De Bello Gallico (II) – Libro Primo

Siamo nel 58 a.C., anno di consolato di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino e Aulo Gabinio. Non solo: anno di tribunato della plebe di Publio Clodio Pulcro. Il 30 gennaio è nata la futura terza sposa del futuro Augusto, Livia Drusilla. Un anno fa sono morti il padre dello stesso Ottaviano, Caio Ottavio, e Metello Celere, il marito di quella Clodia che fu l’amante di Catullo (aka Lesbia). Cesare, Pontifex Maximus dal 69 (carica vitalizia), ha appena restituito i fasces di console: ha lottato a lungo per ottenere il proconsolato in certe specifiche Province – che, in teoria, avrebbero dovuto essere assegnate tramite sorteggio – e ora si appresta a fare i preparativi. Si va in Gallia!

Ma facciamo un piccolo passo indietro. Quello che Cesare ha alle spalle è stato probabilmente l’anno più difficile della sua vita. L’ha passato da console anziano, certo, ma con un collega a dir poco molesto: Marco Calpurnio Bibulo. Un ottimate che gli alita sul collo fin dal servizio militare, sotto Lucullo, e che gli è rimasto appiccicato nel cursus honorum: edile, pretore e console nello stesso anno, rispettivamente nel 65, nel 62 e nel 59, appunto. Per ogni legge che stilava, Cesare doveva fare i salti mortali per farla approvare in Senato – quasi sempre sotto minaccia di presentarla alle centurie – , ma ce l’ha fatta. Ha offuscato il suo collega. Il suo consolato non sarà ricordato come “l’anno di Cesare e Bibulo”, ma come quello “di Giulio e Cesare”… In effetti, per metà dell’anno Bibulo è rimasto chiuso in casa, a scrutare il cielo!

E il nostro prode non ha intenzione di sprecare il suo tempo, a quarantadue anni. Grazie alla stipula del Triumvirato, nel 60, è riuscito a farsi assegnare il proconsolato di Gallia Cisalpina, Gallia Narbonense e Illirico per cinque anni. Sarà la sua base: da qui potrà progettare l’annessione di una nuova provincia. Non sa ancora quale, ma a Roma giungono voci che il re dei Daci, Burebista, stia pensando di invadere l’Illiria. Al romano vengono concesse tre legioni, quelle di stanza ad Aquileia. Probabilmente Pompeo pensa che Cesare abbia le mani legate: come si può conquistare una fetta di terra così ampia come la Pannonia o il Norico, per non parlare della Dacia stessa, con solo tre legioni e i Germani che premono da nord?

Beh, non sapremo mai se e come ci sarebbe riuscito, perché un pericolo ben più pressante minaccia la Repubblica dal Nord: i Galli. Ci risiamo! E dire che Mario aveva dato loro una bella batosta. Il popolo di Roma, memore del terrore di quei tempi, si lascia prendere dal panico. A Cesare non sfugge l’occasione: si vanta in Senato di aver ottenuto tutte le Province che vuole governare e dice che “da ora in poi avrebbe potuto marciare sulle loro [dei senatori] teste”. Al che un augusto senatore non meglio identificato gli urla che non sarebbe stata impresa facile per una donna (= “Cesare, sei andato a letto con re Nicomede di Bitinia per avere la sua flotta, pappappero!”). Cesare risponde con un po’ di ironia (“Semiramide [regina babilonese, conquistò da sola Media, Egitto ed Etiopia] ha già regnato in Siria, e le Amazzoni hanno già dominato gran parte dell’Asia!”) e bada a lasciare Roma vuota dei suoi oppositori politici. A questo fine, incarica l’abile demagogo Publio Clodio (Pulcro, “il Bello“), suo alleato di rivoluzione, di allontanare Cicerone. E il cagnolino di Cesare fa un piccolo capolavoro: la lex Clodia impone l’esilio a chiunque abbia decretato l’uccisione di cittadini romani senza regolare processo. Con valore retroattivo. E così il caro, bisbetico, pettegolo Cicero viene buttato a calci fuori città. Col medesimo scopo, Catone, il compagno di merende di Bibulo, verrà spedito a Cipro a fare il propretore. E con la politica siamo a posto. Cesare lascia la cura delle finanze a Lucio Cornelio Balbo, banchiere di Gades (odierna Cadice) che farà la sua fortuna. Per l’occasione, elabora un codice cifrato (ancora oggi noto come cifrario di Cesare), che gli permetterà di mantenere i ponti con i suoi informatori segreti. Un genio.

Ci siamo. Ora che siamo sicuri che non ci bruciano la casa mentre siamo in guerra, possiamo pensare a come scatenarla. Serve un pretesto. Gli Elvezi ce lo servono su un piatto d’argento… signore e signori, inizia la narrazione del De Bello Gallico!

Allora, la prima cosa che salta all’occhio nel testo del De Bello Gallico (d’ora in avanti dBG), è che le indicazioni dei diversi luoghi sono tutte sballate. Questo per via delle cartine dell’epoca, che rappresentavano la Gallia come una lunghissima striscia di terra tutt’uno con le Spagne, pressappoco perpendicolare alle nostre Alpi. Di conseguenza, i Pirenei non delimitano più il confine sud della Gallia, ma quello ovest! Ma non temete, ho dozzine di cartine moderne per voi.

Ecco come i Romani vedevano il Nord. Scannerizzazione dalla mia copia del dBG.

In Gallia abitano tre etnie principali: Aquitani, Belgi e Celti (i veri e propri Galli). Di questi, i più potenti sono i Belgi, perché stanno sempre a baloccarsi con quegli spiritosoni dei Germani, che cercano di invadere un giorno sì e uno no. Se ne deduce che sono insediati a nord-est, in corrispondenza degli attuali Belgio (ma va’?) e Olanda. I Celti sono i più vari, occupano tutto il centro e il nord-ovest, mentre gli Aquitani sono stipati tra la Garonna e i Pirenei, a sud-ovest. La parte mediterranea e alpina è tutta romana.

I principali popoli e città galliche. Nel giro di sei anni la maggior parte non esisterà più.

