo, coprono tutta la piana e le pendici delle colline circostanti.
Molto tradizionalmente, costituiscono il centro della formazione, scortati da traci e mercenari. Polibio non manca di sottolineare l’eccessiva altezza dei primi, per dindirindina.

La disposizione dei diversi corpi degli schieramenti è andata perduta. In Polibio manca la battaglia per intero, in Livio per la prima metà.
L’idea più accreditata è che Paolo abbia adottato una formazione classica: legioni al centro, alleati e cavalleria sui fianchi. Se così fosse, Perseo deve per forza aver opposto alle legioni la falange, proteggendola ai lati con traci e mercenari più la cavalleria. In più, i romani hanno gli elefanti, che per forza di cose all’inizio si trovano nelle retrovie. Altrimenti si ripeterebbe Magnesia… dalla parte degli sconfitti, però.

La battaglia inizia con la fanteria leggera romana che stuzzica i traci e viene messa in fuga; a sorpresa, la falange prende a inseguirla, mettendosi su terreno sfavorevole, sempre più sconnesso.
I ranghi perdono compattezza, tanto che interi manipoli di una delle due legioni riescono a inserirsi nei varchi, attaccando di lato o anche alle spalle.

Perseo perde adesso.
La battaglia si spezzetta di nuovo in tanti piccoli scontri, che ognuno combatte per i fatti suoi. I macedoni senza le loro amate sarisse, troppo lunghe. Istrici senza aculei.

Riconosci il macedone perché è un nanetto con un bastone da passeggio lungo due volte e mezza lui.

La seconda a cadere è l’ala sinistra, incalzata da elefanti e cavalleria. Da lì il disordine passa ai leucaspidi, messi in fuga dall’altra legione.

Segue consueto massacro, che copre la ritirata di Perseo e cavalleria verso la capitale.
Questa è una scena che vorrei aver visto: i macedoni, abbandonati dall’erede di Alessandro, che si buttano in mare, vengono pescati dalla flotta romana e trucidati sulle scialuppe proprio quando sperano di scamparla; quelli che se ne accorgono e riescono a uscire dall’acqua, solo per essere spiaccicati sulla spiaggia da quegli stupidissimi elefanti.

Ventimila morti, undicimila prigionieri in un’ora o due. Se non fosse calato il buio, dell’esercito macedone non sarebbe rimasta un’unghia.

Come detto, il figlio del comandante, un certo Scipione Emiliano, si attarda negli inseguimenti per tutta la notte. Che amore di sedicenne!

Un po’ di amarezza

Emilio Paolo ottiene il trionfo e fa lo spilorcio coi suoi soldati, che gli porteranno rancore finché vivranno.
I malocchi che gli fecero ebbero un effetto sproporzionato: dei due figli naturali, il minore muore cinque giorni prima del trionfo, il maggiore tre giorni dopo. Avevano dodici e quattordici anni.
Lui li seguirà fra otto anni e i suoi beni, venduti all’asta, basteranno appena a pagargli il funerale: nemmeno lui si è arricchito col favoloso tesoro di Perseo. Tra i beni che si è riservato figura l’imponente libreria del re.

Intanto la Macedonia viene smembrata in quattro repubbliche e chiunque avesse avuto a che fare con Perseo, anche fra i Greci, viene deportato o ucciso. La Provincia di Macedonia nascerà fra vent’anni, dopo un’altra battaglia a Pidna.
Fra i mille nobili chiamati a sostenere la posizione greca in tribunale (in un processo mai celebrato) c’è lo storico Polibio, che se la caverà in quanto cocco di Paolo.
Ce n’è anche per quel doppiogiochista di Eumene, che vede rimpicciolito il suo già misero regno. Sarebbe dovuto morire sotto quel masso!

Ah, nel frattempo Antioco di Siria c’ha riprovato, ma gli va male: i senatori si girano a guardarlo nel bel mezzo dell’occupazione dell’Egitto.

Beccato!

Appendice: La genialità di Emilio Paolo

Quando diventa console, oltre a reclutare nuove leve — invece di smettere di congedare i cinquantenni — opera una riorganizzazione generale.