L’attenzione va ai Celti. Torniamo al 61 a.C. Per lo stesso motivo dei Belgi, i più forti tra loro sono gli Elvezi, che stanno a ridosso dei Sèquani, i quali a loro volta sono ad uno sputo di topo dai vicini romanizzati, gli Allobrogi. Il più intraprendente, nobile e ricco aspirante al potere fra gli Elvezi è Orgetorige. Gli piacerebbe molto invadere gli altri Celti e farsi re della Gallia, quindi risveglia l’animo bellicoso del suo popolo e lo convince ad impacchettare tutti i propri averi, caricare sui carri donne, bambini e scorte di grano per tre mesi, e a bruciare quel che si lascia indietro: così, se mai a qualcuno venisse un attacco di codardia, non avrebbe una casa cui tornare. 368.000 anime, di cui 92.000 combattenti, si metteranno in cammino fra due anni di preparativi, cioè nel 59. Nel frattempo, briga con gli altri due popoli Celti più potenti dopo il suo, Edui e Sèquani, perché si uniscano alla migrazione. È interessante soffermarsi sulla tattica diplomatica che adotta: con gli Edui, comandati dal vecchio Diviziaco, va a pescare il fratello del re, Dumnorige (privato del trono da Roma proprio nel 61), e gli dà in sposa sua figlia in cambio di appoggio. Con i Sèquani spinge il figlio del princeps a rivendicare il potere. Dal suo canto, Orgetorige è ragionevolmente sicuro di riuscire a diventare il leader (anacronismo, lo so) indiscusso del suo popolo a breve. I tre si sentono così sicuri del successo che suggellano queste alleanze segrete con un giuramento di fedeltà. Ma

Ma evidentemente Orgetorige non ha tutto il controllo che pensa sulla sua gente, perché un delatore riferisce ai nobili delle sue trame. Così l’ambizioso celta finisce in gattabuia e sotto processo. Se lo troveranno colpevole di tradimento, la punizione sarà il rogo.

Una cosa che tutti i popoli antichi hanno in comune è il fortissimo senso dell’onore: dopo aver fatto testimoniare diecimila tra familiari, schiavi, amici e debitori ed esser stato assolto, Orgetorige muore suicida (dice Cesare).

Nonostante l’uomo sia morto, rimangono le sue idee: i preparativi non si fermano, i magistrati continuano ad esercitare la leva militare e ad applicare le leggi di Orgetorige. Ulteriore propulsore all’impresa – che chiunque non fosse gallo già allora vedeva disperata – , il fatto che la popolazione era cresciuta notevolmente negli ultimi decenni, troppo perché un fazzoletto di terra di 270 km per 360 potesse sfamarla.

Ora. La posizione degli Elvezi nel mondo è davvero infelice: fa sì che sia difficilissimo portare la guerra ai Celti, ma non ai Germani. Infatti, ad est hanno un Reno abbastanza facile da guadare, mentre a sud sono chiusi fra il Rodano e il lago Lemano, e ad ovest c’è il monte Giura. C’è solo una stradina di montagna, stretta quanto basta per non far passare più di un carro alla volta, che porta dai Sèquani. Oppure… oppure una bellissima strada romana che passa per la Provincia Narbonese, in mezzo agli Allobrogi. C’è solo un ponte da attraversare per arrivare nella più vicina città allobroga, Ginevra, e accedere alla strada. Beh, tanto vale tentare. Tirati dalla loro parte Ràuraci, Tulingi e Latovici, loro confinanti, gli Elvezi bruciano le grandi città (una dozzina), i villaggi (quasi quattrocento), e tutto il raccolto che non avrebbero potuto gestire. Ah, la logistica!

È il marzo del 58 a.C. quando Elvezi, Tulingi, Latovici e Ràuraci si mettono in cammino.

Lo scopo è arrivare a Ginevra, parlamentare con gli Allobrogi e convincerli ad assecondarli, con le buone o con le cattive. Vale a dire, nel migliore dei casi persuaderli a ribellarsi ai Romani, e nel peggiore estorcere loro il permesso di transitare sulle loro terre. Sì, sì, fungerà! è quello che devono aver pensato quei Celti, dandosi appuntamento per il quinto giorno prima delle calende di aprile sulle sponde del Rodano.

Ed ecco che la telecamera si sposta a Roma, dove il panico si diffonde a macchia d’olio. Cesare parte di gran carriera e arriva a Ginevra, il 2 aprile, con le sue amate marce forzate (fino a 100 miglia al giorno, cioè 150 chilometri. La norma è un terzo). Qui giunto, Stupore e Maraviglia: possibile che in tutta la Gallia Comata (= “dalle lunghe chiome”, quelle portate dai Galli) ci sia una sola legione (la Decima)? Non resta che indire la leva per altre due, XI e XII, e richiamare le tre di Aquileia. Ci vorrà un bel po’. Il passo che il Libro di Storia del Liceo manca di menzionare è che in questo momento Cesare è scoperto: ha una legione di soldati impigriti dall’ozio fra le mani, molte migliaia di giovani reclute in fase d’addestramento e un pugno di cavalieri Edui… di cui non si può fidare, ovviamente. Che fare, che fare? Procrastinare, ovviamente. E distruggere il ponte sul Rodano, per proteggere Ginevra (Genava).

Dunque si dispone a ricevere gli ambasciatori Elvezi, tali Nammeio e Veruclezio (qui presentati e qui dimenticati), che chiedono il sospirato salvacondotto per la loro gente, assicurando che non faranno danni. Che li lascino passare, perbacco! Sono del tutto inoffensivi!

Non c’è da crederci, ovviamente. Immaginate centinaia di carri, cavalli, greggi e mandrie che calpestano i campi coltivati… anche se i servi dei nobili evitassero cortesemente di sputare per terra, dubito che rimarrebbe qualcosa di vivo in zona… Ora, Cesare ha bisogno di due cose: un pretesto per attaccare quella gente, e una scusa per non farlo subito. Quindi dice che ci penserà, quando in realtà ha già la risposta pronta, e li fa tornare alle idi di Aprile (circa due settimane dopo). Intanto, si dà agli scavi: decide di far smaltire la pancetta a quei cinquemila soldati di stanza facendo loro costruire un muro corredato di fossato che sbarri la strada dal lago Lemano al monte Giura. Nulla di che, per i futuri sviluppi: alto sedici piedi (4,8 metri ca.) e lungo diciannove miglia (ventotto chilometri e passa), non ha una missione difficile: deve bloccare gli invasori che arrivano su poche zattere. Non ci sarà battaglia, i legionari dovranno solo ignorare quello che viene tirato al di là dei bastioni.

Il muro di Ginevra, lungo diciannove miglia, sbarra il passo tra il monte Giura e il lago Lemano. Gli Elvezi iniziano a tremare.

Dunque, gli Elvezi tornano il tredici Aprile, e la risposta è:

[…] seguendo il costume e le leggi del Popolo Romano, egli [Cesare] non poteva permettere a nessuno il passaggio attraverso la Provincia, e aggiunse che, se avessero tentato il passaggio di viva forza, lo avrebbero trovato pronto a respingerli.

Cioè uno sdegnato, altezzoso “Se non vi inginocchiate di fronte a Roma, soffrirete.” I barbari tentano lo stesso il guado nel punto meno profondo (il ponte non c’è più da un pezzo, poveri scemi) bersagliando il muro, ma ben presto desistono. Rimane una sola possibilità: tornare sui propri passi, imboccare quella stradicciola per le terre dei Sèquani, e sperare che nessuno faccia loro degli agguati, perché diventerebbero la replica più stupida delle Termopili: trecento uomini che ne bloccavano trecentomila. Cercano di convincere i Sèquani a lasciarli passare inattaccati, ma serve l’influenza di Dumnorige per riuscirci.

Altro nesso logico latente: perché i Sèquani sono così restii a lasciar passare i loro alleati? Perché Orgetorige è morto, quindi agli occhi dei Galli le alleanze da lui stipulate hanno perso di significato. Oltretutto, i Sèquani sono tra l’incudine e il martello: i Romani sono sempre ad un tiro di fionda! Seconda cosa: che c’entra Dumnorige, eduo, in un bisticcio tra Edui e Sèquani? Cesare dice solo che

[…] era molto potente fra i Sèquani per il favore di cui godeva (sob, NdA) e per le largizioni di cui era prodigo.

A parte il primo periodo, che non significa nulla (“è potente perché ha potere”, wow!), solo più avanti si verrà a sapere che queste “largizioni” arrivano grazie alle gare d’appalto sui tributi degli Edui, di cui ha il monopolio. Molto più limpido è perché sia disposto ad accorrere in aiuto degli Elvezi: brama altro ascendente. E, in minor parte, perché è sposato alla figlia di Orgetorige – legame da considerarsi debole in quanto quest’ultimo è morto, e un morto non fa favori politici. Dunque i Sèquani acconsentono, previo scambio di ostaggi.

Cesare viene a sapere il tutto (e ti pareva!), e scopre anche l’itinerario: attraverso i Sèquani per arrivare dai Sàntoni. Chi sono? Uno delle tante etnie indistinte che vengono nominate nel dBG. Quello che ci interessa di loro è che confinano con la Provincia romana tramite i Tolosati. Altro brivido lungo la schiena: il Nemico avanza implacabile, affamato di teste romane come un addhur… ehm, no, non è il momento. Dicevo. Cesare non può permettere che un popolo similmente bellicoso si stabilisca in un territorio fertile e pianeggiante, quindi fa i bagagli, lascia quel macellaio piceno di Tito Labieno a presidiare il muro sul Rodano e parte. Per dove? Per l’Italia, dove prende quelle due famose legioni più le tre di Aquileia (prima isolate nei castra hiberna: è vero, ufficialmente è aprile, ma secondo le stagioni siamo in pieno inverno – vedi qui) e con questi uomini si precipita di nuovo a nord, passando per le Alpi. In questo momento le sue legioni sono tutte a ranghi ridotti (poco più di 4000 legionari l’una più 4000 ausiliari in tutto): 25.000 contro 92.000? Si può fare.

Sbaragliata una ridicola resistenza sulle Alpi – dai pittoreschi nomi di Centroni, Graioceli e Caturigi – , percorre il tragitto dalla città di Ocelum (“il punto estremo della Gallia Citeriore”, dBG, I, X) alla terra dei Voconzi, in Transalpina, in sei giorni. La città farà da quartier generale per tutte le otto campagne: qui inizieranno, da qui ripartiranno l’anno dopo. Attraversa le terre allobroghe, poi invade i Segusiavi, il più vicino popolo non romanizzato, oltre il Rodano.

Nel frattempo, guardiamo cosa combinano gli Elvezi.

Hanno seguito il loro piano: dalle terre dei Sèquani sono giunti in quelle degli Edui, alleati dei Romani, e le hanno saccheggiate. Gli Edui, incapaci di difendersi, chiedono aiuto a Cesare. Stessa sorte subiscono Ambarri e Allobrogi, che abbandonano le loro terre e vanno a piagnucolare dai Romani. Può Cesare rimanere indifferente alle suppliche di innocenti, validissimi alleati da oltre sessant’anni? Ma certo che no! Tanto più quando viene a sapere che i nemici stanno attraversando il fiume Arar (moderna Saona), con delle zattere, e che dopo venti giorni dall’inizio ancora un quarto delle persone in movimento è sulla sua sponda, indifesa… Detto fatto, Cesare prende tutte le sue sei legioni (le tre di Aquileia, le due di reclute e quella di stanza in Gallia) e in una notte arriva, attacca i Tigurini alle spalle – erano loro l’ultima delle quattro tribù elvetiche – e li sbaraglia con facilità. Si stimano almeno novantamila morti tra soldati e civili: questa è la prima di una lunga serie di carneficine. Poi Cesare usa un ponte di barche per trasportare i suoi a mangiare gli altri tre quarti. In un solo giorno, sei legioni sono di là dal fiume, contro le tre settimane dei barbari (che se ne meravigliano, giustamente). Cesare riceve la loro ennesima ambasciata, capeggiata da Divicone. La proposta: in cambio della pace, gli Elvezi e i loro alleati andranno dove Cesare comanderà e da lì non si muoveranno mai più. La minaccia: se Cesare vorrà a tutti i costi combattere, che ricordi la fine del console Cassio*, massacrato da quegli stessi Tigurini comandati dal presente Divicone. Ricordi il loro valore. Cesare li ha sconfitti con un trucco da vigliacco, attaccandoli alle spalle quando non potevano ricevere rinforzi, mentre gli Elvezi hanno imparato a contare sul valore personale, non sugli inganni:

Perciò non offrisse alla località in cui si erano fermati di dare il nome ad una nuova sconfitta del Popolo Romano e alla distruzione del suo esercito.

A queste parole Cesare così rispose: ben poco egli aveva da esitare, perché tutto quello che gli Elvezi gli avevano ricordato era ben fisso nella sua mente e con tanto più dolore quanto meno per colpa dei Romani il fatto era accaduto: ai Romani, infatti, non sarebbe stato difficile prendere le necessarie precauzioni se avessero avuto coscienza di aver mai offeso gli Elvezi.

E, anche volendo dimenticare il passato, non si può ignorare il presente, con quel tentativo di forzare il passaggio per la Provincia e le offese arrecate agli innocenti, validissimi alleati di prima. Inoltre, argomenta Cesare, se i nemici sono riusciti a scampare alla giusta vendetta per cinquant’anni, è stato solo perché gli Dei hanno voluto che soffrissero di più al momento di perdere il frutto di cotanta vigliaccheria! Tuttavia, Cesare è un Buono, e sarà magnanimo: se gli Elvezi forniranno ostaggi e risarciranno i danni procurati a Edui, Allobrogi e Ambarri, Roma acconsentirà graziosamente alla pace. Divicone, provocato a regola d’arte – perché è ovvio che Cesare non vuole la pace! – , ribatte che gli Elvezi sono abituati a prendere gli ostaggi, non a darli: il Popolo Romano ne è testimone. E se ne va.