Stabilisce che le due legioni consolari debbano avere non più di seimila uomini l’una — altrimenti sono ingestibili — e porta a cinquemiladuecento gli effettivi delle nuove legioni: precisamente il numero ideale adottato da Cesare e Agrippa.

Poiché finora si è insistito a buttare tutti gli uomini disponibili nelle due legioni tradizionali, i soldati che sono diventati di troppo vanno a creare le guarnigioni che proteggono accampamenti e roccaforti conquistate.

Infine, Paolo lavora di testa. Priva le sentinelle delle armi per evitare che segnalino la loro posizione riflettendo la luce, accorcia i turni di guardia per mantenere alto il rendimento (ma allora era un marxista…), fa in modo che gli ordini arrivino chiari anche nelle ultime file dello schieramento, capisce che in montagna i ruscelli scorrono sotto terra e trova l’acqua scavando lungo la costa.

Per tutti questi motivi, a parer mio è decisamente il generale più raffinato prima di Cesare. Riorganizza da cima a fondo l’esercito, quando gli altri si sono limitati a metterlo in condizioni di porre fine alla guerra; riesce ad architettare una strategia che combini le truppe di terra e quelle di mare, cosa mai vista in un romano e che continuerà a vedersi raramente; resiste all’idea di un attacco frontale alla falange, probabilmente guadagnandosi la reputazione di pusillanime — è di famiglia, visto che suo padre prima di Canne è stato istruito da Fabio Massimo “il Temporeggiatore”; raccoglie informazioni sulla situazione greca prima di gettarsi allo sbaraglio.
Il metodo fatto persona, insomma.

Magnesia, 189 a.C.

Generali: Publio Cornelio Scipione l’Africano (formalmente il fratello Lucio) contro Antioco III il Grande di Siria.

Le altre fanno le fan art degli One Direction, io i collage di gente morta.

Da sinistra: Antioco e Scipione in una foto d’epoca. Notare l’approccio aristocratico e romano del primo.

Forze schierate:
4 legioni da 5.400 uomini l’una;
3.000 fanti leggeri, fra pergameni e achei, dotati di caetra, un piccolo scudo di cuoio. Anche detti ‘peltasti’;
3.000 cavalieri romani;
500 guerrieri tralli e cretesi di riserva;
2.000 volontari macedoni e traci a presidio dell’accampamento;
16 elefanti sahariani, piccoli e ben addomesticati.

CONTRO

16.000 falangiti;
19.700 fanti di varie etnie;
12.500 cavalieri, di cui 6.000 catafratti più o meno pesantemente;
1.000 guardie del corpo a cavallo per il re e la corte appiedata di Argiraspidi, gli ‘Scudi d’Argento’;
1.200 arcieri a cavallo e 2.500 a piedi;
3.000 fanti tralli e cretesi – gente indecisa, dal momento che anche l’Africano ne ha;
4.000 tra frombolieri di Persia e arcieri di Media;
54 elefanti asiatici, enormi e indisciplinati, cavalcati da quattro guerrieri più un conducente ciascuno;
Bonus: bighe e quadrighe falcate e arcieri arabi a dorso di dromedario, con tanto di stuzzicadenti sottili spade lunghe un metro e ottanta.*

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Questo è un peltasta: un fante molto leggero.

Esito: schiacciante vittoria dei romani.

Motivo del conflitto: secondo Antioco era il momento giusto per farsi un giro in Europa mentre Roma era prostrata dalle guerre puniche. Capiamolo, stava solo cercando di ripigliarsi quello che il padre si era fatto togliere nei suoi tre anni di regno. E poi, doveva liberare i greci rimasti sotto il tallone dell’Urbe dopo le guerre macedoniche.

Effetti: pace di Apamea. Roma lascia agli alleati gran parte dei nuovi territori: una Provincia così lontana non è gestibile, per ora; tuttavia si trova a controllare indirettamente le tre monarchie  ellenistiche superstiti (l’Egitto è da poco sotto una specie di protettorato). Antioco dovrà chiedere il permesso anche per starnutire, cosa che avrebbe dovuto fare pure la Strazzulla.
Si manifesta una volta di più la superiorità della legione rispetto alla falange.

Il trattato di Apamea, 188, vede il regno di Pergamo andare a Roma. In rosso la città di Magnesia.