L’indomani gli Elvezi e i loro alleati levano il campo, tallonati dalla cavalleria e dalla fanteria romane. I cavalieri però vanno troppo vicino alla retroguardia nemica, scatenano una scaramuccia e, quattromila quanti sono, vengono sconfitti da cinquecento galli. Allora gli Elvezi si imbaldanziscono, cominciando a punzecchiare l’avanguardia romana con più insistenza… e Cesare trattiene i suoi, badando solo di non perdere bagagli e salmerie. Così va avanti per quindici giorni, senza che succeda nulla di fantasmagorico.

Intanto, i Romani iniziano a trovarsi alle strette con i viveri che gli Edui devono fornire. Si scopre che Dumnorige, il Fratello Cattivo di Diviziaco, rallenta la partenza delle navi sull’Arar. E comunque, l’esercito è ormai molto lontano dal fiume. Appena può, Cesare deve pensare anche a questo.

Segue piccola digressione, che ci spiega perché Dumnorige sia un Malvagio Doc: i nemici di Cesare non sono tali perchessì! Il fratello minore del princeps degli Edui ha tramato per anni pur di imparentarsi bene con tutti i Galli, prendendo moglie elvetica (la solita figlia di Orgetorige) e dando spose sue parenti in giro. L’avvento dei Romani gli sta togliendo i vantaggi politici che ciò comporta, e il fatto che un romano abbia messo il vecchio Diviziaco sul trono al posto suo la dice lunga su come andranno le cose per lui. Opponendosi a Cesare, invece, Dumnorige sarà abbastanza influente da farsi re dei Galli. Logico, no?

Beh, ci sono gli estremi per far bruciare vivo Dumnorige, ma questo potrebbe incrinare i rapporti diplomatici con gli Edui… eh, l’opinione pubblica! Se Dumnorige morisse, gli Edui incolperebbero Diviziaco. Dunque chiama l’imputato, gli fa la predica, gli consiglia di comportarsi meglio in futuro e lo mette sotto sorveglianza.

Ora, abbiamo detto che sia i Romani che gli Elvezi vogliono la battaglia. Infatti lo stesso giorno della “sentenza” su Dumnorige il nemico si accampa ai piedi di un monte ad otto miglia dai nostri. Nota, non salgono sul monte – ci mancherebbe che prendessero una posizione favorevole! – , rimangono alle pendici. Infatti a mezzanotte Cesare manda Labieno, di ritorno dal presidio del muro di Ginevra (a che serve sorvegliarlo se non ci sono nemici?), ad appostarsi con due legioni sulla vetta. Da parte sua, il generale prenderà il resto dell’esercito e, alle tre di notte, si avvicinerà preceduto da cavalleria ed esploratori.

All’alba Labieno è seduto in cima al monte, ad aspettare i comodi di Cesare. Perché non arriva? Devono attaccare simultaneamente, non può muoversi se uno non sa dov’è l’altro!

In effetti c’è stato un problema. Tale Considio, centurione pluridecorato, è corso da Cesare dicendo che su quel monte non ci sono insegne romane, ma galliche. Labieno deve esser stato sconfitto e fuggito chissà dove. Allora Cesare, in attesa di notizie più precise, si ritira su un altro colle in schieramento di battaglia. Solo a mattino inoltrato scopre che Considio si è fatto prendere dal panico, quindi impacchetta tutto e si getta (ringhiando, mi piace pensare: io avrei fatto crocifiggere Considio, ma i centurioni sono troppo preziosi per sprecarli in vendette!) di nuovo all’inseguimento dei barbari, che si sono allontanati. La sera pone il campo a tre miglia da essi.

Siamo a diciotto miglia da Bibracte, capitale edua: la città scoppierà per quanto è piena di grano! Mancano solo due giorni alla distribuzione di grano promessa ai legionari, che dovrà sfamarli per tutto il corrente mese di giugno. Non ha scelta: scioglie l’inseguimento degli Elvezi e si dirige verso la città. I nemici fraintendono: credono di averlo messo in rotta, e comunque possono provare a tagliargli le vie di rifornimento, chissà. Così gli trotterellano dietro, contenti della pensata.

Quando se ne accorge, Cesare si ferma su un colle e manda la cavalleria all’attacco. È l’esca. Poi, a mezz’altezza, schiera le quattro legioni veterane in triplex acies, cioè su tre file da quattro, tre e ancora tre coorti ciascuna. Copre le ultime due linee con uno “schermo” (parolone tecnico!) di cavalleria. Sulla cima vanno le salmerie, protette dalle due legioni di reclute (la Undicesima e la Dodicesima), tutti gli auxiliarii rimanenti e un bastione di terra.

La tattica dei Galli è un po’ diversa: fa più paura, ma meno danni. Cesare dice che gli Elvezi si schierano a falange, stando così vicini che gli scudi si sovrappongono. Non c’è mai programmazione: tutto si risolve sempre in una grande carica disorganizzata, dove ognuno combatte per la propria maggiore gloria, seguita da una finta ritirata per attirare i nemici fuori formazione. Beh, potrà funzionare fra barbari, ma i Romani non lo sono. Cesare sa che l’unica speranza che gli Elvezi hanno è di sfondare subito la prima linea, altrimenti alla seconda carica perderanno lo slancio. E infatti la prima linea romana tiene bene e scaglia i pila dalla posizione sopraelevata. Qui c’è il dramma: il pilum ha un’asta di ferro dolce che ha la spiacevole abitudine di piegarsi dopo essersi conficcata. I Galli non riescono ad estrarli, quindi sono costretti a lasciar perdere lo scudo e combattere col fianco sinistro scoperto. I veterani non si lasciano nemmeno tentare dalla falsa ritirata. Così gli Elvezi si disperdono, tallonati dai Romani in perfetto schieramento, con i gladi in pugno.

Battaglia di Bibracte – fase 1: i Romani mettono in rotta gli Elvezi.

Gli Elvezi si raccolgono a sud-est, dov’è un monte. I Romani ruotano sulla sinistra per inseguirli, lasciando il fianco destro esposto. Una carica di quindicimila fra Boi e Tulingi, calando da ovest, ne approfitta, e tenta l’accerchiamento. Un’ottima mossa: difende la retroguardia elvetica e attacca un punto debole… se non fosse che le terze schiere di ciascuna delle quattro legioni fanno conversione, bloccano la cavalleria e… la isolano da tutti gli altri! Abbiamo così un assalto su due fronti. Un massacro.

Battaglia di Bibracte – fase 2: le schiere più arretrate del triplex acies compiono un assalto su due fronti.

Il più è fatto. I nemici non hanno alcuna coesione, è questione di ore. Ore di caccia alle farfalle, direi. Per primi muoiono gli stupidi che si erano rifugiati su quel monte a chilometri dal campo-base, poi muoiono quelli che hanno cercato di proteggere la popolazione del campo stesso. Qui i Galli danno del filo da torcere ai legionari: i carri erano stati disposti a mo’ di trincea, così da offrire un posto sopraelevato per gli arcieri e un riparo per lancieri, picchieri e quei pochi fanti pesantemente armati rimasti. I Romani vincono. I Romani si impossessano di tutto. Era iniziata all’ora di pranzo, è finita a notte fonda.

Battaglia di Bibracte – fase 3: la caccia alle farfalle.

I superstiti sono 130.000, dice Cesare (ma mai fidarsi dei numeri di un politico, specie se è dell’antichità…). Dopo quattro giorni e cinque notti di cammino ininterrotto, giungono presso i Lingoni. Cesare minaccia di considerare chiunque li aiuti alla stregua degli Elvezi. Non può inseguirli subito, l’esercito ha bisogno di riposare. Ma tanto ora sono gli Elvezi ad essere a bocca asciutta! Infatti offrono la resa. I loro ambasciatori si buttano ai piedi di Cesare, supplicando e piangendo, ma l’unica cosa che gli cavano di bocca è di aspettarlo lì dove sono: verrà lui. Così dice, così fa. Arriva, pretende ostaggi – e questa volta glieli consegnano, oh, se glieli consegnano! – , armi e tutti i rifugiati. Di notte, seimila di questi fuggono in direzione dei Germani, ma Cesare sa sempre tutto e li fa catturare e consegnare a domicilio. Cosa più importante, ordina ad Elvezi, Tulingi e Latovici di tornare da dove sono venuti, e di non mettergli mai più i bastoni fra le ruote. Per assicurarsi di non combinare un pasticcio sul lungo termine, comanda agli Allobrogi di finanziarli e dar loro da mangiare, così che possano ricostruire le città e i villaggi bruciati. Il ‘pasticcio sul lungo termine’ sarebbero i Germani che passano il Reno, si insediano nei territori dei vinti e diventano scomodi vicini di casa di Roma… Elvezi assenti o presenti che siano. I Boi, etnia minore ma di grande valore militare, gli Edui offrono il soggiorno sui loro territori. In futuro saranno loro concessa libertà e pari condizioni di vita (sono sempre dei vinti, avrebbero sempre potuto essere schiavi!).

Nell’accampamento elvetico ci sono i registri con dati nominali e numerici di tutti i disgraziati gli individui che hanno partecipato alla migrazione. Cesare riporta: 263.000 Elvezi, 36.000 Tulingi, 32.000 Boi, 23.000 Ràuraci, 14.000 Latovici. In tutto gli uomini adatti alle armi erano 92.000. Tutte le genti insieme, uomini, donne e bambini, constavano di 368.000 persone.

Ora indovinate quanti sono quelli che tornano a casa.

300.000? 200.000?

Nemmeno alla lontana. Cesare ne censisce 110.000. Gli altri 258.000 sono morti, schiavi o fuggiaschi in altre lande. Ma, ripeto, non ci si può fidare troppo di queste cifre. È impressionante notare come un romano ne andasse fiero, mentre un moderno occulterebbe tutto, distruggerebbe ogni prova, minimizzerebbe…

Tutto risolto, ora, no? Già vediamo Cesare ricevere congratulazioni (magari intrise di lacrime, come sembra piacere ai barbari) da tutti gli angoli delle Gallie, un serto d’alloro in testa, seduto sulla sella curule, con un piede davanti e l’altro dietro, così romano… ma, ehm, no, questa è la mia fantasia. O meglio, queste cose sono successe davvero, ma non finisce qui. Gli ambasciatori chiedono il permesso di indire un’assemblea “pangallica”, per discutere di questioni di interesse comune, e lo ottengono. Dopo che si è tenuta questa misteriosa riunione, i principes dei popoli alleati di Roma vanno a riferirne il contenuto in gran segreto. Parla Diviziaco, che ci racconta i giochi di potere della Gallia prima del colpo di genio degli Elvezi.

Ci sono due fazioni: una comandata dagli Edui, l’altra dagli Arverni. Da molti anni ormai si contendono il predominio, sempre però in condizioni di parità: nessuno vince mai in modo definitivo. Senonché negli ultimi tredici anni Arverni e Sèquani, loro alleati, hanno assoldato dei Germani d’oltre Reno. Hanno iniziato con quindicimila, ma questi mercenari, vedendo le lussureggianti distese galliche, si sono fatti venire l’acquolina in bocca, e hanno chiamato via via sempre più gente. Attualmente la Gallia ospita la bellezza di 120.000 Germani. Col loro aiuto gli Arverni stravincono, a tal punto che gli Edui sono obbligati a consegnare ostaggi ai loro vicini Sèquani, giurare di non chiedere aiuto ai Romani e di sottostare per sempre ai Galli. Diviziaco è l’unico ad essersi rifiutato di giurare e di consegnare i figli, dunque è fuggito a Roma per chiedere aiuto di fronte al Senato…

Ma ai Sèquani vincitori era accaduta cosa ancora peggiore che agli Edui vinti […]

perché Ariovisto, re dei Germani, ha occupato un terzo dell’intera Gallia, e ora ne vuole un altro terzo da regalare ai 24.000 Arudi che lo hanno raggiunto. Insomma, in pochi anni i Galli verranno cacciati dal loro paese.

Ad ogni modo, Diviziaco procede dicendo che Ariovisto

Era un uomo barbaro, iracondo, temerario: i Galli non potevano sopportare più a lungo la sua dominazione. Se non avessero potuto ottenere aiuto da Cesare e dai Romani, sarebbero stati costretti a fare quello che avevano fatto gli Elvezi: emigrare dalla patria in cerca di un’altra sede, di un altro paese lontano dai Germani, e tentare la sorte qualunque cosa accadesse. Se Ariovisto fosse venuto a conoscenza di queste loro parole non c’era dubbio che avrebbe inflitto gravi supplizi agli ostaggi che aveva con sé.