Il trattato di Apamea, del 188, prevede l’espansione del regno di Pergamo a danno della Siria. In rosso la città di Magnesia.

A Zama uno Scipione trentatreenne ha sì distrutto la supremazia di Cartagine, ma si è anche lasciato sfuggire Annibale. Costui, dopo tanto peregrinare, è giunto alla corte del Gran Re seleucida Antioco. Ha provato ad aizzarlo contro Roma e a cavargli 10.000 fanti, 1.000 cavalieri e 100 navi per tornare in patria, fomentare l’ennesima ribellione e invadere di nuovo l’Italia, ma non c’è stato verso. Buon per Antioco, perché sarebbe stato un errore tattico e uno stupido anacronismo. L’unica cosa che il Barca ottiene è di mettere in fibrillazione i vecchietti del senato, che subito immaginano grandi mobilitazioni di flotte e legioni.
Mesi dopo, gli etoli, recente conquista capitolina, invitano i siriaci a casa loro per cacciare i romani. È il 192 quando Demetriade, un porto strategico nel nord della Grecia, cade in loro mano.

L’Etolia era un posto poco raccomandabile.

Ed ecco a voi lo spettacolo di Antioco e Annibale che tirano su i primi 10.500 uomini disponibili e puntano a rotta di collo su Calcide d’Eubea, occupandola senza problemi. Sarà la trecentesima volta nella Storia che l’Invasore Asiatico™ riesce ad accaparrarsi l’isola senza incontrare resistenza.
Ora, non è che Roma sia potentissima, sull’altra sponda dell’Adriatico. La Grecia è spezzettata in città-stato e leghe, impotente, mentre a nord la Macedonia di Filippo V non aspetta altro che di farne un sol boccone. Il senato decide di regalargli (restituirgli, in realtà) alcune poleis in cambio di sostegno. Così abbiamo dei macedoni contenti e dei greci furiosi, sballottati come sono da un padrone all’altro.
Finalmente Antioco si azzarda a sbarcare in Tessaglia e a raccogliere quei quattro ciuffi di etoli armati, solo per capire che conquistare una a una tutte le piazzeforti di Grecia è una pazzia e ritirarsi quando vede l’esercito romano-macedone. È il gennaio del 191 ed è già incappato in due imprevisti: l’immediata mobilitazione di Roma – a soli tre mesi dalla dichiarazione di guerra, quando a lui i rinforzi arriveranno dopo l’inverno – e lo schieramento della Macedonia, che aveva sperato neutrale. Annibale borbotta in un angolo, ignorato da tutti. 
In realtà Manio Acilio Glabrione arriva con un vero esercito solo un mese dopo: nelle prime tre settimane di primavera, 20.000 fanti, 2.000 cavalieri e 15 elefanti romani riconquistano tutte le rocche perse. A fine aprile Antioco, ancora a corto di rinforzi, è costretto a indietreggiare fino alle Termopili, per impedirgli l’accesso alla Grecia centrale. Poi arriva Catone con duemila uomini, cui importa moltissimo di ficcarsi in combattimenti con un rapporto di 5 a 1 per gli altri, e lo schioda pure di lì. Se vi concentrate potete ancora sentire l’eco del tappo di spumante (Antioco) che viene sparato via. Lontano. Fuori dalla Grecia e fuori dall’Europa. Ma non prima che un Livio Salinatore, insieme alle flotte di Pergamo e Rodi, lo sconfigga anche sul mare. Una scaramuccia che non impedirà affatto all’ammiraglio, Polissenida, di tornare a rompere l’anima ai romani.

Catone il Censore nella sua posa più fotogenica.

Adesso sì che si ragiona. Vedendo che Antioco non è invincibile, a Roma si diffonde la volontà di annientarlo. Scipione cavalca l’onda, proponendo di portare la guerra in Asia come fatto in Africa. Notare che, per il popolo, il nemico da battere è ancora Annibale. E c’è solo un uomo in grado di farlo.
I consoli per il 190 sono Caio Lelio e Lucio Scipione, rispettivamente migliore amico e fratello dell’Africano. A fine aprile, un nuovo esercito romano di 13.000 fanti e 500 cavalieri si congiunge a quello di Glabrione e liquida in tutta fretta gli ultimi etoli ribelli: non sono certo loro il problema. Bisogna arrivare ai Dardanelli.