Cesare può fare qualcosa a riguardo, conclude il princeps degli Edui. A questo punto, poiché non è carino che degli uomini grandi e grossi come i temutissimi Galli mostrino così tanta virilità nell’implorare, tutti i presenti si gettano alle ginocchia di Cesare, sempre in lacrime. Tutti tranne i Sèquani. Che siano dei Veri Uomini? Cesare non ne è sicuro, chiede loro perché siano ancora in piedi con gli occhi a terra e il broncio. Vedendo che nessuno di loro risponde, lo fa Diviziaco, ribadendo che i Sèquani sono così spaventati dai loro alleati Germani da non osare lamentarsi o tantomeno chiedere aiuto nemmeno quando Ariovisto non li guarda.

Cesare si stufa della scenata, conforta i suoi pulcini e li manda via. Ha diversi motivi per intervenire in loro difesa, primo fra tutti il fatto che non è bene che i Germani prendano l’abitudine di guadare il Reno a loro piacimento.

Ora c’è una parte bellissima quanto lunga: la diplomazia. In questo non meno che negli assedi, Cesare è un maestro.

La prima ambasciata romana spedita ad Ariovisto chiede un colloquio personale tra i due generali in un punto a metà strada tra gli accampamenti. Ariovisto ribatte che, se Cesare ha bisogno di qualcosa, può venire a chiederla direttamente al suo insediamento: lui non gli andrà incontro, anche perché gli pare strano che Roma abbia qualche interesse nei territori di sua giurisdizione. Cesare risponde per le rime:

[…] Giacché Ariovisto, che aveva avuto da lui [Cesare stesso] durante il suo consolato, e dal Popolo Romano, la concessione tanto grande di essere chiamato re e amico, dimostrava così poca riconoscenza che, invitato ad un colloquio, ne risultava infastidito e rifiutava uno scambio di idee su affari di comune interesse, gli faceva queste richieste: in primo luogo, di non far passare più contingenti di Germani al di qua del Reno per stabilirsi in Gallia; poi, di restituire gli ostaggi degli Edui in sua mano e di permettere ai Sèquani di rendere quelli che essi detenevano; infine di non arrecare danni agli Edui e non portare guerra ad essi né ai loro alleati. Se avesse aderito a queste richieste, avrebbe avuto per sempre favore ed amicizia da parte sua e del Popolo Romano; altrimenti, attenendosi alla deliberazione presa dal Senato sotto il consolato di Messala e Pisone, per cui chi aveva il governo della Provincia doveva difendere gli Edui e gli altri amici del Popolo Romano nell’interesse di Roma stessa, egli non avrebbe lasciato impunite le offese arrecate agli Edui.

Ariovisto fa ancora lo gnorri. Dice che è diritto di guerra che i vincitori spadroneggino sui vinti; anche Roma comanda i suoi sottoposti come le aggrada, non secondo le disposizioni altrui. Dunque, visto che lui non s’impiccia negli affari romani, che Roma non si impicci nei suoi. Gli Edui, ribadisce, lo hanno sfidato per primi… e hanno perso, diventando così suoi tributari. Si dà il caso che la sola presenza di Cesare stia interdicendo la riscossione di tali tributi. Pertanto, non restituirà gli ostaggi, ma nemmeno scatenerà una guerra ingiusta, se Roma si fosse attenuta ai patti; sennò, Ariovisto scoprirà che essere amico di Roma non gli serve a nulla. Quanto al fatto che Cesare promette vendetta agli Edui, si ricordi che nessuno era uscito indenne da un combattimento contro di lui. Venga pure ad attaccarlo quando vuole: conoscerà il valore dei Germani, così forti che da quattordici anni non hanno una residenza fissa!

Mentre gli ambasciatori stanno ancora riferendo le parole di Ariovisto, giungono i corrieri di Edui e Treveri, altri alleati romani. Gli Edui sono venuti solo per lagnarsi dell’invasione degli Arudi, che stanno mettendo a ferro e fuoco la regione. I Treveri invece portano notizie interessanti: i fratelli Nasua e Cimberio, alla testa di trecento tribù dei Germani Svevi, si accingono a passare il Reno. Non c’è un minuto da perdere, dice Cesare: se permetterà a questi Svevi di ricongiungersi ad Ariovisto, la guerra potrebbe tirare troppo per le lunghe. Dunque fa il pieno di grano e si dirige a marce forzate da Ariovisto (proprio come quest’ultimo gli aveva consigliato, sigh). Dopo tre giorni viene a sapere che i Germani si stanno spostando verso Vesonzione (Vesontio, capitale dei Sèquani, odierna Besançon), e li precede. La città è ben rifornita e fortificata, non è il caso di lasciarla ai nemici. È in una posizione particolarissima: il fiume Dubis la circonda quasi completamente, “con un corso che pare disegnato col compasso” (dBG, I, XXXVIII). Nell’unico punto dove non scorre il fiume, c’è un monte a far da rocca alla città. Anche così, lo spazio “asciutto” si estende per meno di 1600 piedi (480 metri).

L’odierna città di Besançon. Si distinguono bene il fiume e il monte che la circondano per intero.

Ora, sarebbe bello vedere un assedio barbaro ad una città simile, ma la Fortuna ce lo nega. Infatti Cesare, trattenutosi il minimo indispensabile per i rifornimenti, ha fretta di rincorrere Ariovisto. Senonché

Colpo di scena: i mercanti della città hanno diffuso tra le giovani reclute il terrore per i Germani, che si è esteso a macchia d’olio fino ai veterani (come i soliti, importanti centurioni) e ai tribuni, che pure non sanno nulla di guerra e li si può scusare. Tutti fanno testamento, alcuni tentano di ottenere una licenza per abbandonare il campo, altri rimangono al campo a far la guardia al proprio onore. Dei centurioni si spingono persino ad avvertire Cesare che, al momento dello scontro, i legionari non si sarebbero mossi, e hanno l’ardire di chiedergli i suoi piani.

Che perdita di tempo. Cesare è costretto a convocare tutti i centurioni e li rimprovera con violenza. Prima di tutto chiarisce che è a sua discrezione scegliere l’itinerario e la strategia, e che non si confiderà con dei semplici sottufficiali. Poi schernisce quelli che temono la reputazione dei Germani: cos’hanno provato finora, dopotutto? Non hanno mai affrontato dei veri Romani. Forse questi centurioni non credono in se stessi, né nel loro generale? Dunque sì, i soldati si muoveranno per lui, perché Cesare non ha mai dato loro motivo di lamentarsi della sua condotta: la sua intera vita dimostra la sua integrità – e questa è una frecciata per il Senato, badate – e la campagna contro gli Elvezi dimostra la sua fortuna. Per cui non solo non rimanderà lo scontro, ma accelererà l’arrivo della resa dei conti, così i suoi uomini sceglieranno cos’hanno di più caro: la pelle, o l’onore? Se si dimostreranno dei codardi, parola di Cesare, combatterà i Germani con la sola Decima legione, di cui non dubita minimamente.

La reazione è esemplare ed esilarante:

Al sentire queste parole, sorprendentemente tutti cambiarono idea e in tutti sorse la voglia di agire e un gran desiderio di combattere: per prima la Decima legione, per mezzo dei tribuni militari, ringraziò Cesare per il lusinghiero giudizio espresso e si disse  prontissima alla lotta. Poi tutte le altre legioni chiesero ai tribuni militari e ai centurioni dei primi ordini di scusarli presso Cesare per aver detto che la suprema direzione della guerra non era compito del loro comandante.

Quanto lo amano! Pendono dalle sue labbra!

Cesare accetta graziosamente le scuse e leva il campo verso le tre di notte, direzione nord-est: si va a trovare il buon vecchio Ariovisto. Dopo sei giorni arrivano a ventiquattro miglia (trentasei chilometri) da lui. Ora i Germani si convincono che i Romani fanno sul serio, quindi accettano il colloquio e lo fissano per cinque giorni dopo. Le condizioni sono che entrambe le parti non portino i fanti con sé e, siccome tutta la cavalleria di Cesare è gallica e pertanto inaffidabile, fa montare i legionari della Decima in groppa ai cavalli barbari. Pensate come dovevano essere buffi! Uno di questi legionari fa dell’umorismo: ora non solo Cesare usa la Decima come sua personale scorta, ma ha addirittura nominato tutti loro cavalieri!

Perché non ridete? Ah, sì, manca un pezzo. Per i Romani essere cavalieri significa appartenere al ceto equestre, cioè essere ricchi sfondati. Cosa che i soldati decisamente non sono…

L’incontro è un riassunto di tutte le ambascerie di qualche giorno prima: Cesare dice che tutto quello che Ariovisto possiede è una concessione per nulla dovuta di Roma, e dunque gli ingiunge di non scocciare più di tanto i suoi alleati.

Secondo la consuetudine di Roma i suoi alleati ed amici non solo non dovevano perdere nulla di quel che già avevano, ma dovevano vedere accresciuta la dignità, l’onore, la potenza: come si poteva permettere, quindi, che fosse tolto loro quello che avevano offerto all’amicizia del Popolo Romano?

E ripete le condizioni: niente guerra con gli Edui, restituzione degli ostaggi, fine delle migrazioni. Anche Ariovisto ripete le solite vanterie, aggiungendo che l’amicizia con Roma terrà finché sarà un vantaggio. Nel momento in cui dovesse diventare un peso, non si farà scrupolo a rompere qualunque trattato. Meglio combattere questi insulsi nanetti scuri che perdere i tributi galli! Ariovisto può benissimo dire che i rinforzi da oltre Reno gli servono a difendersi, non ad attaccare, dunque che vuole Cesare, per venire ad annoiarlo fin nel suo feudo? L’amicizia con gli Edui è solo un pretesto, visto che i due “alleati” si sono traditi vicendevolmente più volte…

Ecco le minacce/proposte di Ariovisto: se i Romani non si ritirano dalla sua fetta di paradiso, diverranno dei nemici, tanto più che certi nobili romani gli hanno mandato degli ambasciatori tramite cui giurano che, se ucciderà Cesare, si guadagnerà l’amicizia di tutti. Se invece i Germani verranno lasciati liberi di dominare la Gallia, Cesare diventerà ricco, e potrà intraprendere tutte le guerre che vorrà: gli stessi Germani le vinceranno per lui.

In quanti rifiuterebbero? Pochissimi. Tra cui Cesare, ovviamente. Come se non avesse sentito, insiste che la Gallia non è dei Germani almeno tanto quanto non è romana: molti anni prima Roma aveva sconfitto una ribellione di Arverni e Ruteni, ma il console Fabio Massimo li aveva perdonati e lasciati liberi. Semmai la Gallia ha il diritto, per grazia del Popolo Romano, all’indipendenza.

Intanto che Cesare vi annoia con queste formalità, la scorta di Ariovisto sta insultando e scagliando dardi e pietre contro quella di Cesare. Meglio ritirarsi: il generale interrompe il discorso a metà, torna dai suoi e ordina di non rispondere alle ingiurie: anche se la Decima travestita da cavalleria non avrebbe alcun problema a farne strage, non vuole che gli si possa rinfacciare un attacco a tradimento. Di buono c’è che l’esercito, prima immagine della codardia, vuole ora il sangue degli invasori.

Due giorni dopo Ariovisto chiede un altro colloquio. Gli ambasciatori che Cesare manda, tali Caio Valerio Procillo e Marco Mezio, vengono pubblicamente accusati di essere spie e incatenati. Poi i Germani tolgono il campo, direzione quello romano, e lo superano. Si stabiliscono due miglia più in là, sperando di tagliargli i rifornimenti. Da allora per cinque giorni i Romani si schierano in formazione da battaglia, ma i Germani si accontentano di infastidirli con la sola cavalleria.

Romani e Germani si incontrano. Poi Ariovisto sposta il campo per far morire di fame Cesare.

Cesare ci spiega che i cavalieri sono divisi in gruppi da seimila unità, ognuna delle quali protetta da un fante scelto tra i migliori: in caso di ritirata, questi copriranno i cavalieri; in caso di disfatta, i fanti saranno abbastanza agili da aggrapparsi al volo alla criniera dei cavalli e scappare con loro.

Cesare, sempre con lo spettro della fame addosso, abbandona il campo, scavalca di nuovo i Germani e, schierato in triplex acies come a Bibracte, costruisce un nuovo campo più piccolo: le prime due linee tengono a bada la cavalleria germanica, l’ultima scava. Qui piazza due legioni e parte degli auxiliarii, li fa fortificare e torna con le rimanenti quattro legioni al campo grande. Perché i Germani hanno dichiarato guerra, ma non combattono? Cesare viene a sapere che aspettano gli auspici propizi nel novilunio. Quindi deve costringerli ad uscire dal campo prima possibile. Infatti il giorno dopo, presidiati i due campi e protetto quello minore con gli auxiliarii, porta le sue legioni fresche di riposo davanti all’accampamento nemico: i nemici non hanno scelta.  Si schierano per etnie: Arudi, Marcomanni, Triboci, Vangioni, Nemeti, Sedusi, Svevi. Alle loro spalle, ad impedire la fuga, i carri con cibo, donne e bambini.