L’Ellesponto prendeva il nome da Elle, la fanciulla cui Frisso permise di cadere dall’ariete col vello d’oro e annegare.

Antioco ha previsto tutto e si è organizzato. Durante l’inverno ha manovrato la flotta in modo da minacciare Rodi, Pergamo e le vie di rifornimento dall’Italia, in modo da impegnare il nemico su più fronti e impedirgli di puntare tutte le forze sullo stretto. Riesce in buona parte del piano: mentre Polissenida tiene valorosamente la posizione, Annibale, pure in superiorità numerica, si fa sconfiggere dai rodii. È l’agosto del 190. Rimasto solo, l’ammiraglio resiste un mese prima di veder affondare 42 delle sue 89 navi.
Nel frattempo, gli Scipioni avanzano via terra.
Dopo un mese di temporeggiamenti, che portano via gli ultimi alleati rimasti ad Antioco, quest’ultimo prova a offrire la pace a condizioni per lui umilianti. Ma è tardi, e lo stesso Africano, pur avendo un figlio ostaggio del re, se ne prende gioco e ne rifiuta la liberazione in cambio di un trattato. Gli dice che, se Antioco vuole restuirglielo, avrà la sua gratitudine solo in privato. Beh, a questo punto i patteggiamenti s’interrompono. (Per la cronaca, il povero Scipione Jr. riabbraccerà il padre, malato, di lì a poco)

Il re è insicuro. Fa avanti e indietro cercando la posizione ottimale per la sua falange, coi romani che gli corrono dietro finché non si decide per un’enorme pianura nei pressi di Magnesia.
Ha anche ragione, poveraccio: la falange non è certo un modello di versatilità, non è che si possa schierare ovunque. Solo che in questo modo il nemico si imbaldanzisce. I legionari iniziano a guardare ai siriani come a un gregge di pecore da sgozzare. Le accurate opere di trinceramento e alcune piccole dimostrazioni d’incapacità nella gestione della cavalleria fanno il resto. Per esempio, è interessante notare come i non-romani, siano essi orientali o nordici (l’abbiamo già visto qui), commettano sempre lo stesso errore: attraversano un fiume per andare incontro al nemico, mettendosi così in condizioni di non poter ricevere rinforzi.

Un comportamento degno di un troll.

Ci siamo. Quando Antioco non può più procrastinare senza perdere la faccia, si schiera. L’idea di partenza è buona: disporre al centro i suoi 16.000 falangiti divisi in 32 file, in modo da ottenere uno schieramento stretto e profondo, con una gran capacità di penetrazione. Sarà il punto che respingerà le quattro legioni. La peculiarità è che questa falange è divisa in dieci sezioni, separate da due elefanti ciascuna. In teoria aumenta la spinta, in pratica… lo vedremo.
Le ali sono speculari: andando dal centro verso l’esterno, si inizia con armi e corazze pesanti per arrivare ai frombolieri sulla destra, protetta dal fiume Frigio, e a generici fanti leggeri sulla sinistra. Antioco e la sua nutrita scorta stanno a tribordo, stupidamente: quando mai s’è visto che il generale della situazione si chiuda fra il centro e un fiume?
La seconda buona idea è creare uno schieramento “tridimensionale” invece che lineare, con i catafratti coperti da bighe, quadrighe e quei ridicoli dromedari arabi.

Lo schieramento romano è classico: due legioni capitoline al centro, due italiche ai fianchi, alleati e cavalleria alle ali. Quella sinistra, che si ritrova di fianco al fiume e davanti al re, consta di sole quattro torme (120 cavalieri). Grosso errore.