Prima vera battaglia contro i Germani. Il nemico si è auto-proibito la ritirata: non mi sembra il massimo dell’astuzia!

È il momento per Cesare di dimostrare il suo valore: si sposta nella sua ala destra e attacca personalmente la parte debole dello schieramento nemico, in mezzo ai suoi soldati. Al segnale, i Romani si lanciano con così tanta foga che non hanno il tempo di lanciare i giavellotti: in un attimo sono troppo vicini per poter fare qualche danno. Li gettano a terra e combattono corpo a corpo. Molti legionari, notando la compattezza della falange germanica, saltano sul tetto di scudi, li strappano ai poveretti di sotto e attaccano dall’alto. L’ala sinistra viene rapidamente dispersa.

Dalla parte opposta, è l’ala sinistra di Cesare a rischiare lo sfondamento. Per fortuna Crasso (figlio del Crasso triumviro e comandante della cavalleria) vede il disastro potenziale e manda la terza linea del triplex acies a rinforzare la zona: si rivelerà fondamentale. I nemici vengono sopraffatti in men che non si dica e si danno alla fuga per i boschi fino alla sponda del Reno, a cinque miglia dal teatro di battaglia. Se solo non avessero messo quei carri di sghimbescio sulla via più rapida… Ad ogni modo, pochi sono quelli che riescono ad attraversare il fiume a nuoto o su una zattera, come Ariovisto. Il resto dei Germani viene catturato e ucciso dai Romani desiderosi di rivalsa. Persino Procillo e Mezio, i due ambasciatori fatti prigionieri, si salvano.

Campagna del 58 a.C.: il riassunto dell’intero articolo!

Ora, ricordate che gli Svevi si stavano accingendo ad attraversare il Reno, e che Cesare si era mosso proprio per impedire che si aggregassero ad Ariovisto? Beh, ora che sentono della disfatta non sono più molto sicuri che sia una buona idea: fanno dietrofront e tornano nelle loro terre, aprendosi la via tra gli Ubii (la gente che abita sulla sponda del Reno) e venendo da loro decimati.

Cesare ha fatto quel che può per quest’anno, e ha pure finito in anticipo sulla stagione della guerra (!), quindi se ne torna fra i Sèquani, molla le legioni nei castra hiberna e da solo fa ritorno in Cisalpina, per amministrare la giustizia: è quello il suo compito di proconsole, ufficialmente…

Fine Libro Primo: battaglia di Bibracte contro gli Elvezi e battaglia in Alsazia contro i Germani.

***

* Lucio Cassio Longino, console con Mario nel 107, partecipò con lui alle Guerre Cimbriche, e venne ucciso insieme alle sei legioni che guidava quando si allontanò troppo dalla Provincia romana.

6 thoughts on “De Bello Gallico (II) – Libro Primo

  1. Pingback: De Bello Gallico (III) – Libro Secondo | Amnell

  2. in certi testi ,anche scolastici, i grandi personaggi della storia sembrano letteralmente essere nati “grandi”, e aver vissuto da “grandi” e la descrizione delle loro gesta sembra la diretta conseguenza di questo. Per loro compiere grandi gesta sembrano già scontato, quasi fosse “normale” ( o facile )per loro compiere imprese.In questa traduzione di Amnell i “grandi” tornano ad essere persone,dotate, ma(relativamente) normali che provano sentimenti,sensazioni ed altro. E’ solo la grandezza del le loro gesta che li innalza e ne fa dei miti.La trovo una lettura molto democratica della storia,perché quando qualcuno (anche commettendo qualche errore o vincendo dubbi e timori che tutti gli esseri umani hanno) con costanza ed impegno mette a frutto le proprie doti compiendo cose mirabolanti,di certo non usa solo i nobili natali ma doti personali che solo con una ferrea volontà si può mettere a frutto.
    Niente in guerra ti viene completamente regalato…e se anche succede qualcosa di simile bisogna avere l’abilità di adeguarlo ai tuoi piani (o viceversa come dice Sun-zu)…..e quando persone di modesti natali hanno saputo fare questo : Roma li ha elevati.
    Io ammetto di aver letto pagine e pagine di questa traduzione molte volte….ma assolutamente non “stanca” anzi…tende a coinvolgere sempre di più,addirittura spingendo ad approfondire …
    Brava.
    Gladiumibericum

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    • Grazie! A distanza di sedici mesi cambierei molte cose e spero di fare meglio col Libro Settimo, di cui è indispensabile parlare in un certo modo, ben più ragionato. Non sembra, ma è abbastanza difficile porre il discorso in modo comprensibile a tutti. Ancora non credo di esserci riuscita, vedremo. 😀

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  3. Ben venga un ulteriore aumento dell’uso della ragione (ma ne vedo già molta) nel tradurre il settimo libro,ma spero questo non vada a discapito della “freschezza” della narrazione e soprattutto del mostrare (per quanto concesso dalla documentazione a nostra disposizione) anche i sentimenti e gli stati d’animo dei protagonisti che spesso mostrano i fatti sotto luna nuova luce e che sono uno dei grandi “valori aggiunti” alla traduzione.
    Non posso fare a meno di ricordare un vecchio film “Il GLAdiatore” che nonostante alcune stupidaggini (….la panoplia delle armi mi sembra in alcuni casi inesatta … l’assalto dei legionari privo del preventivo lancio dei “pilum”, e che,invece di impugnare la lancia “d’urto”,hanno ancora in mano i suddetti pilum che diventeranno inservibili al primo scontro…) appassiona. E questo perché i fatti narrati (che ben conosciamo) diventano lo sfondo dei forti ed intensi sentimenti che tratteggiano i protagonisti e fanno capire come “umanamente” gli uomini di quei tempi vivessero tali “forti” emozioni.Ed una delle cose che mi piace di più in questo “…Gallico” è proprio capire cosa provavano i protagonisti (oltre naturalmente a Cesare) di fronte a scelte,imprevisti,..e battaglie.
    Buon lavoro.
    Gladiumibericum.

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  4. Perché il centurione impaurito che informa Cesare della presenza dei Galli sul monte dove sarebbe dovuto esserci Labieno si chiama prima Considio e poi Canidio?
    Pignoleria a parte, sei stata capace, col tuo stile, di far appassionare un quindicenne a quest’opera. Tantissimi complimenti 🙂

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    • Perché l’ho fuso con Caninio Rebilo, che qui è un legato di Cesare e che poi comparirà nella guerra civile, LOL. Ho corretto, il nome giusto è Considio.
      Grazie mille, questo è uno di quei refusi che per me è impossibile trovare da sola! Grazie grazie grazie! 😀

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