Questa cosa dell’eterogeneità. Parliamone. È pessima dal punto di vista della coesione, certo, ma ci puoi fare tutto. Puoi schierarti ovunque perché hai truppe provenienti dalle zone più diverse e puoi annientare qualunque forza perché hai un tipo di soldato per ogni debolezza esistente: hai i catafratti per la cavalleria leggera, i fanti corazzati per quelli leggeri, le bighe per i più scalcagnati e gli arcieri a cavallo per i più formidabili. Tutto sta nel disporli bene, e Antioco tutto sommato l’ha fatto. però Però si è disposto male lui e ha scelto il giorno sbagliato per combattere. C’è nebbia, e dalla destra non vede nemmeno cosa sta combinando il centro. C’è umidità, e le corde di archi e fionde, le corregge dei giavellotti si sono allentate. Bighe e quadrighe dovrebbero scompaginare gli ausiliari pergameni, ma il re Eumene lo evita semplicemente facendoli avanzare in ordine sparso. Dopodiché i suoi arcieri e frombolieri hanno tutto l’agio di ferire i cavalli nemici, diffondendo il panico pure fra i dromedari.
Ora i catafratti sono scoperti, e la fanteria leggera romana si fa da parte per lasciare che la cavalleria li annienti. Reazione a catena. Lo scompiglio si estende all’intera ala destra e al centro, mettendo fuori gioco le lunghe sarisse dei falangiti. Chi fugge si getta fra le file della falange, dritto fra le zampe degli elefanti. Accade di tutto: gli opliti che restano a guardare mentre i legionari li ammazzano comodamente a distanza di tiro di giavellotto, la riserva centrale siriana che viene sorpresa alle spalle da un focoso Enobarbo, l’ala sinistra romana che cede miseramente all’attacco del re ed espone le legioni a spinte anche dal fianco – situazione risolta col solito provvedimento disperato: il tale tribuno Marco Emilio ferisce tutti coloro che provano a ritirarsi, tamponando l’emorragia.
Non si sa bene come, alla fine duecento cavalieri romani dell’ala destra riescono a farsi strada fino a Emilio. Basta questo per indurre Antioco a svignarsela verso il proprio accampamento.
A quest’ora i falangiti sono morti tutti e sedicimila, tanto che i legionari s’incattiviscono perché i cadaveri impediscono loro di muoversi.

Fatto: a fine giornata ci sono solo quattrocento nemici da far prigionieri, gli altri sono morti. Un’ecatombe vecchio stile. Solo che Annibale non è fra gli ostaggi… è fuggito ancora! Fra un po’ sarà alla corte di Prusia di Bitinia (la cui neutralità è stata pagata profumatamente da Roma) e fra sei anni si suiciderà, braccato dell’ubiquo Flaminino.
L’esercito romano impiegherà sei mesi a rientrare in Italia, causa barbari, mentre Antioco morirà nel 187, un anno dopo la pace di Apamea, ammazzato mentre saccheggia un tempio.

Un presunto ritratto di Annibale, uomo dalle mille risorse.

Questa è una delle mie battaglie preferite, più che altro perché Antioco è un personaggio molto particolare: più prudente e organizzato dei soliti despoti orientali, ma sfortunato. Avrebbe davvero potuto vincere, con tutti gli errori commessi da Lucio Scipione e i numerosi nemici di Roma. Che cosa sarebbe successo se avesse avuto il buon senso di allearsi con l’Egitto? Di certo non si sarebbe deciso tutto in un giorno. Invece questo è periodo in cui un solo scontro campale comporta la perdita di interi eserciti e regni: epico!

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*Tutte le cifre riportate sono ampiamente discutibili. Sono stime lette nei saggi di Andrea Frediani (cfr. Le grandi battaglie di Roma antica, ‘La guerra siriaca’, pp. 154-156), purtroppo abbastanza poco precise: a distanza di poche pagine, l’autore concorda con quasi tutti gli altri storici moderni nell’assumere il totale dei fanti di Antioco a 60.000 unità, quando le cifre sopra riportate non lo fanno arrivare a 50.000. Avrei potuto riportare altri studi, magari più autorevoli, ma non sono i numeri che m’interessano: l’importante è che si comprenda la differenza fra gli schieramenti.
Persino l’anno è controverso: le fonti anglosassoni riportano il dicembre 190 a.C., tutte le altre l’inizio del 189. Impossibile, o difficile al limite dell’inutile, determinare quanto fosse inesatto il calendario dell’epoca per riaggiustare la data.
La fonte storica principale è Appiano, insieme all’onnipresente Livio.